Ha scritto Raffaele Simone in “Il paese del pressappoco” – Garzanti editore
(2007) -: (…). L’Italia, (…), è un paese in cui può accadere di tutto. I paesi in
cui “può accadere di tutto” sono quelli in cui un gran numero di atti derivanti
dalla sfera pubblica non hanno esito sicuro, ma il cui risultato è indefinito,
incerto o sicuramente fallimentare. In un paese di questo genere, è bassa o
nulla la fiducia dei cittadini nell’efficacia degli atti e prestazioni dei
servizi e dei poteri pubblici. Nessuna delle prestazioni offerte da queste reti
ha una qualità scontata: il risultato che si ottiene incorpora sempre un
elemento di sorpresa. In un paese in cui lo stato sia un’entità condivisa, al
contrario, gli atti sono derivanti dalla sfera pubblica il cui esito sia
imprevedibile sono pochi, rari, eccezionali… Da questo punto di vista il nostro
non è allo stesso livello dei paesi davvero infelici: certo, non è come Haiti o
il Sudan, ma sta – ci piaccia o no – sulla stessa scala, anche s e ne occupa
l’estremo positivo. La differenza si può descrivere così: nei paesi in cui non
può accadere di tutto, l’atteggiamento previo dei cittadini dinanzi ai servizi
principali è di attesa positiva e fiduciosa, perché tutti sanno e credono che
accadrà più o meno quel che è previsto. Negli altri, è invece di attesa
negativa o indifferente: nessuno dà più per scontato che un’operazione
qualunque avrà esito sicuro. La risposta di un pronto soccorso o di
un’ambulanza, il funzionamento di un mezzo di trasporto pubblico, il
comportamento di un poliziotto o di un funzionario, l’efficienza di un
ospedale, la qualità e la decenza di una scuola, il funzionamento di un
aeroporto, il rimborso di una società assicurativa… Accanto a ciò, è
straordinariamente italiano il fenomeno connesso: la virtuale impossibilità di
identificare i responsabili delle inefficienze e di rimuovere la causa del
difetto. (…). Gli italiani, sfibrati dall’inadeguatezza delle prestazioni e dei
servizi che ricevono e privi come sono di senso di appartenenza, versano in un
perpetuo stato di ansia, di delusione, di eccitazione astiosa, d’impazienza,
perfino di odio civico. Hanno sempre i nervi scoperti, si sentono presi nella
rete di un impalpabile ma micidiale bellum omnium contra omnes, e sono così
ridotti ad essere i più poderosi masticatori di chewing gum del mondo… Con una
formula alta, per descrivere lo stato in cui versiamo potremmo prendere in
prestito questa citazione: “Gli uomini sono malvagi perché infelici, perché in
preda alla tristizia che ne diminuisce la gioia o il potere di esistere e che
li precipita spesso sempre più in basso, avvitandoli in una spirale di
distruzione e autodistruzione. Lo Stato (con la sua inefficienza, la sua
irrazionale crudeltà, la sua sostanziale estraneità alla nostra vita) è uno dei
motivi principali della nostra tristizia collettiva. (…). Tratto da “Gaber che disse no al mondo di mezzo”
di Massimo Fini, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 23 di aprile 2021: “Io
non mi sento italiano” è un album di Giorgio Gaber pubblicato postumo. Vi si
sente tutta l’amarezza, la disillusione, il disincanto di un uomo che ha
attraversato la vita italiana dal 1939 al 2003. (…). …per trovare un’Italia
diversa da quella attuale, con dei valori, non è necessario, come fa Giorgio,
rifarsi al Rinascimento. Basta ricordare tempi assai più recenti che entrambi
abbiamo vissuto, quelli del dopoguerra e degli anni successivi. Allora
l’onestà, cardine di ogni convivenza civile, era un valore per tutti, per la
borghesia, se non altro perché dava credito, per il mondo contadino, dove
violare la stretta di mano costava l’emarginazione dalla comunità, per il mondo
proletario che aveva una sua etica sia pur diversa, nei modi ma non nella
sostanza, da quella di noi giovani borghesi. La solidarietà, (…), stava nelle cose.
A parte una sottilissima striscia di borghesia che aveva però il buon gusto e
il buon senso di non ostentare la propria ricchezza, eravamo tutti più o meno
poveri. Ed è fra poveri e non fra ricchi che ci si dà una mano. Milano, dove
Gaber, come me è nato, era una città di quartieri e nel quartiere ci si
conosceva e ci si aiutava tutti (…). Noi ragazzi vestivamo tutti allo stesso
modo, calzoncini quasi all’inguine con i quali giocavamo a calcio in strada o
nei terrain vague che gli americani ci avevano lasciato come regalo dei
bombardamenti. Le griffe, le scarpe firmate, non esistevano ancora. Questo
clima durò fino al boom economico e, per qualche anno, anche oltre. Il boom lo
vivemmo in modo ingenuo, naif, non volgare. Era bello, per ragazzi e adulti,
dopo che per anni si era tirata la cinghia, assaporare un po’ di benessere. Ma
un tarlo invisibile e silenzioso aveva cominciato a corrodere le nostre vite.
