“Olocausto”. Di seguito il racconto “Il ladro dei lumi” di Elsa Morante
riportato in “Italica” di Giacomo Papi
alle pagine 128/133. Dalla nota editoriale: (…). Nella nota al testo, già
nella prima edizione, si legge che il racconto «finora inedito, porta la data
1935, e appartiene dunque alla preistoria dell'autrice. (...). Una preistoria,
come si vede, non risparmiata da terrori primordiali».
Il racconto: Sebbene io non abbia ancora vissuto un
numero d'anni sufficiente per poterlo credere, sono quasi certa di essere stata
io, quella ragazzina. Vedo con chiarezza la via, angusta, sudicia, su cui le
screpolature del vecchio intonaco disegnavano figure e macchie. La casa di
cinque piani (la famiglia occupava l'ultimo) era la più alta della via. Nel
fondo era il Tempio. Io non avevo più di sei anni. Dalle finestre vedevo
passare gli uomini pallidi, le donne brune dall'espressione quasi sempre volgare
o torva, i ragazzi seminudi, grigi di polvere. Vedevo anche, di fronte, una
casa giallastra, con stuoini alle finestre, e, sul lato, un ampio cortile
senz'erba. Spesso una fila d'uomini, per lo più militari, aspettava in questo
cortile. A turno entravano per pochi minuti e poi si allontanavano,
scambiandosi frizzi e chiacchiere. Alle finestre del primo piano si
affacciavano sempre donne misteriose, ridenti, con le facce paonazze, gli occhi
bistrati, e la voce forte e decisa. Udivo, specie la notte, i bassi richiami di
queste loro voci; quando mio padre tornava dal caffè, sebbene egli non fosse
che un vecchio gobbo, esse lo invitavano: «Vuoi salire, bel moretto? Vuoi?». Mia
madre, ancora giovane, esile, aveva un volto grazioso, sciupato dal rancore. Ad
ogni occasione, si batteva rabbiosamente la fronte con i pugni e, per le mie
mancanze, aveva l'abitudine di maledirmi, in un ebraico solenne, volgendo verse
il Tempio quella faccia disfatta. E io sbigottivo, sapendo che le maledizioni
dei padri e delle madri, ripercosse dagli echi arrivano sempre a Dio. Appena
faceva notte, mentre mio padre si avviava al suo caffè, essa andava a passeggio
sulle mura, insieme alla mia sorella maggiore, la bella, la sprezzante. Io
restavo a casa, per non lasciar sola la vecchia. Questa nonna era sorda, e
pareva di legno. Un seguito d'anni innumerevole l'aveva succhiata lentamente,
fino a ridurla un piccolo scheletro di legno, che forse non poteva neppure più
morire. La sua testa era quasi calva e le palpebre oscure sempre abbassate.
Teneva ferme lungo i fianchi le mani, dalle unghie di un turchino livido. Con
mio stupore, avevo scoperto che si fasciava il petto e i fianchi, come si fa ai
bambini, e, su tutte queste fasce, poneva degli ampi stracci grigi. Dicevano
che fosse ricca. Appena gli altri erano usciti, con una frase monca, che
sdrucciolava a fatica fra le sue gengive, mi ordinava di spegnere il lume; era
inutile, per noi due sole, sciupare il petrolio. Poi diventava muta e immobile.
