"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 24 giugno 2023

MadreTerra. 11 Ferdinando Boero: «L'ecologia è politica: non esistono società ed economie avulse dai sistemi ambientali».

            Sopra. Serrastretta (Calabria, 31-10-2022). "C'è Vita nella faggeta".

Ha scritto Umberto Galimberti in “Spaesamento” pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 17 di giugno 2023:

Quando parlo di spaesamento mi riferisco al fatto che finora sia l'etica sia la politica si sono occupate di come gli uomini convivono con gli uomini, quali rapporti devono intercorrere tra loro, come dovrebbe funzionare la società per ridurre la conflittualità Ma oggi che la tecnica sta mettendo a rischio l'ecosistema, la domanda che dobbiamo porci non è come gli uomini possono coesistere, ma se l'umanità continuerà a esistere o meno. Una domanda assolutamente nuova e imprevista che le etiche e le politiche finora affermatesi in Occidente non si sono mai poste. Oggi che i segnali della catastrofe della Terra si fanno sempre più allarmanti occorre sostituire al primato dell'uomo - che, su indicazione biblica, si pensa al vertice del creato e per ciò stesso arbitro della natura -, il primato della vita. E questo perché la vita, che preesisteva alla comparsa dell'uomo, appartiene alla Terra e potrebbe continuare anche dopo la possibile scomparsa dell'uomo a causa dell'insostenibile sfruttamento a cui l'uomo ha sottoposto la Terra, fino a far temere la fine della biosfera, per cui l'umanesimo del dominio, lo si dichiari o no, è un umanesimo senza futuro. L'antropocentrismo, che ha regolato il comportamento dell'uomo sulla Terra, lo ritroviamo anche alla base della proclamazione universale dei Diritti dell'uomo enunciati a Parigi nel 1948, perché in questa dichiarazione si è dimenticato di parlare anche dei diritti della Terra, che sono indissociabili dalla vita dell'uomo, perché la Terra può benissimo fare a meno dell'uomo, ma l'uomo non può fare a meno della Terra. Oggi, infatti, il pericolo non viene più, come un tempo, dalla natura, ma dal potere conseguito dall'uomo per dominarla. Ne è prova il fatto che, guardandola con gli occhi della tecnica, l'uomo visualizza la natura come semplice "materia prima", e non come il luogo della sua abitazione. Per effetto del suo sviluppo incessante che non conosce confini o frontiere, per la cogenza del suo imperativo che prevede "si debba fare tutto ciò che si può fare", per la ricaduta globale delle sue conseguenze nello spazio e nel tempo, sempre al limite tra il progresso e la catastrofe, la tecnica non può più essere regolata da un'etica antropocentrica che, oltre a voler dominare la natura, non è in grado di prevedere gli effetti dei suoi interventi sulla natura. Basti pensare agli effetti del riscaldamento del pianeta sulla biosfera, agli effetti degli organismi geneticamente modificati, agli effetti dell'impiego dell'energia nucleare, che lasciano ipotizzare uno scenario regolato non più dal potere dell'uomo sulla natura, ma dal potere della tecnica sull'uomo e sulla natura. Una situazione così imprevista, e che per giunta ci trova così impreparati, crea in ciascuno di noi un senso di impotenza che porta o alla rassegnazione di fronte all'ineluttabile, o alla rimozione del problema attraverso i mezzi di intrattenimento e i consumi di massa (forse solidali e omologhi ai mezzi di distruzione di massa), con conseguente deresponsabilizzazione degli individui e della società che, in nessun modo, si sentono soggettivamente "colpevoli" di quanto sta accadendo. In questo scenario che cosa resta da fare all'etica e alla politica per trovare un punto di riferimento, una direzione, un orizzonte? Non tanto prescrivere, esortare, mettere in guardia, quanto cominciare a rimuovere questa indifferenza emotiva, in modo che non si atrofizzi il senso di responsabilità e non si rimuova il senso della fine, che difficilmente sarà evitabile nell'indifferenza generalizzata e nell'interiorizzazione di quel sentimento nefasto che è l'ineluttabilità.