Nel 1960 entrai per la prima volta, (…), in un Supermarket. (Mi)
sembrò il Paese di Bengodi. Era invece il cavallo di Troia entrato in città e
che ci avrebbe tolto, per sempre, l’innocenza. Ma erano comunque ancora i
Sessanta, gli “anni blu” della mia giovinezza, ciò che per Fitzgerald era stata
“l’età del jazz”. Ma quel che di ludico e libertario c’era stato nella
contestazione giovanile era ormai agli sgoccioli. Arrivarono le Brigate Rosse
che presero sul serio le parole d’ordine che i figli dei borghesi gridavano
durante le manifestazioni, “fascista basco nero, il tuo posto è al cimitero”,
“uccidere un fascista non è un reato”. Il Sessantotto fu, per usare una frase
che Luigi Einaudi applicò alla massoneria, “una cosa comica e camorristica”,
figli della borghesia che avrebbero dovuto rovesciare la borghesia, una cosa
che avrebbe fatto rivoltare nella tomba il vecchio Marx. Ma nelle prime BR, a
differenza del Sessantotto, c’era ancora un contenuto ideale sia pur espresso
in modi e in tempi sbagliati perché il marxismo-leninismo cui si richiamavano
sarebbe morto di lì a poco. È vero che i primi brigatisti non sembravano avere
alcuna considerazione della vita altrui, ma a rischio della propria. In seguito
anche nel terrorismo ci sarà una deriva che ha parecchio a che fare con quella
della società civile che stava nel frattempo maturando. Per i brigatisti di
seconda e terza generazione la vita altrui continuava a non contar nulla, ma
della propria avevano grande considerazione. L’omicidio di Walter Tobagi,
consumato da due giovani male educati, segnerà il culmine di questa fase, e
infatti Barbone e Morandini, a differenza dei primi brigatisti, si pentiranno
subito per avere i vantaggi della legislazione premiale. È il segno, sia pur
sub specie terrorista, di un individualismo sfrenato che sta invadendo la
nostra società. Finito il terrorismo arriveranno gli anni Ottanta, i beati anni
della “Milano da bere”. Per la verità se la bevevano soprattutto i socialisti.
Ma il denaro girava e gli italiani credettero a questo nuovo boom. E non
vollero vedere ciò che c’era sotto, e cioè che la classe dirigente, politica ed
imprenditoriale, si era venuta corrompendo in modo sistematico. Fu Mani Pulite,
nel ’92-94, ad aprir loro gli occhi. E fu l’ultima volta che la popolazione
italiana, di fronte all’arroganza del potere, provò un legittimo e sincero
sdegno. Ma nel giro di soli due anni, anche grazie all’appoggio massiccio dei
media a loro volta corrotti fino al midollo, i magistrati divennero i veri
colpevoli e i ladri le vittime. E qui si ruppero gli ultimi argini. Di fronte a
simili esempi anche il cittadino normalmente onesto si chiese “ma devo essere solo
io il più cretino della partita?”. E così la corruzione, fattuale ma, cosa
ancor più grave, morale, discese giù per li rami invadendo quasi l’intera
società civile. Lo dimostra il fatto che non era venuta meno tanto la sanzione
penale quanto quella sociale. Prendo il caso di Luigi Bisignani solo a titolo
di esempio. Bisignani fu condannato a due anni e sei mesi nell’ambito
dell’inchiesta Enimont, cioè per un reato contro la PA. Si penserebbe che un
soggetto del genere nella pubblica amministrazione non potrebbe metter più
piede. Invece lo troviamo a metà degli anni Novanta come consigliere dell’ad
delle FS Necci condannato per lo scandalo di quella che verrà chiamata “Mani
Pulite 2”. Diventerà in seguito consigliere di Paolo Scaroni, ad dell’Eni. Oggi
Bisignani è un editorialista di vari giornali. Insomma importanti
amministratori dello stato o del parastato non avevano nessuna remora a
frequentare un soggetto come Luigi Bisignani che Wikipedia non riesce a
definire meglio che come “faccendiere”. Quello che voglio qui dire è che erano
saltati tutti i valori, preideologici, prepolitici, prereligiosi, che avevano
contrassegnato il tessuto sociale dell’Italia degli anni Cinquanta e dei primi
Sessanta: onestà, onore, dignità, lealtà, rispetto delle regole. Chiunque tu ti
trovi di fronte oggi non puoi sapere se è una persona per bene o un corrotto.
In fondo è la storia del “mondo di mezzo” romano allargato a livello nazionale.
Tentando di fare un ritratto dell’Italia contemporanea scrivevo nel mio libro
“Senz’anima” del 2010: “È un’Italia (…) devastata dalla Televisione che sembra
aver concentrato in sé l’intera vita nazionale dettando, insieme alla sua
gemella Pubblicità che è il motore di tutto il sistema, i consumi, i costumi,
la ‘way of life’, le categorie, i protagonisti e che ha finito per distruggere
ogni cultura che non sia la sua subcultura. È un’Italia che ha perso ogni
freschezza, la sua antica grazia, senza sorriso, cupa, volgare, ossessionata
dal denaro, dal benessere, dagli ‘status symbol’, dai gadget, dagli oggetti.
Un’Italia ipocrita, pronta a commuoversi su tutto, solo per potersi
autocompiacere della propria commozione, ma sostanzialmente indifferente
all’altro, al vicino, al prossimo. Un’Italia senza misericordia. Un’Italia
ormai inguaribilmente corrotta, nelle classi dirigenti come nel comune
cittadino, intimamente, profondamente mafiosa, come sempre anarchica ma senza
più essere divertente, priva di regole condivise, di principi, di valori, di
interiorità, di dignità, di identità. Un’Italia senz’anima”. Giorgio Gaber è
morto nel 2003. Ma potrebbe dire oggi ancor più di allora: “Io non mi sento
italiano”.
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