Ha scritto il sociologo Domenico De Masi in “Con Draghi al governo diremo addio al welfare”,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 5 di febbraio 2021: (…). Prima
ancora che Draghi salisse al Quirinale, già il sito di Repubblica ha scritto: “Per
gli investitori, Mr. Whatever it takes è la migliore opzione per l’Italia. Piazza
Affari scatta fin dalle prime battute con le banche grandi protagoniste. Lo spread
tra Btp e Bund cala vedendo la soglia psicologica di 100 punti base. Piazza Affari
si conferma in rialzo oltre il 2% a metà mattina. Intesa San Paolo e Unicredit
volano del 5 per cento”. Il welfare è stata la risposta socialdemocratica, cioè
riformista e umanitaria, alle sfide della società industriale, alle
rivendicazioni sindacali, alle istanze religiose, alla lotta di classe, alle
spinte rivoluzionarie. È stato il massimo che il capitalismo ha potuto
consentirsi per mostrare un volto umano pur restando capitalismo. Ma è stato il
minimo che il socialismo ha potuto ottenere per restare socialismo nei paesi
capitalisti. I socialdemocratici ritengono che ogni cittadino, per il semplice
fatto di essere stato messo al mondo senza la sua volontà, abbia il diritto di
sopravvivere decorosamente anche se non è produttivo perché minore, vecchio o
inabile; i neoliberisti, sulla scia di Laffer Kuznets, ritengono prioritario
consentire ai ricchi di arricchirsi: prima o poi la loro ricchezza sgocciolerà
ad alleviare i poveri. (…). Chi sognava ingenuamente che dall’azione congiunta
di Pd e 5Stelle potesse nascere la prima socialdemocrazia del Mediterraneo, può
mettersi l’anima in pace e prepararsi ad una lunghissima marcia per formare una
classe dirigente di sinistra mentre i poveri, aumentati nel numero e peggiorati
nella condizione, avranno imparato a distinguere tra chi li ama e chi li odia. Tratto
da «Oggi resuscita Mario “Keynes”, ma è da illusi: il
M5S gli dica no» di Tomaso Montanari
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di sabato 6 di febbraio 2021: Sergio
Mattarella non ha scelto solo un non-politico di alto profilo che potesse
coordinare un governo di unità nazionale. Non ha scelto solo l’“italiano più famoso
nel mondo” cui un coro imbarazzante eleva da giorni una servile salmodia. No,
ha scelto il simbolo dell’establishment internazionale che ha governato il
mondo negli ultimi decenni, plasmandolo per com’è. Mario Draghi per dieci,
fatali, anni ha guidato la privatizzazione dei beni pubblici degli italiani:
servendo, tra gli altri, due governi Amato, due Berlusconi, uno D’Alema. Il
risultato non è stata una riduzione del debito pubblico, né un miglioramento
dei servizi, ma la creazione di monopoli privati connessi con la politica. Come
capo della Bce ha firmato la famosa lettera del 2011 che chiedeva
“privatizzazioni su larga scala” dei servizi locali, “accordi al livello
d’impresa, in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle
esigenze specifiche delle aziende”, lo smantellamento del pubblico impiego
(incitando alla riduzione degli stipendi), l’introduzione del pareggio di
bilancio in Costituzione (affossandone di fatto l’intero progetto sociale).
Oggi si resuscita il Draghi keynesiano allievo di Caffè, immaginando una fase
espansiva di spesa sociale. Ma nulla supporta questa pia illusione: i soldi
reali del Recovery Plan sono molti meno di quanto si dica, e all’ordine del
giorno c’è un’emorragia di posti di lavoro. Un governo svincolato dalla ricerca
del consenso democratico serve a gestire un bagno di sangue sociale. Come
credere che l’interesse degli esultanti Elkann possa coincidere con quello di
chi vive del proprio lavoro, o che lavoro non ha? Pretendere che il Movimento 5
Stelle faccia suo questo ritorno all’ordine significa volerne l’abiura solenne:
con il cappello a cono e la candela in mano, davanti alla Santa Inquisizione.
Una radicale sconfessione dell’eresia per cui il Movimento è nato, crescendo
nei consensi proprio in opposizione all’ultimo governo “tecnico”, quello di
Monti. Non fu antipolitica: fu la voglia di un’altra politica, in cui i
cittadini tornassero a contare. Una politica che rimettesse al centro i beni
comuni (a partire da acqua e ambiente, due delle cinque stelle) massacrati
dalle privatizzazioni guidate proprio da Draghi. Per molti versi, il Movimento
non è stato all’altezza di quella vocazione: anche se la direzione imboccata
(penso per esempio al Reddito di cittadinanza) era finalmente giusta. Perché
quell’esperienza abbia un futuro, e possa superare le sue contraddizioni, è
necessario ora dire di no: fare opposizione e controllo, con disciplina e
onore. L’arrivo di Draghi rappresenta una stretta oligarchica, e una svolta in
senso esecutivista della democrazia. Il Parlamento deve contare di meno: era
l’obiettivo della riforma costituzionale fallita il 4 dicembre 2016. Lo
chiedevano le grandi banche, lamentando che nel meridione d’Europa ci sono
“governi deboli; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori… e il diritto
di protestare”. Ora Renzi ci arriva per altre vie: quelle, tipicamente sue,
della congiura. Il Movimento può invece ridare dignità e ruolo al Parlamento.
Le pelose chiamate alla responsabilità dimenticano che “il Paese i suoi
rappresentanti lo possono servire in due modi: nell’assumere la grande
responsabilità dell’amministrazione dello Stato e nella critica
dall’opposizione. Se questo concetto che l’opposizione è un dovere critico,
ugualmente indispensabile e degno quanto quello di assumere la responsabilità
della direzione dello Stato, entra finalmente nel costume della nostra vita
politica, deve cessare questo sconcio… quello per cui il governo è l’ordine, e
l’opposizione il disordine”. Sono parole pronunciate in Parlamento, nel 1948,
da un grande Padre costituente, Emilio Lussu. Sembrano scritte per oggi.
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