Ha scritto Philip Pulman (Norwich, 19 di ottobre dell’anno 1946) in “Gli animali sono i nostri spiriti guida” pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 17 di dicembre dell’anno 2022:
L’idea di uno spirito animale,
famiglio, spirito custode o spirito guida che assume la forma di un uccello o
di un animale, è una suggestione che affonda le sue radici in tempi antichi. Ed
anche è un'idea onnipresente, un costrutto che si può ritrovare in ogni parte
del mondo. Non stavo inventando nulla di nuovo o di particolarmente originale,
quindi, quando iniziai il mio romanzo La bussola d'oro con le parole «Lyra e il
suo daimon...» e quando poi mi resi conto che l'abbinamento persona più daimon (dal
greco antico δαίμων, dáimōn, «essere
divino» n.d.r.) stava diventando uno dei temi centrali della storia. Il mio proposito,
per andare brutalmente sul tecnico, era semplificarmi la vita, agevolare il
compito di scrivere la storia di una ragazzina che si lancia in un'avventura da
sola mettendole a disposizione qualcuno con cui parlare. Il fatto che questo
qualcuno fosse parte di lei all'inizio non aveva la minima rilevanza: lei poteva
dire «Facciamo questa cosa», il daimon ribatteva «Lo sai che è una cosa che non
si deve fare», lei replicava «Non fare il fifone», e via di questo passo. L'espediente
di dare forma drammatica a uno stato di incertezza mentale trasformandolo in
due voci che discutono... be', anche in questo caso mi sento di poter dire che
non c'è nulla di particolarmente originale. Il daimon si rivelò una buona idea
per tanti motivi, così tanti che neanche mi vengono in mente tutti. E ancora
adesso, dopo aver scritto centi· naia e centinaia di pagine sull'argomento,
continuo a trovare nuovi aspetti da scoprire nei daimon. Ma perché un animale,
direte voi? Il daimon in fondo avrebbe potuto essere semplicemente un'altra
Lyra, uno spirito gemello. O un demone vero e proprio, come quei disegnini che
illustravano le storie di Don Camillo di Giovanni Guareschi, con un angioletto
su una spalla del personaggio e un diavoletto sull'altra. Il fatto è che gli
animali avevano un'attrattiva immediata e non ho mai pensato ai daimon con
un'altra forma, neanche per un istante. Per esempio, sapere che un personaggio
ha un daimon con la forma di un serpente ci aiuta (e aiuta gli altri personaggi
della storia) a capire subito qualcosa di importante su di lui o su di lei: non
una qualità morale, ma un modo di essere nel mondo. L'altra cosa che tornava
molto utile per le mie esigenze di narratore era il fatto che i daimon dei bambini
cambiassero forma: ora sono un uccello, il minuto dopo diventano un cane,
oppure un topo, o una rana, o una farfalla; per divertirsi, certo, ma anche per
fare quello che normalmente fanno i bambini, cioè provare a vedere come potrebbe
essere adottare una certa identità nella vita adulta. Perché durante l'adolescenza
questo potere di cambiare scompare gradualmente, lasciando l'individuo adulto
con una certezza di sé che i bambini non hanno. In ogni caso, per uno che si
trova a dover raccontare una storia tutta la faccenda dei daimon è risultata
estremamente pratica, dal punto di vista simbolico, dal punto di vista della
metafora, da tutti i punti di vista. Mi capita molto spesso, però, che qualcuno
venga a chiedermi che forma ha il mio daimon, e non è facile dare una risposta,
perché per me i daimon sono un dispositivo narrativo, non un modo per esprimere
le mie convinzioni personali. Ma ho sempre una soluzione pronta ogni volta che
mi sento rivolgere questa domanda, e probabilmente risale a un giorno di circa
quarant'anni fa sulle Alpi, quando io e la mia famiglia rimanemmo per un po' a
guardare una coppia di corvi che volavano vicino al punto dove ci eravamo
fermati per fare un picnic. Si tuffavano in picchiata a gran velocità con le
ali ripiegate sul corpo, solo per allargarle all'ultimo momento e sfrecciare di
nuovo verso l'alto; le loro esuberanti acrobazie erano quanto di più lontano si
potesse immaginare dal lugubre corvide celebrato da Edgar Allan Poe, quel
«feral, sinistro, magro, triste, infausto augel di Pluto». Eppure avevano anche
quella qualità funebre: erano sinistri e gioiosi al tempo stesso. Insomma,
quando qualcuno me lo chiede rispondo che il mio daimon è un corvo, e me lo
posso immaginare appollaiato sulla mia scrivania mentre lavoro, che commenta
