Ha scritto Antonio Padellaro in “Le maggioranze linguistiche di Supermario”,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 12 di febbraio 2021: L’impressionante
collage “dadaista” sul giornalismo in ginocchio davanti a Mario Draghi (e ai
suoi cari) (…) suscita un interrogativo lancinante: perché? Un paio le risposte
possibili ma non esaustive. La prima spiegazione, forse sommaria ma
inevitabile, è la cupidigia di servilismo. Ovvero, l’impulso incontenibile alla
sottomissione e senza che lo abbia ordinato nessuno. Dubitiamo infatti che il
premier incaricato abbia necessità di uniformare l’informazione ai suoi voleri
poiché già da tempo le redazioni unificate, nell’attesa dell’Avvento si erano
posizionate, e del tutto spontaneamente, a 90 gradi. Un fenomeno davvero
straordinario che ripropone la domanda di cui sopra: perché mai? Causa il breve
spazio di questa nota, rimandiamo a una celebre citazione del sociologo Alain
Accardo sulla patologia del riconoscimento sociale dei giornalisti (e sul
rapporto ambiguo dominanti/dominati) definita sindrome di Madame Bovary. In
parole molto povere, il nome Draghi richiama oggi il mito della eccellenza
nella competenza cui noi disgraziati scrivani, abituati a lavorare sull’urgenza
e l’approssimazione, deferenti ci inchiniamo. Può esserci poi una spiegazione
più terra terra che chiameremo del Marziano a Roma. Nel racconto di Ennio
Flaiano, quando l’alieno Kunt atterra nei pressi di Villa Borghese, la sua
presenza desta grande scalpore tra i cittadini e i media e di lui si parla come
di un prodigio a cui affidare i destini della nazione, e forse anche
dell’umanità. Purtroppo svanito l’effetto novità, i romani inizieranno a
ignorarlo finché il marziano deluso tornerà sul suo pianeta. Sotto certi
aspetti è lo stesso destino a cui andò incontro il senatore Mario Monti quando
nel novembre 2011, succeduto a Silvio Berlusconi, fece i conti “con la
salivazione a mille della stampa indipendente che da quando ha ricevuto
l’incarico non fa che leccarlo dalla testa ai piedi” (Marco Travaglio).
L’entusiasmo per la “sobrietà” del nuovo premier fu declinata in tutte le forme
possibili finché immaginammo che anche il cane di Monti si comportasse con
sobrietà canina, addestrato a recapitare ogni mattina al padrone una copia
croccante del Financial Times e come lui provvisto di un cappottino invernale
verde loden. Purtroppo, in seguito e del tutto immeritatamente, il destino del
professor Monti ricordò quello del marziano Kunt, ragion per cui oggi
trepidiamo per la sorte del professor Draghi. A cui raccomandiamo di continuare
a occultare il bracco ungherese, ma anche le sue personali riflessioni sui
media. E per meglio difendersi dalle maggioranze linguistiche (che oggi lo vogliono
santo subito ma domani chissà) per favore non tolga mai la provvidenziale
mascherina. Di seguito, “Atterraggio
brusco” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi 17
di febbraio 2021: (…). La lista dei ministri, le prime risse fra i medesimi, le nomine
dei “nuovi” burocrati e prossimamente i sottosegretari promettono bene. Chi
oracolava di Mes, fine della dittatura sanitaria, dei Dpcm e del Sussidistan,
licenziamenti liberi, rivincita del privato sul pubblico e più vaccini per
tutti in totale discontinuità dai dilettanti-incompetenti-scappati di
casa-mediocri di prima si sta rassegnando alla continuità e presto, in cuor
suo, ammetterà alla luce del dopo che prima era difficile fare meglio. Due
settimane di ubriacatura e siamo già tornati sulla terraferma. Vuol dire che
Draghi non è bravo, competente, prestigioso? No, anzi. Significa che i
superman, i tecnici super partes, gli uomini soli al comando, i salvatori della
patria e i migliori esistono solo nella fantapolitica. Basta vedere di chi si
sta circondando Draghi, complice la sua scarsa conoscenza della politica e
dell’amministrazione: tre o quattro pezzi pregiati di Bankitalia, di
Confindustria, delle accademie e delle burocrazie, e poi i peggiori cascami
delle vecchie lobby che han fatto solo disastri, dal pescoso laghetto Cassese a
Cl alle terrazze romane e milanesi. Queste cose nessuno dovrebbe saperle meglio
di noi italiani, che di governi tecnici ne abbiamo già avuti tre – Ciampi, Dini
e Monti –, regolarmente passati dagli altari alla polvere nel giro di pochi
mesi. Ma siamo un popolo che dimentica tutto e non impara mai nulla: nessuna
meraviglia, specie nella confusione del mondo ai tempi del Covid. Ciò che
stupisce è che non ricordino e non capiscano nulla coloro che la storia, o
almeno la cronaca, dovrebbero conoscerla: i giornalisti e gli intellettuali.
