"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 14 aprile 2021

Virusememorie. 69 «Ricucire reti, esistenze, relazioni, traffici di mare e di terra».

A lato. "Ulisse e Calipso" sulla spiaggia di Ogigia.

“Parole della pandemia”. “I” come “Isolamento”, di Elvira Seminara (nata a Catania), pubblicato sul settimanale “L’Espresso” dell’11 di aprile 2021:

È la parola più battuta dal vento, e soffia dentro sino al mal di mare. La più avventata, da quando è cominciato tutto. Isolamento. C’è un’isola dentro la parola, infatti. E ti confonde. Ne sa qualcosa il più grande isolato e isolano di tutti, Ulisse, che per sette anni ogni mattina sulla spiaggia di Ogigia, stordito, piange Itaca e brama Calipso. Isolati per preservarci, isolati per non contagiare. Fascinosa e perversa ambiguità: l’isolamento separa i detenuti (e un tempo i matti) come ogni materiale a rischio, dai cavi elettrici alle zone di soglia, ma aiuta gli artisti a osare, i saggi a riflettere, i mistici a pregare. Quarantena o espansione dell’anima. Isolamento vuol dire farsi isola. Ma ogni isola è sogno e condanna, perché è in balia del mare. Non c’è mito più ancestrale e ambivalente, zuccherato o inzaccherato nei secoli. Utopia e distopia. L’isola di Robinson Crusoe, laboratorio di ingegneria sociale, e le isole di Gulliver piene di disparità, quella perfetta di Tommaso Moro e l’isola del tesoro, l’isola di Platone e quella di Ariosto, l’Isola dei Morti e isola Eden per ricominciare. Miraggio o reclusione. Isole per confinati e esuli, isole per avventurieri. Isole per Napoleone, per Stevenson e per Gauguin, isole belle di Arturo e isole perfide del dottor Moreau. A ciascuno la sua. Atlantide. Avalon. L’isola che non c’è e quella che c’è troppo, nel senso del peso (come gravame) lamentato dalla penisola. Isolamento come distanza, penuria di scambi, arretratezza. O al contrario differenza, alterità come valore? Vedi alla voce mare. Chi è nato in un’isola la conosce sin troppo, questa voce. Carezzevole, suadente, ipnotica. Minacciosa livida recriminante. Che dice parti, resta, rimanda, aspetta. Ogni isola(mento) è nido e trappola insieme. A fine pandemia, quando usciremo smascherati, ci guarderemo intorno come naufraghi, cercando luci all’orizzonte. Perché l’abbiamo conosciuta, persino amata con paura. Isolitudine.

“Parole della pandemia”. “P” come “Porto”, di Evelina Santangelo (nata a Palermo), pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 24 di gennaio 2021: Abbiamo sperimentato cosa significa ritrovarsi in balia di una catastrofe per cui non c’è riparo fino a quando domina la morte quotidiana di centinaia di esseri umani non per mano dell’uomo (carneficine cui siamo abituati) né per calamità naturali contemplate tra gli accadimenti possibili (fenomeni sismici, vulcanici, piene, alluvioni frane). L’epidemia che sfibra, perché colonizza il tempo, e la sua dimensione pandemica che non lascia scampo hanno riesumato paure ataviche di mali indomabili. Forse per questo fatichiamo a capire quanto la catastrofe cui si sta cercando di porre rimedio abbia a che vedere inestricabilmente con noi, la nostra concezione predatoria del rapporto tra umanità e natura, il mondo che abbiamo creato con piglio da divinità determinate a travolgere e creare tutto a propria immagine e somiglianza, cioè a misura dei propri appetiti onnipotenti diventati bisogni. Così oggi non c’è luogo e angolo della terra che possa essere considerato al sicuro, non minacciato da un senso di fragilità e d’assedio nei confronti delle nostre esistenze, da salvaguardare in ogni istante, difendere con distanziamenti e confinamenti inconcepibili in un mondo sempre più proiettato verso una conquista collettiva: l’azzeramento di distanze spaziali e temporali; la contrazione di esistenze e traffici in attimi, frazioni di secondo. Abbiamo piegato il tempo e lo spazio a immagine e somiglianza della più appagante istantaneità ma abbiamo perso il senso dello specchio d’acqua calma di un porto (ormai concepito come una «porta» da chiudere o aprire). Un porto dove sapere di poter sempre trovare riparo da tempeste o aggressioni. O dove poter fermarsi a compiere quelle riparazioni lente, ponderate che servono a ricucire reti, esistenze, relazioni, traffici di mare e di terra. Costruire porti capaci di offrire riparo ai travolti – tutti i travolti di ogni tempesta – all’interno di un porto più vasto che metta al sicuro il pianeta dalle nostre stesse aggressioni forse è il modo in cui dovremmo fermarci a pensare il mondo da salvare.

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