sardonico il periodo che sono appena riuscito a comporre con tanta fatica, che gracchia
in segno di approvazione quando per caso mi esce fuori una bella frase, che
schiocca il becco irritato quando ripiego, cercando di non farmene accorgere,
su un cliché. Semplicemente, mi fa sentire meglio immaginare che sia qui. Il
mio daimon è un corvo, in conclusione, e credo di averlo sempre saputo. Di
seguito, “Calunnie bestiali” di
Elvira Seminara, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 28 di maggio 2023:
Sei
un porco, lo sai? E lui scrive da cani. Incredibile. L'animale più amato è fra
i più calunniati - vita da cani, solo come un cane. E per insultarci ricorriamo
al maiale, il più generoso e sfruttato al mondo, di grande e fragile
sensibilità. Mondo cane. O meglio vita da giungla. Ogni ufficio è pieno di
lumache che perdono tempo, gente che scalcia come muli, orsi che sfuggono i
colleghi, conigli che non protestano mai, oche che starnazzano e pesci che non
parlano, leoni pronti a sbranare, volpi che tramano. E intorno i grilli
parlanti, che davanti a quattro gatti e i soliti cani bastonati ripetono a pappagallo
di stare attenti ai falchi. Abbiamo bisogno degli animali, non solo per usarli
divorarli esibirli, ammaestrare testare monetizzare, ricavarne conforto e
compagnia. Ci servono per offenderci. A dire il peggio di noi. Come insultare
qualcuno senza parolacce o dettagli? Diciamo: Sei un animale. Oppure la
variante: Sei una bestia. Ci siamo convinti nei secoli che essere una bestia
sia degradante e vile, e che l'essere umano sia addirittura superiore in tutto
agli animali - la cui parola peraltro deriva da anima. È vero, da Esopo a Fedro
sono stati gli animali a personificare e semplificare i nostri vizi e virtù, ma
noi siamo andati oltre. Li abbiamo schiavizzati, defraudati, seviziati negli
esperimenti, de-animalizzati e torturati negli allevamenti, offesi e ingiuriati
con crudeltà e ignoranza. Ignoranza, sì. Perché, a dirla tutta, le categorie in
cui li abbiamo ingabbiati e immiseriti sono anche ottuse e strumentali. Che
senso ha dire asino per dire ignorante, quando l'asino è una creatura mitica,
superiore per volontà e tenacia? Il grande Bresson lo ha persino eletto a
protagonista, figura simbolica e quasi mistica nel suo film Au Hasard Balthazar
del '66, che vede appunto Balthazar, l'asinello, mortificato come un martire.
Ci sarà un motivo, d'altronde, se fa parte da sempre della più sacra famiglia,
assieme al bue. E che senso ha convocare il rospo per dire brutto e sgraziato?
O ricorrere ai muli per svalorizzare o irridere chi agisce con caparbietà
(peraltro, è un gran difetto)? I lupi, tiranneggiati ingiustamente tra favole e
miti, sono stati riabilitati dagli etologi, ma noi continuiamo a ribattezzare
lupo chi ci appare famelico o truce, e a dire tempo da lupi quando il cielo è
cupo. Così come usiamo il termine coniglio per dire pavido o vile, quando la
tenera creatura, braccata nei boschi da sempre e dunque incline all'infarto per
paura, ha tutti i motivi per temere il mondo e i suoi inquilini. Luoghi bolsi e
comuni tramandati dalla lingua, che per natura, mentre si trasforma, produce e
incista stereotipi e pregiudizi. Brutta come una scimmia (che oltre ad essere
fra i nostri antenati, è di somma intelligenza). Noiosa come una mosca. Grassa
come una vacca. Smorfiosa come una gatta morta (perché morta, poi?). Già. E
quante oche abbiamo incrociato nei discorsi sessisti, per dire stupide o
ciarliere? Quante donne che fanno le civette, o rane dalla bocca larga -
peraltro creature in estinzione, preziose per l'ecosistema? Quante volte è
stato tirato in ballo, ignominiosamente, il cervello di gallina che invece è
ricco e capace? Lo sapete che le galline hanno risorse a noi segrete, di
apprendimento, memoria e relazione? Persino Gramsci (sic) parlando di Carolina
Invernizio, autrice talentuosa di bestseller tradotta in tutto il mondo, la
definì "un'onesta gallina della letteratura italiana", e d'altronde
il pollaio esercita ancor oggi un'irresistibile attrazione simbolica per molti,
visto l'uso della categoria Chicklit, letteratura da pollastre, per le scrittrici
di commedie e storie rosa. Di recente è stato ripescato, nel senso di riabilitato,
anche il polpo, abilissimo e duttile stratega grazie alle tante terminazioni nervose.