Io ubbidivo, sebbene tremassi. Infatti, avevo appena girato la chiavetta della
lampada, che il fantasma del buio e della paura si rizzava alle mie spalle,
mostrando al posto degli occhi due fosse nere. Ed io, per avere un po' di
chiaro, mi raggomitolavo presso la finestra. Il fatto avvenne più di cinquant'anni
fa. Dalla finestra potevo scorgere il Tempio, la sua cupola tozza, i gradini,
le lunghe finestre dai vetri colorati, e, attraverso i vetri, l'opaco
rosseggiare delle lucerne dei morti. Le lucerne di ferro battuto pendevano
nell'interno del Tempio, e chi voleva dedicarne una a un morto doveva pagare il
guardiano Jusvin perché l'alimentasse con olio e badasse a non farla spegnere né
di giorno né di notte. I morti, nella loro tenebra, erano molto più tranquilli
se possedevano una lucerna. Solo dalle mie finestre si poteva scorgere
l'interno del Tempio, con le sue luci rosse. Vedevo il guardiano Jusvin salire
ogni sera i gradini per chiudere il Tempio e versare l'olio. Era un uomo bruno,
d'aspetto bello e solenne, con occhi neri, e capelli e barba ricciuti. Nella
penombra, così oscuro, pareva un profeta o un angelo, mentre saliva al Tempio,
col suo passo obliquo, portando le pesanti chiavi. Ma una sera era appena
entrato, che vidi ad una ad una spegnersi le lucerne; ed egli uscì, guardingo,
col suo spegnitoio, lasciando dietro di sé un buio enorme. «Nonna!» gridai. «Jusvin
ha spento tutti i lumi dei morti!» «No» biascicò la sorda. «Non si sciupa il
petrolio. Non si accende la lampada.» «Non capisci?» gridai tremando per tutto
il corpo. «Jusvin ha spento i lumi! I lumi!» «Tornerà presto, la Marianna, sì;
sì» rispose la vecchia. Allora rinunciai a spiegarle quel segreto. Vedevo
intorno a me le figure del buio e tremavo che aprissero le loro bocche, e mi
parlassero. Tremavo per quello che avrebbero potuto dirmi, e per quello che
avrebbe detto il Signore. Tutte le sere, da quel giorno, vidi Jusvin chiudere
dentro di sé il portale del Tempio, e spegnere i lumi. Il suo scopo era di
risparmiare l'olio, guadagnando sul tributo che riscuoteva per le lucerne. Così
spiegò mia madre; e mi disse anche di tacere, perché l'uomo aveva sei figli
piccoli, e una denuncia gli avrebbe fatto perdere il posto. Dunque, silenzio.
Iddio lo vedeva e avrebbe pensato a punire colui che rubava la luce dei morti.
Iddio farà giustizia. «Ladro! Ladro!» gridavano i miei nervi e le mie ossa,
quando vedevo quell'ombra salire, piano, lungo la scala. Aspettavo nell'ansia che
le sue mani cadessero, come due stracci. Avrei voluto correre al Tempio,
gridare forte: «Io ti vedo! Ti vedo quando rubi la luce dei morti! Non hai
paura... di Dio?». Ma rimanevo ferma, paralizzata nel vano della finestra.
Pensavo ai morti, sotto la terra, senza nessun lume. E per non vedere, mi
coprivo la faccia, finché di nuovo ero attratta da quell'ombra lunga che ora
discendeva, col suo spegnitoio; e spariva nei vicoli. Una sera lui non venne, e
le rosse fiamme tremolarono tranquille dietro i vetri. Quando riapparve, dopo
un intervallo, non poteva più parlare. Cavava a stento dalla gola suoni rauchi
e balbettii, e sbarrava gli occhi, con gesti da burattino, come fanno i muti;
finché un giorno urla e rantoli bestiali risuonarono nei vicoli. Era Jusvin che
moriva. «Ecco la giustizia del Signore» dissero. Il dito del Signore che
l'aveva toccato sulla lingua, ed ora quella lingua maledetta di Jusvin si
disfaceva in una piaga. Era un male che la gente osava appena nominare con
paura (io lo legavo, per il suo nome fantastico, alla feroce fauna marina e ai
tropici africani). E quelle urla corsero per tutte le strade, ripetendo che il
corpo del peccatore si torceva e sudava. E non ebbero un istante di riposo,
fino al silenzio. «Non avrà mai pace» dissero, scuotendo il capo. «Né lui né i
suoi figli.» Andando a scuola, incontravo spesso i suoi figli, specialmente
Angiolo ed Ester. Essi erano assai belli, benché fossero tanto sporchi e nudi.
