Ha scritto Tomaso Montanari in “Ipocrisia, il vizio del potere” pubblicato sul settimanale “il Venerdì
di Repubblica” di ieri, 9 di giugno 2023: Chi nulla sapesse della Divina Commedia
potrebbe leggere con naturalistica innocenza questo foglio di Giovanni Stradano
- il fiammingo Jan van der Straet, che (…) decise di vivere e morire a Firenze,
lavorando (…) per la corte medicea, perfettamente immerso nello stile del
manierismo internazionale -. Virgilio e Dante contemplano il supplizio di un
dannato crocifisso a terra, meditandone la terribile sorte insieme a una sorta
di processione di venerabili monaci barbuti. Quello inchiodato al suolo è
Caifa, il capo del Sinedrio che convinse tutti i suoi pari che fosse meglio la
morte di uno solo che un rischio per tutti: e quel solo era Gesù. Con lui,
condannati allo stesso supplizio, ci sono anche il sommo sacerdote Anna e tutti
coloro che condivisero questa scellerata decisione spacciata per la più saggia
e prudente: e sono condannati non come omicidi, ma come ipocriti. E anche tutti
quegli apparenti monaci sono in realtà altrettanti dannati, destinati a indossare
per sempre pesantissime cappe di piombo fuori dipinte d'oro, perché una falsa
etimologia della parola ipocriti (che vuol dire attori, recitanti) suggeriva
che chi così pecca si ammanti, di fuori, dell'oro del bene comune: salvo
seguire, dentro, il piombo dell'utile personale. In questa scena terribile, e
terribilmente attuale, Dante ritrae l'ipocrisia come il vizio per eccellenza
del potere: e in questo caso del potere religioso, ecclesiastico. Nonostante
che a Gesù si debba la più recisa condanna dell'ipocrisia del potere («Guai a
voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati...!
Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geenna?».
Matteo, 23, 33), proprio la Chiesa gerarchica ha infatti eletto l'ipocrisia a
sistema. E, nell'insieme, tutto questo «collegio degli ipocriti tristi»
(Inferno, XXIII, vv. 91-92) è una straordinaria immagine senza tempo del potere
italiano, che nel modello curiale affonda le sue radici storiche: da sempre
abituato a sfoggiare fuori l'oro dei principi, tenendo dentro il grigio
pragmatismo di un plumbeo cinismo. Storia anche di oggi: come dimostrano le
recenti celebrazioni per don Lorenzo Milani, un cristiano radicale che alla
contestazione dell'ipocrisia del potere ha dedicato un'intera vita di parresia,
e che ora si vede celebrato (anzi, usato e abusato) proprio dall'eterno potere
che avversava. E non potrebbe esser più duro il contrasto tra don Lorenzo, che
attraverso le sue parole ci appare ancora febbrilmente vivo, e «quella gente
stanca» (Inferno, XXIII, v. 70), morta anche da viva. Di seguito, “Ineluttabile passerella” di Filippo
Ceccarelli – tenutario della rubrica “Indizi neurovisivi” del settimanale
“il Venerdì di Repubblica”, sul numero di ieri -: Ci sarà una ragione per cui tutto
è sempre e soltanto una passerella? Tanto è così che quando Giorgia Meloni si è
recata sui luoghi dell'alluvione, la prima cosa che ha detto è stata:
"Niente passerella"; però poi per forza di cose l'ha fatta, o almeno
la si è vista in Romagna con camicia verde, capelli raccolti e stivali che
s'informava, entrava nelle case, scendeva le scale, accarezzava il viso di
signori anziani, sembrava sinceramente commossa. Senza giornalisti al seguito,
è vero, ma con i telefonini e avveduti social media manager la passerella
informale è risultata ancora più efficace nella sua comoda disintermediazione.
Anche Silvio Berlusconi, era il maggio del 2008 nel pieno dell'emergenza
monnezza, volle chiarire: "Non vengo a Napoli per fare la passerella, ma
per affrontare i problemi". E sarà anche stato così, per quanto in una
successiva visita con passeggiata protocollare, venne segnalata una squadretta
di addetti adibita a sporcare il tragitto presidenziale quel tanto che bastava
perché di lì a poco, opportunamente rifornito di una ramazza, il Cavaliere si
esibisse in una intensa pulizia a beneficio delle telecamere. Dal che si deduce
l'ineluttabilità della passerella, ma anche l'astuta convenienza retrattile di
questa pratica che in origine proviene dal mondo del teatro di rivista,
allorché gli artisti sfilavano sull'estremo lembo del palcoscenico per meglio
raccogliere gli applausi. Défilé aggiornato ai moduli televisivi dal Maurizio
Costanzo Show, quindi trasferitosi nel mondo della moda, (...), e nel caso qui in esame inesausto motivo
di sdegno e dileggio per tutti quei politici che approfittando di eventi
drammatici si mettono in mezzo cercando di farsi notare e ammirare. La
casistica e l'ambientazione della passerella diffusa è piuttosto ampia: luoghi
terremotati e relativi anniversari, ponti crollati e cerimonie di
inaugurazione, liberazione di ostaggi e arrivo dei medesimi all'aeroporto,
attracco di navi con migranti, comunità di recupero, eventi di charity, sopralluogo
intorno alle tende nelle università, cortei contro la violenza di genere,
taglio di nastri per nuovi reparti Covid, visite ai militari italiani impegnati
all'estero (meglio se tuta mimetica), abbattimento di villette dei Casamonica
(possibilmente con foto sulla ruspa), camere ardenti di celebrity. È in tutti
questi posti che dagli e dagli i politici tendono a essere vissuti un po' come
degli abusivi, un altro po' come degli invasori. Tocca aggiungere con sgomento
che se non vanno, sono criticati, mentre se partecipano sono accusati di fare
la passerella. Il paradosso dovrebbe farli riflettere, eventualità di cui
tuttavia si è portati a dubitare.
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