Eppure è sempre e meschinamente associato all'idea della mollezza e invasività,
e persino – nel dialetto siciliano – usato per offendere, con omofobia
mascherata da scherzo, omosessuali e ballerini. Restando in mare (e in zona
Sicilia), il disonore peggiore è però toccato alla piovra, ovvero il calamaro
gigante: da creatura mitica e leggendaria è stata retrocessa alla metafora più
triste. Piovra per dire mafia. Da Jules Verne al Padrino, un singolare
sprofondamento. Danno di reputazione inflitto anche al suo nobile coinquilino,
di origini antichissime e misteriose: lo squalo. Ha un "sesto senso"
con cui intercetta i campi elettro-magnetici delle prede, e grazie ai suoi 400
milioni di anni è immensamente evoluto, ma diciamo squalo per dire il peggio:
persona avida e cinica, senza scrupoli e senza morale. Per non dire macchina sanguinaria,
grazie ai film da Spielberg in poi. Ah, "Upupa, ilare uccello calunniato
dai poeti!" - scrive Montale in una celebre poesia. Violenza culturale,
appropriazioni indebite. Al pipistrello, nell'ansia da virus, quante nefandezze
abbiamo attribuito? E alle mosche, zanzare, insetti vari, colpevoli a volte
solo di essere brutti. Non a caso risparmiamo farfalle e coccinelle, gradevoli
per forma e colori, e sterminiamo i loro parenti senza appeal. E riserviamo il
trattamento peggiore a una creatura indispensabile pur umilmente nascosta. Sei
un verme. Quante volte l'abbiamo detto, o pensato? Quanta infamia su un corpo
grande come una virgola. E quanta violenza sul povero topo, perenne cavia di
esperimenti, vittima di inganni e trappole, nell'insulto più greve: topo di
fogna. Siamo una macchina del fango. Ma non infanghiamo a caso, prendiamo ciò
che ci interessa e avvince, per abuso di metonimia. Le corna del cervo ad
esempio. Come dirlo meglio, cornuto? E la parola serpente per dire viscido e
insinuante? È toccato al coccodrillo però il destino più curioso, quello di
prestarsi al nostro bisogno immaginifico di creature perturbate e commosse: il
suo pianto è diventato il segno del rimpianto postumo, un po' colpevole e un
po' finto, ma rituale. Tanto che il coccodrillo è diventato in redazione, il necrologio
scritto prima della morte, in sinistra prevenzione. Pochissimi gli animali
scampati al nostro turpiloquio. Tanto forte, la tentazione che non resistiamo
all'istinto di schiacciarli comunque (come formiche), dentro un'immagine del
tutto incongrua o forzata - bagnato come un pulcino, che senso ha? O dire
ignorante come una capra? E perché infangare il gregge, corteo sereno e
solidale? E quanto discredito sulla pecora nera. O sul gufo, diffamato persino
con un verbo: gufare, cioè portare iella. Non potendo dir male del cigno, così
bello e regale, l'abbiamo omaggiato e sepolto sotto un'immagine malaugurante, e
l'ultimo atto di un artista diventa la Morte del cigno. Siamo stolti,
tracotanti e ingrati, divisi tra l'eccesso di umanizzazione disneyana (per
mettere in pausa i sensi di colpa) e l'egocentrismo padronale degli umani. Eppure
basterebbe conoscere e riconoscere le "piccole persone" (così le
chiamava, con amorevole incanto, Anna Maria Ortese) nella loro altra e diversa
natura - ma non per questo inferiore - fatta di risorse, attitudini e modalità
espressive notevolissime, anche se oscure per noi. E di sapienza cumulata nel
tempo, sociale e organizzativa, adattativa e trasformativa. E la faccenda è certo
estesa e complessa, visto che anche nei migliori documentari raccontiamo gli
animali solo in veste di predatori e prede, sempre in rissa per le femmine o il
cibo, l'ambiente o l'uomo, drammatizzando la narrazione in chiave umana e
sentimentale. Faccenda antica sì. È già consegnato infatti alla Genesi (I, 26)
il più violento messaggio all'uomo-padrone della natura: "Regni l'uomo
sopra i pesci del mare e gli uccelli del cielo, sugli animali domestici, sulle
fiere della terra, e su tutti i rettili che strisciano sulla sua
superficie". (...). Ma noi siamo la lingua che parliamo, e non solo perché
ci rappresenta. Le nostre parole trasmettono e tramandano - con automatismo e
inconsapevolezza - una visione del mondo che spesso non è la nostra. Stiamo
attenti dunque, a ciò che pronunciamo. Impariamo dall'umilissima lumaca. Per
Marianne Moore, poeta e autrice di un geniale bestiario, è il paradigma
elegante della sintesi e dello stile ("Se la concentrazione è il primo
dono dello stile, tu la possiedi. La contrattilità è una virtù, così come
modestia è una virtù"). Ma la più appassionata era Patricia Highsmith, che
amava così tanto le lumache da portarle in viaggio dentro il reggiseno, o in
borsa, in giro, con una foglia di lattuga.
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