“I mondi di Zuppi e Delpini”, testo di Concita De Gregorio pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 18 di giugno ultimo: (…). Nessuno sceneggiatore avrebbe saputo mettere in scena due funerali così, nella stessa settimana, due rappresentazioni plastiche della battaglia di idee e di progetti che ha opposto per decenni due grandi protagonisti della vita politica italiana. I necrologi coi loro cognomi alternati sui giornali, aggettivi antitetici. La distanza vien da dire antropologica, etica ed estetica, degli invitati fra i banchi. Sono morti a distanza di pochi giorni Silvio Berlusconi, non serve indugiare nella biografia, e Flavia Franzoni, docente, esperta di metodi dei servizi sociali e per oltre cinquant’anni moglie di Romano Prodi: anche lui più volte Presidente del Consiglio, leader dello “schieramento avverso” a quello di centrodestra, l’unico ad aver sconfitto Berlusconi nelle urne, due volte. Berlusconi e Prodi hanno rappresentato per un tempo molto lungo due possibili modelli di governo del Paese. Non c’è dubbio che oggi abbia prevalso il modello berlusconiano. Governa infatti la destra che lui ha contribuito a portare a Palazzo Chigi, restandone fino all’ultimo alleato. Non c’è dubbio, altrettanto, che la “nuova sinistra”, quella in sintesi di Elly Schlein, sia figlia politica di Prodi. La storia non è finita qui, insomma: gli eredi e le eredi scriveranno il seguito. Ma le omelie, (…). Prima di tutto gli oratori. A Milano, in Duomo, di Berlusconi ha parlato l’arcivescovo Mario Delpini. Uomo cresciuto nei cortili nei dormitori e nelle aule dei seminari, prima da alunno poi da docente infine da rettore, tutta una vita nei collegi e nelle scuole cattoliche dedicate alla formazione del clero. Nominato vescovo di Milano da Benedetto XVI, confermato da Francesco. A Bologna ha parlato don Matteo Zuppi, prete di strada, animatore di mense e rifugi dei poveri, formato alla comunità di Sant’Egidio, dedito alla cura degli ultimi, oggi presidente della Cei: nominato da Papa Francesco, di recente suo emissario nella difficile trattativa di conciliazione fra Russia e Ucraina. La guerra di invasione. Gli invitati alla cerimonia: a Milano il mondo Mediaset, gli eredi della concessionaria di pubblicità Publitalia 80 da cui ogni fortuna è nata, il Milan, naturalmente, le bionde soubrette i “volti” e i giornalisti delle sue tv, l’emiro del Qatar. Sergio Mattarella, trattandosi di Funerali di Stato e di lutto nazionale decretato dal governo Meloni, seduto assai silenzioso accanto al ricchissimo emiro. Vedove ufficiali almeno quattro, decine invece quelle non censite - care amiche. A Bologna la sinistra di allora e di oggi, quella in cui è riposta la strenua speranza di un’alternativa eventuale, professori, accademici, infermieri degli ospedali e volontari del terzo settore, maestre, disabili, cittadini semplici, amici d’infanzia del tutto anonimi, la numerosissima famiglia: una corona di figli e nipoti tutti generati da un solo matrimonio, una sola lunghissima storia di complicità intellettuale e di amore. L’omelia di Delpini aveva il passo e il tono di un’indulgenza plenaria. L’assoluzione da ogni peccato. La comprensione dell’umana debolezza, non sono gli uomini a dover giudicare: Dio accoglie i peccatori. Fondata lessicalmente sulla ripetizione, sull’allitterazione, in qualche modo ipnotica: diceva, ad ogni passo, “è in Dio il giudizio”. Capitolo primo: il desiderio di vita. Era un uomo esuberante, diciamo così. “Vivere e non sottrarsi alle sfide, agli insulti, alle critiche: continuare a sorridere, sfidare, contrastare”. Sfidare. Capitolo secondo: il desiderio di “amare ed essere amato”. Certo, chiunque vuol essere amato. Dipende come. Se con la “manutenzione dell’unione” - dice Zuppi - o con l’accumulazione, la continua incessante sostituzione della fonte di consenso amoroso. Assolto anche qui, l’umano narcisismo. Chi non lo capisce? L’uomo che “vuol essere contento e ama le feste”, le cene eleganti le ragazze con lui gentili, le serate “in simpatia”, le battute, che ridere. Assolto, nel nome di Dio. E poi l’uomo d’affari. Deve vincere, un uomo d’affari. Le “imprese spericolate” - qualunque cosa significhi, a spanne intuiamo cosa - le opacità, le alleanze (ma è “un uomo d’affari”), la ribalta permanente, essere “di parte”. Contano i numeri, non i mezzi. Non i compromessi: il risultato. Tutto perdonato. Nel nome di Dio. “Celebriamo il mistero del compimento”. A Bologna quel “mondo sguaiato di vanagloria” è nell’omelia di Zuppi il metro che calibra il valore del suo opposto. Di chi lavora al rammendo, alla manutenzione dell’unione, alla tutela di chi resta indietro e non vince mai. La cura di chi perde, in questa gara dove solo chi ha soldi comanda e non importa come li ha fatti, i soldi: quello è il mistero (mica tanto) del compimento. Di Flavia Franzoni Zuppi ricorda la mitezza nella radicalità. L’ostinazione a restare dove c’è qualcuno che esce di strada. “Restare nei luoghi dell’umanità”, in quelli costruire soluzioni. Riparare i guasti, avere pazienza, “essere bussola” per chi cerca il senso di una vita dove non c’è festa ma fatica. Sostenere la fatica. “L’amore vero non si vende e non si compra, non possiede niente e per questo possiede tutto”. Che altro c’è da dire, serve altro? Non si compra. Forse sì, forse bisogna esortare a non dimenticare. Non cedere alla lusinga del successo, se e quando arriva, con questo cancellando il pezzo di vita che ti ha condotto fin lì, non eliminare i testimoni per il favore della nuova gradita telecamera. Forse questo, potremmo cominciare a spiegare meglio ai figli influencer: non è un challenge, la vita. È un cammino e tutto resta, tutto conta - in quel cammino. Non lasciare indietro nessuno, voltarsi a cercare con lo sguardo chi ha inciampato. Andarlo a riprendere. Insomma. Due omelie, due chiese. Due discorsi solenni, entrambi da opposti pubblici applauditi. Però contano, i criteri. Questo bisognerebbe sottolineare. Conta cosa fai, che risultati ottieni, ma anche come li ottieni. È cruciale, come. Due Italie, due modelli, un solo futuro. Dipende da quale strada vogliamo indicare. Da quale omelia partire. Quale sentiero, quale esempio.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
martedì 20 giugno 2023
ItalianGothic. 61 Concita De Gregorio: «Due Italie, due modelli, un solo futuro. Dipende da quale strada vogliamo indicare. Da quale omelia partire. Quale sentiero, quale esempio».
