"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 16 aprile 2021

Virusememorie. 70 «Davanti alla solita immagine, vagamente sadica, dell’ago che buca il braccio».

 

A lato. Edward Hopper, "Portrait of Orleans" (1950), olio su tela.

Meritoria assai l’opera intrapresa dalla scrittrice siciliana Elvira Seminara che vuole “costruire” le immagini e/o le memorie – per gli umani del futuro – di quelle che sono state le “sfere emotive” degli umani al tempo della “pandemia”. In questa Sua opera di minuziosa ricerca e ri-costruzione - a futura memoria - di quelle “sfere” ha già percorso la “sfera” della “invidia” – riportata in questo blog nel post del 29 di marzo – e la “sfera” della “nostalgia” – riportata nel post dell’11 di aprile -.

In questa Sua nuova fatica ci porta ad analizzare ciò che è - o lo è divenuta - la “noia” al tempo della “pandemia”, da “Torte, Skipe e yoga: la routine che ci soffoca” pubblicato sull’inserto di Palermo del quotidiano “la Repubblica” del 15 di aprile 2021: (…). Ve lo ricordate quando (beh, sino a un anno fa) vari filosofi insistevano a volerci annoiati, magnificando il potere immaginifico della noia e la sua forza salvifica contro lo stress? Ripetendoci con zelo che la noia è un privilegio, un riscatto democratico dal tempo industriale, un salutare passo verso l’Alto, il Profondo, il Respiro cosmico? Bene. Eccoci serviti. Chi lo avrebbe detto che saremmo arrivati a questo, con la pandemia: lo stress da noia. Del tempo svuotato. Dell’inazione forzata. Noia dei giorni troppo uguali, del lavoro da remoto (quando c’è), delle videochiamate coi volti deformati, della vita compressa, dei rapporti amputati, dei rituali continui, ossessivi. Della mascherina, delle file davanti al fruttivendolo, del pane fatto in casa. La noia di misurare la distanza, di stare in tuta, di ripeterci che il virus ci ha migliorato dentro e fuori. Dei progetti rinviati e messi a mollo. Noia degli incontri online, delle proteste e degli appelli. Noia dei Tg, con la sequela ammorbante di quote e percentuali, di vaccinati e dosi, di tamponi e vittime, di notizie sempre uguali e contraddittorie, inflitte davanti alla solita immagine, vagamente sadica, dell’ago che buca il braccio. Noia di un mondo che si ritira come l’acqua quando a un tratto cala la marea, come in Irlanda, lasciando affiorare nella sabbia lische e scaglie di fossili. Noia davanti a un orizzonte che resta fermo come un salvaschermo. Noia di noi stessi, dunque. E questa è la cosa più noiosa e dura da accettare. Le abbiamo provate tutte. Anche con le parole. L’abbiamo chiamata emergenza, resistenza, resilienza, risorgenza, ripartenza, con preferenza per il suffisso “enza”, forse per rimare con sopravvivenza… Negli ultimi mesi, realizzate ormai tutte le ricette di dolci vegani nel web e tutte le mosse di Yoga e pilates con tutorial, abbiamo anche sperimentato una tecnica di pluri-sintonia che sarebbe piaciuta a Husserl, che consigliava di «tornare alle cose» con animo colloquiante. Ad esempio, puoi ampliare l’Esperienza innaffiando i fiori mentre ascolti in cuffia canti tibetani e saluti il vicino dal balcone; e si può partecipare a una riunione aziendale lavorando all’uncinetto fuori dallo schermo. Ma soprattutto abbiamo sperimentato che si può fare la cyclette, passare l’aspirapolvere, guidare e persino seguire programmi in tv ascoltando con l’auricolare podcast o messaggi audio – ed è un traguardo interessante, vista l’inarrestabile attività sul campo da parte di amici e colleghi. Le abbiamo provate tutte, sì. Ma soprattutto in casa. Resta addosso, lento, quel senso di vuoto e disguido, di deviazione e guasto rispetto al tempo. Perché se (forse) abbiamo ritessuto, con risorse nuove, un tempo interiore e domestico, ci sentiamo fuori dal tempo sociale, quello scandito da orari e rituali fra lavoro e pratiche urbane. Ci manca il tempo cittadino, le sue pratiche fra negozi e bar, la strada fatta di corpi e attriti, suoni e voci mischiati. Mancano gli altri da ascoltare, da cui farsi riconoscere. La noia non solo è apatia, abulìa, mancanza. È un sentimento. E si rivolge infatti anche contro se stessi. «Io è un paesaggio che mi è venuto a noia», ha detto Bufalino, vivacissimo esegeta della noia, il più brillante annoiato della letteratura siciliana che non a caso tradusse Baudelaire, grande cantore della noia. Quest’ultimo si annoiava a Parigi e sublimava la fatica in spleen, il primo si annoiava a Comiso ma convertiva la noia in dialogo, col tempo e i libri. Una noia che può rimare con gioia, se fa dire a Bufalino, con il suo sorriso beffardo e malinconico: «La noia è l’unica felicità che conosco». Anche Brancati è un grande esperto sul campo, ma la sua è una noia sensuale, un cedimento della volontà a favore della fantasticheria, un torpore metafisico che illanguidisce ma non atterra i siciliani. Anzi sembra restituirli, attraverso il sonno, al tepore del grembo prenatale. Molto più tragica, qualche anno dopo, la noia cui Moravia ha dedicato un romanzo, un non-sentimento di paralisi che svuota tutto di senso e di valori. Ma la nostra, che farne? La noia di oggi, specialmente per i ragazzi, produce ansia, depressione. Questo ozio forzato non è l’otium decantato dai nostri antenati Orazio e Seneca, prezioso per diventare saggi, colti e felici, né quello auspicato da Petrarca, per depurare l’anima. L’ozio indotto – anche quando, nel migliore dei casi, hai conservato o trasformato il tuo lavoro - ha qualcosa di innaturale e tossico, coercitivo. Diventa tempo svuotato dentro un tempo squilibrato, dentro uno spazio domestico che non è più “casa” con le funzioni di una volta, ma un iperluogo che assomma e mischia usi e stimoli contrastanti. Dove anche l’intimità è scena condivisa. (…).

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