A lato. Edward Hopper, "Portrait of Orleans" (1950), olio su tela.
Meritoria assai l’opera intrapresa dalla scrittrice siciliana Elvira Seminara che vuole “costruire” le immagini e/o le memorie – per gli umani del futuro – di quelle che sono state le “sfere emotive” degli umani al tempo della “pandemia”. In questa Sua opera di minuziosa ricerca e ri-costruzione - a futura memoria - di quelle “sfere” ha già percorso la “sfera” della “invidia” – riportata in questo blog nel post del 29 di marzo – e la “sfera” della “nostalgia” – riportata nel post dell’11 di aprile -.
In questa Sua nuova fatica ci porta ad
analizzare ciò che è - o lo è divenuta - la “noia” al tempo della “pandemia”,
da “Torte, Skipe e yoga: la routine che
ci soffoca” pubblicato sull’inserto di Palermo del quotidiano “la
Repubblica” del 15 di aprile 2021: (…). Ve lo ricordate quando (beh, sino a un
anno fa) vari filosofi insistevano a volerci annoiati, magnificando il potere
immaginifico della noia e la sua forza salvifica contro lo stress? Ripetendoci
con zelo che la noia è un privilegio, un riscatto democratico dal tempo
industriale, un salutare passo verso l’Alto, il Profondo, il Respiro cosmico?
Bene. Eccoci serviti. Chi lo avrebbe detto che saremmo arrivati a questo, con
la pandemia: lo stress da noia. Del tempo svuotato. Dell’inazione forzata. Noia
dei giorni troppo uguali, del lavoro da remoto (quando c’è), delle
videochiamate coi volti deformati, della vita compressa, dei rapporti amputati,
dei rituali continui, ossessivi. Della mascherina, delle file davanti al
fruttivendolo, del pane fatto in casa. La noia di misurare la distanza, di
stare in tuta, di ripeterci che il virus ci ha migliorato dentro e fuori. Dei
progetti rinviati e messi a mollo. Noia degli incontri online, delle proteste e
degli appelli. Noia dei Tg, con la sequela ammorbante di quote e percentuali,
di vaccinati e dosi, di tamponi e vittime, di notizie sempre uguali e
contraddittorie, inflitte davanti alla solita immagine, vagamente sadica,
dell’ago che buca il braccio. Noia di un mondo che si ritira come l’acqua
quando a un tratto cala la marea, come in Irlanda, lasciando affiorare nella
sabbia lische e scaglie di fossili. Noia davanti a un orizzonte che resta fermo
come un salvaschermo. Noia di noi stessi, dunque. E questa è la cosa più noiosa
e dura da accettare. Le abbiamo provate tutte. Anche con le parole. L’abbiamo
chiamata emergenza, resistenza, resilienza, risorgenza, ripartenza, con
preferenza per il suffisso “enza”, forse per rimare con sopravvivenza… Negli
ultimi mesi, realizzate ormai tutte le ricette di dolci vegani nel web e tutte
le mosse di Yoga e pilates con tutorial, abbiamo anche sperimentato una tecnica
di pluri-sintonia che sarebbe piaciuta a Husserl, che consigliava di «tornare alle cose» con animo colloquiante.
Ad esempio, puoi ampliare l’Esperienza innaffiando i fiori mentre ascolti in
cuffia canti tibetani e saluti il vicino dal balcone; e si può partecipare a
una riunione aziendale lavorando all’uncinetto fuori dallo schermo. Ma
soprattutto abbiamo sperimentato che si può fare la cyclette, passare
l’aspirapolvere, guidare e persino seguire programmi in tv ascoltando con
l’auricolare podcast o messaggi audio – ed è un traguardo interessante, vista
l’inarrestabile attività sul campo da parte di amici e colleghi. Le abbiamo
provate tutte, sì. Ma soprattutto in casa. Resta addosso, lento, quel senso di
vuoto e disguido, di deviazione e guasto rispetto al tempo. Perché se (forse)
abbiamo ritessuto, con risorse nuove, un tempo interiore e domestico, ci
sentiamo fuori dal tempo sociale, quello scandito da orari e rituali fra lavoro
e pratiche urbane. Ci manca il tempo cittadino, le sue pratiche fra negozi e
bar, la strada fatta di corpi e attriti, suoni e voci mischiati. Mancano gli
altri da ascoltare, da cui farsi riconoscere. La noia non solo è apatia,
abulìa, mancanza. È un sentimento. E si rivolge infatti anche contro se stessi.
«Io è un
paesaggio che mi è venuto a noia»,
ha detto Bufalino, vivacissimo esegeta della noia, il più brillante annoiato
della letteratura siciliana che non a caso tradusse Baudelaire, grande cantore
della noia. Quest’ultimo si annoiava a Parigi e sublimava la fatica in spleen,
il primo si annoiava a Comiso ma convertiva la noia in dialogo, col tempo e i
libri. Una noia che può rimare con gioia, se fa dire a Bufalino, con il suo
sorriso beffardo e malinconico: «La
noia è l’unica felicità che conosco».
Anche Brancati è un grande esperto sul campo, ma la sua è una noia sensuale, un
cedimento della volontà a favore della fantasticheria, un torpore metafisico
che illanguidisce ma non atterra i siciliani. Anzi sembra restituirli,
attraverso il sonno, al tepore del grembo prenatale. Molto più tragica, qualche
anno dopo, la noia cui Moravia ha dedicato un romanzo, un non-sentimento di
paralisi che svuota tutto di senso e di valori. Ma la nostra, che farne? La
noia di oggi, specialmente per i ragazzi, produce ansia, depressione. Questo
ozio forzato non è l’otium decantato dai nostri antenati Orazio e Seneca,
prezioso per diventare saggi, colti e felici, né quello auspicato da Petrarca,
per depurare l’anima. L’ozio indotto – anche quando, nel migliore dei casi, hai
conservato o trasformato il tuo lavoro - ha qualcosa di innaturale e tossico,
coercitivo. Diventa tempo svuotato dentro un tempo squilibrato, dentro uno
spazio domestico che non è più “casa” con le funzioni di una volta, ma un
iperluogo che assomma e mischia usi e stimoli contrastanti. Dove anche
l’intimità è scena condivisa. (…).
Nessun commento:
Posta un commento