Ha scritto Gad Lerner in “Indulgenze e finte cerimonie: stavolta il piano B. è fallito”
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 15 di giugno 2023: Mai visti tanti mercanti nel
tempio come ieri pomeriggio in Duomo a Milano. Molti di loro, per carità,
sinceramente grati e commossi nel dare l’addio a Silvio Berlusconi, l’uomo dal
tocco magico che li ha trasformati in benestanti. A unirli nella preghiera non
era certo la convinzione che Silvio sia destinato al paradiso, bensì una speranza:
che la generosa accoglienza ricevuta nella cattedrale gotica ambrosiana, la
solennità dei funerali di Stato, il lutto nazionale proclamato da un governo
amico, le sapienti riprese dall’alto del carro funebre in arrivo da Arcore
contornato da striscioni osannanti il defunto e le inquadrature che facevano
sembrare la piazza affollatissima, insomma, che tutto ciò fungesse da
salvacondotto se non per la salvezza eterna almeno per la salvezza terrena.
Perché se ci è passato Silvio per la cruna dell’ago, allora magari ci
passeranno pure loro. (…). Sebbene l’operazione “Berlusconi santo subito”, dopo
il funerale di ieri, mi pare incontri più ostacoli del previsto, non c’è dubbio
che sia ben studiata. Nelle intenzioni di chi l’ha promossa onorare col lutto
nazionale la spregiudicatezza di un uomo che, non dimentichiamolo, davvero ha
creduto di poter morire da presidente della Repubblica, era ed è il tassello di
un piano mirante allo snaturamento progressivo delle nostre istituzioni. L’impasto
fra tifo calcistico e passione politica nella piazza, cui all’interno del Duomo
faceva da corrispettivo l’impasto fra il mondo dello spettacolo e il notabilato
al potere, rappresentava una sintesi perfetta del lascito berlusconiano
rivendicato dalla destra. Dando a questa cerimonia trionfale il sapore di una
riforma istituzionale attivata d’imperio, così come il lutto nazionale ha
voluto sancire un fatto compiuto di riabilitazione. I tifosi della riforma
della giustizia e del presidenzialismo cercheranno di assestare subito il colpo
successivo. Ma resta innegabile che la solennità della liturgia religiosa
stridesse ieri con la realtà di troppe biografie, perché ogni finzione ha un
limite. La prima fila dei parenti stretti, uniti in un comprensibile e
rispettabile dolore, ha avuto il buon gusto di non fare la comunione. Solo un
anno fa loro stessi si erano ritrovati in una celebrazione privata dai tratti
ben diversi: il “matrimonio simbolico” tra Silvio Berlusconi e Marta Fascina,
di cui ieri la figlia Marina, tenendola per mano, ha voluto confermare una
sorta di investitura forse anche politica. Fedele Confalonieri suonava il
piano, Gigi D’Alessio cantava, in una ben strana parodia di family day. Oltre
che il Paese delle indulgenze forse l’Italia è anche il Paese delle cerimonie
finte. Sono abbastanza vecchio per aver assistito di persona, sabato 13 maggio
1978, nella basilica romana di San Giovanni in Laterano, addirittura a un
funerale di Stato celebrato contro la volontà della famiglia del defunto: Aldo
Moro. Mancava la bara ma c’erano i vertici delle istituzioni al gran completo
quando fece il suo ingresso sulla sedia gestatoria Paolo VI che nell’omelia si
rassegnò a ignorare la sconfitta di uno Stato che in nome della fermezza aveva
sacrificato il prigioniero delle Brigate Rosse. Quel giorno a San Giovanni
c’erano molte sedie vuote. Nell’incipit del mio articolo la definii “una
cerimonia indegna del minimo rispetto”. Berlusconi è l’opposto di Moro. Altra
differenza è che ieri il Duomo era stracolmo intorno al feretro, esposto pure
sul sagrato all’omaggio della folla. Si riconosce un progetto, nel funerale di
Berlusconi. Forse perfino un regime in formazione dietro di lui, nel suo nome.
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