Sopravviene la “Pasqua” dei credenti. Sopravviene
in fondo per tutti, anche per chi non “crede”. Ma sopravviene un sussulto ed un
augurio in chi non “crede” a leggere quanto l’ex priore della Comunità di Bose
Enzo Bianchi ha scritto in “Se questo è
un uomo” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 29 di marzo 2021: (…). Secondo
il Quarto vangelo, Pilato, il procuratore romano, durante il processo presenta
Gesù torturato alla folla che ne vuole la morte con le parole: “Ecco l’uomo!”,
un uomo debole e colpito con violenza dai soldati, un uomo deriso, disprezzato
e sfigurato, quell’uomo che è sempre presente nella storia e che noi dobbiamo
vedere nel povero, nell’oppresso, nella vittima del potere, in chi non conta
nulla in questo mondo. Quello spettacolo della vigilia di Pasqua nel pretorio è
lo spettacolo di cui noi siamo ancora spettatori nel nostro oggi. Non si tratta
di nutrire visioni doloristiche, ma semplicemente di essere consapevoli che
quella passione, quella vicenda di ingiustizia e di violenza mortifera continua
anche oggi, e che ciascuno di noi deve dire: “Ecco l’uomo!”. Ecco l’umanità! E
anche pensare: “Se questo è un uomo…”, in quella condizione disumana che
vorremmo non vedere o vedere con rassegnazione. Questa è anche l’epifania di
cosa significa essere nella disumanità, essere nel profondo dell’alienazione,
essere uno scarto in questa corsa che il mondo fa senza interrogarsi sulla
violenza, il sopruso, la guerra e l’ingiustizia di cui è capace. Nei secoli
passati la cristianità, proprio per non assumersi la responsabilità della
violenza da lei perpetrata sugli uomini, ha inventato il deicidio attribuendolo
agli ebrei, impedendo così di vedere in quella di Gesù nient’altro che la
passione di un innocente perseguitato. Rileggere, meditare la passione di Gesù
non ci porta a concludere che noi siamo al riparo dalla sofferenza, ma ci
rivela che ci può essere una fiducia che non viene meno neanche in chi soffre,
che ci può essere un vivere l’amore che si dà e che si riceve anche quando si è
colpiti dalla potenza dell’odio, che si può nutrire la speranza anche
nell’apparente fallimento. E dobbiamo riconoscere che anche altri umani, uomini
e donne come Gesù, hanno saputo vivere così la loro “passione”. Sì, Gesù è stato condannato dal potere religioso innanzitutto perché
liberava l’uomo da perverse immagini di Dio ed è stato ucciso dal potere
imperiale totalitario perché “pericoloso” e, dobbiamo riconoscerlo, come tanti
altri ancora oggi! Ma per tutte queste vittime della storia è nostro dovere
fare memoria che sui cammini di sofferenza può risplendere la capacità
dell’umanità di amare, di sperare, di perdonare per spezzare il cerchio
infernale dell’odio e della violenza. Il racconto della passione di Gesù si
conclude con le parole “iniziavano a splendere le luci del sabato”, un nuovo
giorno nella storia dell’umanità. (…). Un sussulto dicevo, una speranza
forse che si apre affinché quelle meditate parole divengano il “vivere” delle
Chiese, di tutte le Chiese di questo mondo. A chi molto a me vicino mi ha ripetutamente
chiesto – quasi volendo mettermi alla prova - quale “religione” suffragasse il
sentire della mia vita ho osato rispondere essere la “religione della vita”,
per l’appunto. Poiché al tempo della morte e della resurrezione pasquale che
sopravviene sento e ribadisco che nel mio più profondo la “vita” – scaturita da
un brodo primordiale o insufflata nella materia inerte - è la realizzazione
completa e compiuta di un dio, o di un qualsivoglia altro fattore, ovvero che
la “vita” di tutti i “viventi” è sacra, intoccabile, a qualsivoglia livello
della scala degli esseri che popolano questo angolo remoto d’Universo. Ha
scritto l’indimenticato Norberto Bobbio sulla rivista “MicroMega” del 3 di
maggio dell’anno 2000: Io non sono un uomo di fede, sono un uomo di
ragione e diffido di tutte le fedi, però distinguo la religione dalla
religiosità. Religiosità significa per me, semplicemente, avere il senso dei
propri limiti, sapere che la ragione dell’uomo è un piccolo lumicino, che
illumina uno spazio infimo rispetto alla grandiosità, all’immensità
dell’universo. L’unica cosa di cui sono sicuro, sempre stando nei limiti della
mia ragione, (…) è semmai che io vivo il senso del mistero, che evidentemente è
comune tanto all’uomo di ragione che all’uomo di fede. (…) Resta però fondamentale
questo profondo senso del mistero, che ci circonda, e che è ciò che io chiamo
senso di religiosità. La mia è una religiosità del dubbio, anziché delle
risposte certe. Io accetto solo ciò che è nei limiti della stretta ragione, e
sono limiti davvero angusti: la mia ragione si ferma dopo pochi passi mentre,
volendo percorrere la strada che penetra nel mistero, la strada non ha fine.
Più noi sappiamo, più sappiamo di non sapere. (…). …la mia intelligenza è
umiliata. Umiliata. E io accetto questa umiliazione. La accetto. E non cerco di
sfuggire a questa umiliazione con la fede, attraverso strade che non riesco a
percorrere. Resto uomo della mia ragione limitata e umiliata. So di non sapere.
Questo io chiamo “la mia religiosità”. (…). …probabilmente non si riesce a
resistere a questo dubitare continuo, a questo continuo non sapere, e allora ci
si affida alle credenze… Io però, il fondo religioso della mia persona continuo
ad intenderlo come questo non sapere. Ed è un fondo religioso che mi assilla,
mi agita, mi tormenta.
"Essere religiosi significa interrogarsi appassionatamente sul senso della nostra vita ed essere aperti alle risposte, anche se ci scuotono in profondità".(Paul Tillich). "Beato colui che ha trovato nella vita lo scopo della propria esistenza".(Inayat Khan). "Ognuno vale quanto le cose a cui dà importanza".(Marco Aurelio). "Nella vita, proprio come nella tavolozza del pittore, non c'è che un solo colore capace di dare significato alla vita e all'arte:il colore dell'amore".(Marc Chagall). Grazie per questo meraviglioso post che mi tocca nel profondo, perché veramente tanto vicino al mio più vero sentire. Buona continuazione.
RispondiElimina