Si stanno recidendo una serie di fili sociali fondamentali: una persona non va più in ufficio, chiude il suo negozio, non può vedere gli altri. Che effetto può avere questo sugli individui? «Non penso sia catastrofico, la gente vive comunque nell’ipotesi che il contagio non sarà la forma eterna della nostra convivenza. Prima o poi se ne uscirà. Certo che questa sospensione ci mette in uno stato di stand by abbastanza disagevole e non solo perché le attività vengono interrotte. Infatti le attività non sono solo produzione, lavoro, profitto, cose tutte legittime. Ma sono anche “Cosa sto facendo nella mia vita in questa sospensione?”. In quello che prima chiamavamo spaesamento? Noi riusciamo a vivere molto spesso trascinati ma anche rassicurati nelle nostre abitudini quotidiane, e quando queste si interrompono cominciamo a chiederci chi siamo. Questa domanda sarebbe interessante se fosse davvero approfondita. Cosa siamo diventati? Siamo funzionari di apparati che quando si interrompe automaticamente perdono identità? E la nostra identità chi ce la dà? L’apparato? Conta di più il ruolo che noi abbiamo rispetto a chi siamo? Questi sono i sentimenti secondo me appena accennati nell’animo di ciascuno e poi rimossi, perché sono inquietanti. Sarebbe invece il caso che ciascuno, proprio in questa dimensione stagnante, cominciasse a pensare se la sua vita è stata quella che avrebbe voluto oppure se è delegata agli apparati che ti danno, oltre allo stipendio, anche l’identità e tutto il resto».
Lei non ha la sensazione che viviamo in un tempo in cui le tre dimensioni passato, presente, futuro si siano appiattite in una sola? Cioè si sia persa un po’ la tridimensionalità della vita? «Anche qui la cultura cristiana ha stabilito che il passato è male, il peccato originale, il presente è redenzione e il futuro è salvezza. Questa cultura è diventata universale in Occidente soprattutto perché il cristianesimo ha immesso una sorta di indotto ottimismo nella nostra cultura. Senza nasconderci in maniera ipocrita dietro un dito va detto che l’Occidente ha fatto un grosso passo avanti, per sé stesso, con questo ottimismo. Ha stabilito che il futuro è sempre positivo. Anche la scienza, che si tende a contrapporre alla religione, pensa che il passato sia male, ignoranza, il presente ricerca e il futuro progresso. Cristianesimo puro. Sotto questo profilo può essere considerato cristiano anche Marx: il passato è negativo, ingiustizia sociale, il presente è far esplodere le contraddizioni del capitalismo e il futuro è giustizia sulla terra. Anche Freud scrive un libro contro la religione: la nevrosi si colloca nel passato, il presente è terapia e il futuro è guarigione. Non è vero che il futuro è, per definizione, un tempo positivo. Il futuro è positivo se ci si attiva, non certamente per il fatto che sia futuro automaticamente è un rimedio ai mali del passato. Io sono d’accordo con Pasolini quando ha detto che aveva tolto la parola speranza dal suo vocabolario. Ogni volta che sento i politici che dicono “speriamo, auguriamoci, auspichiamo” penso che siano tutte parole della passività: stiamo fermi e aspettiamo e vediamo cosa succede. Non succede niente, se non ci diamo da fare. Questo i giovani lo hanno perfettamente capito, almeno la maggioranza. Non tutti. Esiste un piccolo settore di giovani che io chiamo i “nichilisti attivi”, che non nega di muoversi in un’epoca nichilista, non rinnega il nichilismo. Nichilismo vuol dire, secondo Nietzsche, che manca lo scopo, che il futuro non è più una promessa. Manca la risposta al perché dell’esistenza. Perché mi devo impegnare, perché mi devo dare da fare. Il futuro non è più una promessa. C’è un pezzo di mondo giovanile che vive in una sorta di rassegnazione: non c’è più niente da fare e quindi cosa faccio? Sono arrivato persino a pensare che l’alcool e la droga, a cui i giovani oggi si dedicano in particolare, non sia per loro solo un elemento di piacere, ma finisca con lo svolgere una funzione anestetica. Io non guardo avanti perché il futuro mi angoscia, non mi appare come una promessa ma come una minaccia. Quantomeno come imprevedibile e foriero di ansia. Perciò vivo l’assoluto presente».
Cos’è in una società il trauma di una guerra o quello, come in questo momento, di una guerra senza armi? È una linea di frattura? «La differenza è abissale. La guerra voleva dire bombe, crollo di case, parenti al fronte. Ora la guerra non è più una guerra tra due eserciti, è una minaccia generalizzata su tutto il territorio e in tutti gli strati sociali. La guerra era una cosa molto più tragica, ovviamente, di quanto non sia il contagio e di quanto non sia persino una pandemia. Inoltre la guerra era animata dalla dimensione del nemico: un nemico che si conosce e in qualche modo è visibile. Ora invece c’è l’invisibilità del nemico, una cattiva percezione di chi è il nemico. E poi c’è questa dimensione negazionista che collabora alla non visualizzazione della minaccia. Un virus non si vede, quindi chiunque può dire quello che vuole e allora nascono quei retroscena paranoici con cui si dice che questa è stata tutta un’operazione politica mondiale per tutelare particolari interessi, peraltro come sempre sconosciuti e misteriosi. Questa negazione collabora alla mancata percezione del nemico e fa sì che i nostri comportamenti non siano rigorosi, responsabili. Sono imprecisi per la scarsa percezione di dove sia e chi sia, ciò che ci fa star male».