I due grandi occhi di Angiolo erano simili a due fuochi, e, quando rideva,
faceva le fossette. Ester aveva splendidi riccioli, le gambe snelle, e la sua
faccia rotonda era come un frutto. Io li osservavo, spaurita. Pensavo che il
dito di Dio li toccasse sulla lingua, come aveva fatto al padre, ed ecco, la strana
bestia africana gliela rodeva. Ed essi non avrebbero potuto più parlare, più
tardi, se non con tristi suoni. Uno dietro l'altro, muti, con una piaga dentro
la bocca, i figli di Jusvin, e i figli dei figli, dovevano passare davanti al
Signore. Questa scena mi tormentava nelle mie solitudini infantili e riappariva
nei miei sonni; ma qualche cosa di più chiaro io vidi in quella sera d'estate,
presso il Tempio. Mi era avvenuta una grave disgrazia. Mio padre mi aveva
ordinato di uscire e mi aveva dato una moneta, incaricandomi di giuocare tre
numeri al lotto. Nel tornare dal banco, assorta in fantasticherie, avevo
perduto il biglietto acquistato, coi numeri. Febbrilmente avevo errato per
quelle strade, singhiozzando piano, frugando nella polvere. Nulla. E poi rimasi
ferma, rannicchiata presso l'alto muro, all'ombra notturna del Tempio. Pensavo
di non tornare più a casa, di uscire dal Ghetto, di uscire dalla città e di
morire. Nel pensiero chiamavo mio padre, in quell'ora, col soprannome che gli
dava la gente: il gobbetto. Tante volte mi avevano chiesto: «Sei la figlia del
gobbetto, tu?». Ed ora nella mia mente, con paura, passavano idee nuove, lampi
sacrileghi: "Il gobbetto mi picchierà. Perché deve picchiarmi? Io sono
piccola, ma bella, ho due trecce lunghe e so leggere. Lui è un gobbetto. Non
voglio esser picchiata da lui. Ma io ho perduto il biglietto del lotto, che
forse avrebbe vinto. Ho fatto male, era suo, e lui mi picchierà. E mia madre mi
maledirà. Questo è il castigo. Io giravo guardando le case, le finestre e le
facce, senza pensare al biglietto, e ho peccato. Anche Jusvin aveva peccato, e
il Signore l'ha punito". Ecco Jusvin, in cospetto del Signore. Il Signore
non ha corpo né faccia; è come una nube di tempesta, come l'ombra di una
montagna: «Pietà, Signore, l'ho fatto per i miei figli. Acqua alla mia lingua,
sonno ai miei occhi. Pietà del mio camminare che invidia i placidi morti».
Parole sono queste che ha sepolte nella gola, ma non prenderanno mai forma
sulle sue labbra. La bocca si torce, gorgoglia, l'uomo gestisce e suda. E lui,
il senza-forma, non parla. Il suo tacere significa: Tu, ladro. Intanto sono giunti
molti altri, silenziosi, usciti dalle mura del Tempio. I loro corpi sono masse
oscure, i loro volti sono maschere dalle occhiaie vuote; eppure mi sembra di
riconoscerne qualcuno. Ecco la vecchia Mitilda, quella che cuoceva i semi di
zucca e che poi, mi dissero, è andata in cielo. Invece è qui, con le scarpe
rotte e il fazzoletto intorno alla sua faccia senz'occhi. Ed ecco Lazzarina e
il figlio Mandolino, lunghi lunghi, dalle lunghe braccia, col cappello a
cilindro sui visi scheletriti. Sì, sono loro e altri non ne conosco, ma tutti
si rassomigliano, e trascinano fra le mura buie i loro piedi pesanti. Alcuni
hanno vesti bizzarre, facce di stracci, dai colori diversi e sbiaditi, o fasce
di cencio intorno al busto; con cappelli di tutte le fogge, come quelli che si
vedono nei teatri. Certe donne portano vesti ampie che strisciano per terra
senza rumore, e bistri e rossetti sulla pelle. E altri invece sono seminudi e
pallidi. Sono i morti, e brancolano incerti, e tendono le labbra come per bere,
chiedendo il loro lume. Nessuno di loro ha le ali; sembrano talpe uscite dalla
terra. Di sotto la terra, certo credevano di vedere ancora il giorno in quel
lume, ed ora tentoni lo cercano. Solo i vivi possono accenderlo e spegne lo;
così vuole Dio, nel mezzo, il silenzioso, che castiga i vivi rinchiude nella
terra i morti. Tale era il mio Dio; e quella ragazzina fui io, o forse mi
madre, o forse la madre di mia madre; io sono morta e rinata, e ad ogni nascita
si inizia un nuovo processo incerto. E quella ragazzina è sempre là, che
interroga spaurita nel suo mondo incomprensibile, sotto l'ombra del giudice,
fra i muti.
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