Ha scritto Dario Vergassola in «Se va in onda "ballando col gerarca''» pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 9 di giugno 2023: (…). I comunisti si rassegnino: con buona pace di Gramsci, l'intellettuale organico è finito nell'organico. L'avevamo promesso: "Spezzeremo le reni all'Annunziata". Ed ecco fatto.
Sarà un nuovo Ventennio, diciamo un Ventennio in versione remix. Il
fisico Rovelli si sbagliava quando diceva che la freccia temporale non torna indietro: torna, professore, e come se torna... Ancora ci chiedono perché non ci liberiamo della Fiamma, che è un simbolo
post-fascista. Non lo facciamo per molti motivi: il più importante dei quali è
che è un simbolo post-fascista. E io
farò la mia parte: se c'è da condurre Miss Salò o da sgambettare a
"Ballando col gerarca", io ci sono. Riporteremo in auge, magari con
un piccolo ritocco, i
programmi che fecero grande la Radiotelevisione Italiana: vi faremo ridere con "Quelli della notte dei
cristalli". Per fortuna Benigni e Berlinguer non sono che un lontano
ricordo. Questa volta non scherzo: se serve, io prendo in braccio pure
Crosetto. Di seguito, “Quale egemonia culturale” di Luigi
Manconi pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, domenica 10 di
giugno 2023: Quale sarebbe il rapporto, se mai ce ne fosse uno, tra il pensatore
comunista Antonio Gramsci e il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano? Lo
spazio che li separa è tanto profondo da risultare vertiginoso, ma le
chiacchiere politico-mondane sulla categoria di egemonia culturale (ideata dal
primo e distrattamente sbocconcellata dal secondo) sembrano accostarli. È
un'illusione ottica. Per
Gramsci, che elabora concetti già presenti in Karl Marx, la borghesia, grazie
al controllo sulle grandi agenzie di formazione dell'opinione pubblica e della
cultura di massa, esercita il suo dominio e perpetua la proprietà privata dei
mezzi di produzione. Le classi
subalterne, per affermarsi, devono a loro volta costruire una egemonia
culturale alternativa, capace di diffondere mentalità collettiva e credenze
condivise. Dunque, la posta in gioco del conflitto per l'egemonia culturale è
il potere politico. Se ne
dovrebbe dedurre che oggi, e da almeno tre decenni, a prevalere sia il punto di
vista della destra e la sua lettura della realtà. I risultati elettorali, fino
al 25 settembre scorso, ne sono la prova provata. In altre parole, in Italia, il senso comune
maggioritario sembra saldamente orientato a destra: sul piano delle pulsioni
profonde (xenofobia, concezione securitaria della giustizia, familismo) così
come su quello delle scelte più direttamente politiche (fisco, lavoro,
relazioni internazionali). Insomma, la
cultura di sinistra non è in grado di offrire, e da tempo, visioni del mondo e
schemi interpretativi del presente ispirati da una concezione progressista e
liberal-democratica. Ora, quest'ultima è appannaggio di una minoranza per certi
versi ancora vivace e, tuttavia, ripiegata in una posizione di resistenza.
Si prenda il caso delle politiche
migratorie: i provvedimenti del governo Meloni sono la manifestazione del
primato di un sentimento "di destra", che risale a prima ancora della
legge Bossi-Fini (2002). Tanto è vero che da allora essa è rimasta pressoché
intatta. Da cosa nasce
allora l'ossessione della destra italiana per la presunta egemonia della
sinistra? C'è, sì, anche un dato di realtà: i quasi ottant'anni trascorsi dalla
fine della Seconda guerra mondiale sono stati effettivamente, e per una lunga
fase, all'insegna dell'antifascismo. E
come poteva essere altrimenti? I fascisti e gli a-fascisti faticavano a
inserirsi nella temperie culturale e nel sistema di potere dell'Italia
repubblicana, perché ne venivano respinti, sì, ma anche perché incapaci di
elaborare una propria, anche striminzita, proposta ideale. Questa condizione di
debolezza era ulteriormente aggravata da uno spirito revanscista che si
riproduceva tra rivalsa e acrimonia, determinando un inconfessato complesso di
inferiorità. D'altra
parte, accadeva che la cultura di destra risultava incapace di produrre
significativi talenti - perché così andava la storia - inducendola a stringersi
intorno a rare grandi personalità come Giuseppe Prezzolini (nato nel 1882),
Giuseppe Berto e Uto Ughi, e cercando spasmodicamente tracce "di destra"
in personaggi controversi e, dalla stessa destra, spesso perseguitati (da Pier
Paolo Pasolini a Lorenzo Milani); e, ancora, in autori orgogliosamente estranei
a qualunque etichetta politica (da Tommaso Landolfi a Goffredo Parise). Lungo tutta questa complicata fase, la sinistra andava
perdendo la propria egemonia. La crisi delle grandi organizzazioni di massa e
l'erosione della loro funzione pedagogica, vittime a loro volta della
polverizzazione del mercato del lavoro, hanno prodotto la frammentazione della
mentalità collettiva, fondata sulla solidarietà di classe e su aspettative
condivise. A ciò si deve
aggiungere la perdita di senso della scuola pubblica come grande soggetto
formatore; dunque, anche a sinistra, l'acuta crisi creativa, di talenti e di
autorevolezza morale (Norberto Bobbio moriva quasi centenario vent'anni fa) ne
è solo un'estrema conseguenza. I
voti delle cinture operaie delle città del Nord, indirizzati verso la
Democrazia Cristiana, costituiscono un fenomeno che risale già alla seconda
metà degli anni '80 e che si rinnova un decennio dopo nei flussi elettorali a
favore di Lega e Forza Italia. Nel
corso di questo sommovimento la sinistra intellettuale era rimasta lì, a
presidiare le "casematte" (ancora un termine gramsciano), ovvero
quelle istituzioni della società civile dove si amministra cultura. Da queste, la destra è rimasta sostanzialmente
esclusa, meno perché estromessa e più in ragione di una drammatica mediocrità.
Ma anche questa rischia di essere una verità parziale: in ambiti fondamentali
per la formazione delle idee collettive, come le università e le case editrici,
la destra è da mezzo secolo presente e attiva. L'equivoco nasce dal fatto che, sul piano delle
opzioni morali e degli stili di vita, si è diffuso un senso comune che non è
"di sinistra", bensì semplicemente post-politico, consumistico e
"fluido" (in tutte le accezioni possibili). È il paradigma-Amadeus, trasformato da Fratelli
d'Italia in una icona guevarista, mentre è - palesemente - un simulacro della
contemporaneità. Dopodiché,
esiste tuttora una minoranza culturale di sinistra, vitale e appassionata. Per
rafforzarla e, magari, renderla competitiva con la destra, non servono posti in
Rai o la direzione di un museo, ma una paziente e tenace battaglia delle idee.
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