“La Guerra è un’Infamia. Sempre”. Ha scritto
Michele Serra in “L’anima brutta della
guerra” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, giovedì 8 di
giugno 2023: La grande diga spaccata per “ragioni strategiche” lascia intendere che
per “ragioni strategiche” gli uomini in guerra sgozzerebbero i loro figli,
sventrerebbero le loro madri, soffocherebbero i loro vecchi perché non siano di
impiccio. Le campagne distrutte, gli animali affogati, le case allagate, il
lavoro bestemmiato, l’opera di migliaia di operai e ingegneri sbriciolata, ciò
che è stato fatto negli anni che viene disfatto in un attimo: a che serve avere
così tanta paura della distruzione atomica, se la distruzione è già qui,
pratica quotidiana? Perché non ci spaventa altrettanto questa ferocia a
puntate, questa soluzione finale che si finge parziale, centellinata come le
serie tivù? Le case bombardate con i bambini dentro, la gente alla fermata
dell’autobus promossa a bersaglio (“ragioni strategiche”, si suppone), tutto
che brucia e marcisce, e mica solo in Ucraina: la Siria, lo Yemen, il Sudan,
l’Eritrea... La distruzione di ciò che si è costruito, in termini materiali e
in termini di socievolezza, di affinità, di rapporto tra gli umani: questo è la
guerra, solo questo. Distruzione che qualche governante sadico ha concepito,
qualche generale ottuso chiama “dovere”, qualche intellettuale scellerato
giustifica, qualche poeta imbecille esalta. Eppure la guerra non è un tabù. Non
se ne parla come del più orrendo dei delitti mai visti sotto il cielo. Come il
più irrimediabile e definitivo dei mali. La guerra, nel mondo, è norma, e
normalità. Si scandalizzano in pochi, di questa normalità, e a quei pochi tocca
anche sentirsi derisi come “anime belle”. Come per chiarire che le anime brutte
sono al potere ovunque, e ovunque maggioranza. Di seguito, “A bruschi contraccolpi” (1956) di
Italo Calvino riportato sul quotidiano “la Repubblica” con il titolo «Ungheria
e ‘68” la Storia siamo noi» del 26 di febbraio 2023: A
bruschi contraccolpi è sottoposto il nostro modo di stare nella storia. Per
cinque o sei anni abbiamo vissuto a nervi tesi come chi sta sull'orlo di un
precipizio, o di sentinella ad una immensa polveriera; cercando di munirci
d'una stoica armatura interiore, per guardare fisso, senza chiudere le
palpebre, il cielo corrusco di lampi atomici incombenti sulle nostre esistenze.
Poi, quasi tutt'a un tratto, risultò che non sarebbe andata così, ma tutto
all'opposto. L'assedio era rotto, per il mondo volava una kermesse di sorrisi e
di brindisi, s'apriva l'era della pace, la bipartizione del genere umano in
amici e nemici faceva luogo all'interesse per ciò che di migliore ognuno in sé
sviluppa, l'avvento del socialismo era nelle cose, nelle macchine, in ogni moto
dell'ingegno umano. Il corso dei nostri pensieri mutò: passammo l'estate a
sognare centrali d'energia solare, pianificazioni universali, età di Pericle. Invece
venne l'ottobre, e ci portò quello che non ci aspettavamo: il sangue. Non la
guerra degli enormi eserciti contrapposti: sangue di gente che annera i
selciati. In Ungheria ed in Egitto (Calvino scrive a fine 1956, si riferisce
all'invasione dell'Ungheria e alla crisi di Suez) è avvenuto tutto quel che
pareva più lontano, ancora più lontano della guerra fredda. Passano le
settimane, la ridda di notizie non dà tregua: ora commossi, ora adirati, ora
soltanto desiderosi di veder chiaro, non pensiamo neppure più a configurarci
una nuova immagine del nostro tempo. Forse è sbagliato questo nostro vivere
così attaccati alla storia? Forse la saggezza va ancorata fuori dal tempo, e il
nostro comportarci in mezzo ai fatti va improntato ad un empirico pessimismo? No,
per quel che possiamo discernere attraverso l'ansia dei giorni, le prospettive
del mondo non mutano. Ma il mondo porta in sé troppa parte del suo vecchio
anacronistico armamentario per andare avanti senza queste tragiche scosse.
Siamo in un trapasso d'epoca. L'immagine di sé che il socialismo ha dato in
Ungheria - questo caso limite di non-identificazione tra volontà popolare e
potere socialista - era già superata dalla storia, una via senza uscita.
L'immagine che il mondo capitalistico ha dato di sé in Egitto, è l'immagine di
guerra coloniale più stantia, che pare evochi davvero la borghesia ottocentesca
di questi fantomatici azionisti del Canale, con la bombetta e con le ghette.
Entrambe queste immagini corrispondono certo a una realtà di fatto, ma a una
realtà che sopravvive per una sua inerzia, non a una realtà in sviluppo. Le vie
per cui la storia marcia sono altre: Gomulka, il piano di disarmo sovietico,
Nehru, le dimissioni di protesta di Nutting, Hammarskjöld in Egitto coi suoi
soldati danesi e colombiani. La lezione è d'una urgente chiarezza per il nostro
campo come per quello a noi avversario. Il mondo che vogliamo non ci giunge per
miracolo ma dobbiamo conquistarcelo, forse anche duramente, costruircelo nella
teoria e nella pratica. Di questa coscienza della dura lotta che ci attende è
nutrito oggi il nostro ottimismo. (…).
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