Questo pregiudizio crescente nei confronti della scienza dove nasce? «Dall’ignoranza di coloro che la criticano. Quello che dobbiamo riuscire a capire è che la scienza non dice la verità, dice cose esatte. La parola esatto viene dal latino ex-actu che significa ottenuto da le premesse da cui si parte. Essere “esatti” è un obiettivo che si raggiunge secondo una logica processuale, sperimentale. Ora cosa succede? Ogni volta sento parlar male degli scienziati che si contraddicono tra di loro, lamentarsi che ognuno dica una cosa diversa dall’altra. Ma, signori, questo è il cammino normale e naturale della scienza. Perché la scienza dice le cose che ottiene dalle premesse che la muovono. Alcune delle quali verranno verificate, altre invece falliranno alla verifica e quindi verranno abbandonate. La scienza procede per prove e per errori. Proprio per questo non dobbiamo meravigliarci della diversità delle opinioni scientifiche, così come non dobbiamo credere che la scienza dica la verità. Dice le cose che la sperimentazione le consente di verificare come positive o come negative. Non c’è un criterio di verità nella scienza, non dobbiamo sposare i modelli di verità che abbiamo per esempio nella religione. Uno crede in Dio e lui è fonte di verità. No, la scienza non procede in questa maniera, procede attraverso la sperimentazione. Bisogna abituarsi a questo relativismo».
L’altro da sé in questi mesi è al tempo stesso un bisogno e una minaccia, sentiamo il peso della solitudine però al tempo stesso, se incontriamo un altro, egli può essere la fonte della nostra malattia. Come disciplinare questa doppia dimensione dentro di sé? «Noi ci eravamo già abbastanza allontanati dalla socializzazione con l’informatica, diciamolo chiaramente. Non avevamo bisogno del Covid, per creare un’altra forma di distanziamento. Perché da tempo molti giovani parlano attraverso il computer, molta gente lavora avendo davanti a sé non il prossimo, ma uno schermo. L’informatica ha già creato un distanziamento sociale, una comunicazione che non è guardarsi in faccia, uno di fronte all’altro. La relazione si è già diluita nella configurazione informatica che non è più un io e te, ma io e la tua rappresentazione nello schermo che sta davanti a me. Naturalmente questo lavoro a distanza, questa forma di comunicazione da lontano sono diventati paradossali in occasione della pandemia. Paradossali anche dal punto di vista didattico. Quando diciamo che la scuola può funzionare a distanza sosteniamo un desiderio, non una realtà. A distanza non si insegna, la formazione ha bisogno del rapporto degli studenti con l’insegnante, il luogo, i compagni di classe. (…). E poi esiste un profilo che ha a che fare con la giustizia sociale: non tutti hanno accesso a queste macchine. Aggiungo che non tutti vogliono mostrare le loro case. Allo stesso modo non so giudicare se sia meglio o peggio il lavoro a distanza. Per la gente che ha un senso del dovere spiccato, diventa superlavoro, perché ha una sorta di poliziotto interiore molto più severo di chi li sorveglia sul luogo di produzione. Ma molti altri che non hanno questo senso del dovere si muovono in un contesto di rilassamento e deresponsabilizzazione. Non so se lo smart working abbia le stesse caratteristiche positive di quando si lavora insieme, si scambiano costantemente esperienze e parole».
Improvvisamente l’uomo moderno, che viveva con un tempo organizzato, scandito e frenetico, si trova di fronte a delle praterie di ore. Quale è il modo migliore per occuparlo? «Se uno non scappa da sé come dal peggior nemico può essere una buona occasione per cominciare a riflettere sulla propria vita. Come mi comporto in termini di affettività con i miei figli e con mia moglie o mio marito? Com’è la mia relazione con il prossimo? Questo deve essere un momento di interiorizzazione. La mia impressione è invece che la gente abbia paura di indagare sé stessa e questo lo possiamo dedurre anche dal fatto che, se è vero che io sono un funzionario d’apparato dal lunedì al venerdì, il sabato e la domenica potrei usarli per leggere un libro, per vedere altri orizzonti, per assistere ad altri scenari, per capire quali sono le forme autentiche di relazione e di sentimento. Ma non va così. Il week end è una fuga all’esterno, non un viaggio all’interno. Bisognerebbe cominciare a farlo da piccoli, insegnare ai bambini a capire e gustare chi si è, cosa si fa, e che cosa si vuole fare domani nel mondo. Se questi pensieri cominciassero ad essere introdotti già dalla scuola forse ci sarebbe un modellino interiorizzato per farlo poi da adulti. Perché vivere a propria insaputa è la cosa peggiore che possa accadere nella propria esistenza».
"Che i nostri viaggi di esplorazione di noi stessi non abbiano mai fine". (Paul Wuhr). "La mia anima è costretta, il giorno dopo,ad andare più lontano".(Federigo Tozzi). "I confini dell'anima non li trovi, anche a percorrere tutte le strade". (Eraclito). "Bisogna partire all'avventura, come un veliero con tutte le vele al vento".(Sergio Larrain). "Ero in viaggio ancora... e il viaggio era conversazione, era presente, passato, memoria e fantasia".(Elio Vittorini). "Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un'altra riva, e arriverò". (Cesare Pavese). "Un artista, nel suo intimo, è sempre un avventuriero".(Thomas Mann). "Noi invece vogliamo essere i poeti della nostra vita, a cominciare dalle cose più piccole e quotidiane".(Fredrick Nietzsche). Carissimo Aldo, rileggere questa intervista è stato per me, come il più delle volte accade, scoprire altri nuovi particolari molto interessanti e stimolanti, cosa che mi ha consentito di riflettere a lungo, ma molto piacevolmente, durante quelle ore che generalmente trascorro da sola in casa, "in compagnia di me stessa"... Grazie e buona giornata.
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