Prigionieri della loro cupidigia di servilismo e ingannati dalle bugie che
raccontano agli altri, hanno perso un’altra occasione, l’ennesima, per
azzeccarne una. (…). È per i suoi successi, non per i suoi errori, che è caduto
il governo Conte, che stava ricostruendo la politica e il sistema già falliti
anni addietro. Ma questo i trombettieri dei giornaloni non potevano né possono
riconoscerlo, perché i loro padroni quella nuova politica imperniata su
legalità, trasparenza, allergia alle lobby, politiche sociali e ambientali non
l’accettavano. Tantomeno con 250 miliardi di Recovery e fondi di Coesione Ue
all’orizzonte. Terrorizzati nel 2018 dalla vittoria di M5S e Lega e dalla
scomparsa dei propri manutengoli e burattini, han preso a demonizzare i nuovi
venuti e poi a tentare di comprarli e cooptarli. Nel 2019 ci sono riusciti con
la Lega. Ma, quando già pregustavano le elezioni e il ritorno a tavola, han
dovuto fare i conti con Conte, che è riuscito nell’ardua impresa di mettere
insieme M5S e un Pd parzialmente derenzizzato e di formare una squadra di
governo che univa i pezzi meno sputtanati dell’establishment ai marziani
grillini e anche alla gente nuova della sinistra (i Provenzano, Amendola,
Speranza). Anziché impazzire, la maionese è piaciuta: il premier e il suo
governo avevano indici di gradimento molto superiori alla somma dei giallorosa.
Perché i risultati, al netto degli errori, si vedevano: una gestione della pandemia
più efficace che nel resto dell’Ue, i 209 miliardi del Recovery, la campagna
vaccinale, altre misure come il cashback, l’ecobonus 110%, il blocco della
prescrizione, le manette agli evasori ecc. Altro che fallimento
degl’incompetenti, altro che crisi di sistema. In barba a chi confonde le cause
con gli effetti, il fallimento del sistema c’era già stato: nel 2011, quando
morì miseramente il berlusconismo; nel 2013, quando finirono tragicamente i
tecnici montiani e il Pd che se li era accollati per ordine di Napolitano; nel
2018, quando il popolo bocciò le tre ammucchiate demo-forziste di Letta, R. e
Gentiloni benedette dal Colle per tener fuori i marziani e votò in massa per i
due partiti rimasti fuori: M5S e Lega. Dopo ogni embrassons-nous di establishment,
tecnica o politica che sia, vincono sempre quelli che le élite non riescono a
comprendere e demonizzano-esorcizzano come “populisti”: dopo Ciampi, B.; dopo
Monti, i 5Stelle; dopo il napolitan-renzismo, ancora il M5S più Salvini. E ora,
dopo Draghi, è molto probabile un derby fra i due leader che se ne tengono a
distanza: Meloni e Conte (se gioca bene le sue carte). Sempreché la gente non
scambi per novità i codini dell’Ancien Régime di ritorno, che non possono
essere la soluzione perché sono il problema. Gli italiani, diceva Flaiano,
“vogliono la rivoluzione, ma preferiscono fare le barricate coi mobili degli
altri”.
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