“Non conosciamo la natura e per questo la distruggiamo”, testo di Ferdinando Boero - zoologo ed ecologo, già professore di “Zoologia e Antropologia” presso l’Università Federico II di Napoli, ricercatore del CNR – a cura della “Scuola FQ di cittadinanza” e pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, venerdì 23 di giugno: Le specie si riconoscono tra loro quando si incontrano e interagiscono, e sanno leggere le condizioni dell'ambiente circostante, ma non hanno contezza di come funzionino gli ecosistemi, e non percepiscono ciò che va oltre i loro sensi. Noi siamo in grado di farlo, possiamo cambiare in modo pervasivo quel che ci circonda e abbiamo colonizzato l'intero pianeta, modificandolo grazie alla conoscenza, e all'ignoranza. Alcune conoscenze sono patrimonio comune: la Terra è rotonda, gira attorno al Sole, è coperta per il 71% dall'oceano globale e il pianeta è vivo perché c'è l'oceano: lo sappiamo tutti. Stentiamo a renderci conto, però, che l'oceano è un volume e, se moltiplichiamo quel 71% per la profondità media della massa oceanica, risulta che più del 90% dello spazio abitato dalla vita è oceano, e la maggioranza di quello spazio è al buio, dove la fotosintesi è impossibile. Gli abitanti dell'immensità oceanica vivono sospesi nell'acqua: squali, cetacei, pesci, pinguini, meduse, calamari... sono tutti carnivori. Lo stesso vale se scendiamo in profondità, nel buio. Come possono esistere ecosistemi costituiti solo da carnivori che si mangiano tra loro? Dove sono le piante? Le alghe e le piante marine costiere sono importantissime sottocosta, ma non sostengono i fenomeni vitali della massa oceanica. E dove sono gli erbivori? Sono pochi i pesci erbivori. Cosa sostiene gli ecosistemi apparentemente dominati dai carnivori? La risposta è nei cicli biologici. Tutti i pesci si sviluppano da piccole uova che diventano embrioni, larve, e stadi giovanili che poi raggiungono la taglia adulta. Dai tonni alle acciughe, tutto inizia da minuscoli esseri che, da adulti di diverse dimensioni, si mangiano tra loro. Da giovani, invece, quasi tutti mangiano piccoli crostacei del plancton, soprattutto copepodi, erbivori che si nutrono di alghe microscopiche (le piante), anch'esse planctoniche. Il plancton di copepodi e alghe microscopiche regge l'enorme massa di carnivori che, da sola, non potrebbe sussistere. Tutti i viventi muoiono, i batteri li decompongono e, dalla decomposizione, si formano i nutrienti che riprendono vita con la fotosintesi delle alghe microscopiche. Quello che viene prodotto nella zona illuminata scende verso il buio profondo, la decomposizione batterica lo frammenta: cade la neve marina, formata dai residui di chi viveva in superficie. Al posto degli erbivori sono i consumatori di detrito a essere alla base di reti trofiche solo apparentemente di soli carnivori. Il mondo vivente in gran parte funziona così. I copepodi sono gli animali più importanti del pianeta, le microalghe sono le piante più importanti e i batteri decompositori sono i più importanti di tutti: senza di loro gli ecosistemi non possono funzionare. E la fisica? Una sola grande corrente collega gli oceani in un unico sistema: il grande nastro trasportatore oceanico, innescato dalla formazione di ghiaccio marino. Quando l'acqua marina gela, il ghiaccio "dolce" galleggia e il sale rimane nell'acqua fredda e salata sottostante: questo la rende densa e la fa affondare, portando in profondità l'ossigeno prodotto dai vegetali marini e dagli scambi con l'atmosfera. La corrente generata in Artico scende lungo l'Atlantico, arriva al polo sud, gira attorno al continente antartico, un ramo va verso l'oceano Indiano, l'altro verso il Pacifico; entrambi i rami risalgono in superficie, si scaldano e tornano verso l'Antartide, da dove risalgono verso l'Artico attraversando l'Atlantico in superficie. Il freddo è il motore del grande nastro trasportatore, ma il riscaldamento globale altera la formazione di ghiaccio e muta il clima oceanico e atmosferico. Tutto è collegato, e gli ecosistemi funzionano grazie a una biodiversità in gran parte sconosciuta: si stima che sia composta da otto-dieci milioni di specie, ma ne conosciamo solo due milioni. Non si possono capire gli ecosistemi (la funzione) se non si conosce la biodiversità (la struttura). Questa ignoranza era ininfluente quando la nostra specie non aveva impatti globali, ma oggi li ha. Stiamo cambiando il pianeta e lo stiamo rendendo sempre più inospitale per noi. Finalmente lo abbiamo capito e iniziamo ad ascoltare i ricercatori che da decenni avvertono delle conseguenze di sistemi di produzione e consumo insostenibili. Non abbiamo mai vissuto così bene come oggi, ma lo facciamo contraendo un debito con il resto della natura. Finalmente il nostro Paese ha capito che biodiversità ed ecosistemi sono importanti e li ha inseriti nell'articolo 9 della Costituzione. Ora bisogna agire di conseguenza, prendendo contezza dell'insufficiente conoscenza di come è fatto e come funziona il pianeta, in termini di biodiversità ed ecosistemi. La Commissione europea sostiene un Pnrr che, come fine principale, ha la transizione ecologica. Ma come possiamo pensare di intraprendere sane politiche di sostenibilità se non abbiamo conoscenze sufficienti sullo stato dei sistemi che ci sostengono? Lo stato della biodiversità e degli ecosistemi sarà la misura dell'efficacia di ogni iniziativa politica e tecnologica che miri alla sostenibilità. Oggi, quello stato ci dice che stiamo esercitando impatti troppo intensi: dobbiamo "transitare" verso una consapevolezza ecologica. L'ecologia è politica: non esistono società ed economie avulse dai sistemi ambientali. Abbiamo sviluppato una cultura autoreferenziale. Dobbiamo continuare a farlo, ma dando il giusto valore alle cose. Quando la natura è ferita a morte... vince: travolge chi la ferisce, ed evolve in un'altra natura, come 'è già successo almeno cinque volte nella storia della vita. Il nostro benessere dipende dallo stato del pianeta. È urgente una rivoluzione culturale: senza conoscenza del mondo naturale non possiamo programmare politiche di sostenibilità e valutarne l'efficacia. La transizione ecologica è possibile se l'ecologia diventa patrimonio culturale irrinunciabile: i nostri sistemi di formazione non forniscono le ''basi" culturali necessarie per capire come è fatto e come funziona il mondo che stiamo rovinando a causa dell'ignoranza. I docenti mi dicevano "non hai le basi", ed erano loro a non averle. Dobbiamo formare i formatori, per costruire una cultura che comprenda la natura.

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