"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 2 febbraio 2021

Quellichelasinistra. 21 Marco Revelli: «Renzi è un corsaro senza coscienza pubblica».

Ha scritto Michele Serra oggi, martedì 2 di febbraio 2021, in “Zingaretti e i radical chic” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”: (…). …una cosa un tempo considerata iper-popolare come la democrazia, secondo gli assalitori di Capitol Hill, è un inganno dell’establishment. È radical chic. Inventato mezzo secolo fa in un contesto molto specifico (…) dallo scrittore dandy Tom Wolfe (…), il termine è diventato poi uno dei più abusati luoghi comuni, la classica arma spuntata, un blabla in mezzo a tanti. Non per caso lo usano a raffica i leghisti, che adoperano uno dei linguaggi politici più poveri dai tempi di Odoacre. È un poco come quando la sinistra, nei tempi ormai molto remoti della sua egemonia culturale, amava dare del “qualunquista” o del “fascista” a chiunque non appartenesse al proprio giro. Nel momento in cui anche il capo della sinistra italiana bolla di radical chic una giornalista anch’essa di sinistra (Nicola Zingaretti vs Concita De Gregorio, già direttrice del quotidiano “L’Unità” n.d.r.), viene dunque da chiedersi: ma dove sono finite le parole “di sinistra”? La celebre invocazione di Nanni Moretti (D’Alema, di’ qualcosa di sinistra!) è del 1998. Sono passati più di vent’anni: è una generazione. Molte delle parole vecchie, si sa, sono state ingoiate dalla storia, che le ha ruminate fino a farle sparire. Padroni e proletariato, per esempio, hanno un suono otto-novecentesco che le rende quasi impronunciabili, e anche se il loro oggetto (il dominio del capitale sulle persone) è palesemente ancora in essere, non le si usa più per le stesse ragioni per le quali non si portano più le ghette, o non si arano più i campi con i buoi. Il tempo passa e ci rimette in riga, come è normale che sia. Sono le parole nuove che evidentemente difettano, a sinistra, tanto che il linguaggio della destra ha un visibile, anzi udibile sopravvento nel discorso pubblico. La sconfitta culturale della sinistra è perfettamente leggibile in questa lenta, inesorabile sottomissione, che (…) riguarda il grande corpo della sinistra nel suo complesso, compresi giornali e giornalisti. E dire che di lavoro da fare ce ne sarebbe molto, anche se risalendo la corrente come i salmoni. Cominciando con una generale restituzione di senso alle parole, a ciascuna parola: operazione che, mi rendo conto, renderebbe quasi impossibile il lavoro dei vari staff social, nonché dei digitatori in proprio, perché la velocità compulsiva è nemica delle parole. (…). Eppure si può fare. Coraggio, si può fare. Per finire con una nota di ottimismo, un solo esempio: quando il Pd oppone allo slogan “dalla parte degli italiani” lo slogan “dalla parte delle persone”, fa e dice una cosa di sinistra. Basta una parola per cambiare significato a una intera politica. E non è che non lo si nota: lo si nota. Non è che non lo si capisce: lo si capisce. E ci si sente meglio rappresentati. Ci si sente un poco meno soli, che in questo momento è davvero una cosa di sinistra. In e da questo vuoto creato dalla sinistra, vuoto che non è solamente lessicale ma investe ed impoverisce il vivere di tantissime moltitudini, alle quali moltitudini questa “sinistra” si presenta il più delle volte come indifferente se non ostile, ecco la “rabbia” dell’oggi che ha trovato, quale sua sponda ideale, i protagonisti dei fatti del “6 di gennaio” nell’America di Trump. Di seguito l’intervista “L’Italia e l’ira funesta: sindrome Sudamerica, fuggiamo dal futuro?” di Antonello Caporale a Marco Revelli – figlio del mitico Nuto Revelli comandante partigiano - pubblicata su “il Fatto Quotidiano” di ieri lunedì primo di febbraio: “Questa disconnessione totale della politica con la realtà sta spalancando le porte dell’Italia a una prova di massa dell’anomia, cioè a forme di disordine diffuso, a uno sviluppo molecolare del ribellismo, alla convinzione di dover fare sempre più a meno della legge e di un governo. Temo che nel prossimo futuro saremo preda della sindrome sudamericana del periodo pre-peronista”.

Fuggire dal futuro. La diagnosi di Marco Revelli sull’Italia che verrà è infausta. “Cos’è questo Parlamento se non il risultato di una disistima totale dell’elettorato verso coloro che avevano governato il Paese nei decenni precedenti? Tanto grande la disistima e la sfiducia da far prevalere il partito di un comico su tutti gli altri, ritenendo che il comico potesse essere più capace o almeno più onesto di tutti gli altri. Cos’altro doveva accadere per allarmare tutti e convincerli a mutare abitudini, riti, esibizioni di potere sciagurato? E invece siamo qua a commentare le iniziative di un uomo politico corsaro, della sua attività demolitrice, della totale assenza di senso della misura”.

Matteo Renzi è l’unico responsabile della sciagura? “Renzi è un corsaro senza coscienza pubblica. Ma il problema gravissimo è che le istituzioni non hanno mostrato, in questa dissennata vicenda, di avere gli anticorpi per tenerlo a bada. La prova che l’Italia l’è malata”.

Lei cosa avrebbe sperato? “Avrei sperato che gli altri partiti, persino quelli di opposizione, avessero neutralizzato l’attività corsara di Renzi e attivato una clausola di salvaguardia collettiva. Poi alle elezioni avrebbero regolato i conti”.

La politica di Renzi è anzi spesso commentata con favore e rispetto. “Leggo commenti che rilevano fondamenti di serietà in un’azione incomprensibile, di elementi di razionalità in una spericolata operazione di puro potere. Dietro questi commenti scorgo anzitutto l’ombra di potentati, come Confindustria, che non si danno pace, che vogliono a tutti i costi riguadagnare condizioni di supremazia e dettare l’agenda al governo”.

È necessario però riflettere anche sulle responsabilità di Giuseppe Conte. Dove ha sbagliato, perché ha sbagliato e quando ha sbagliato. “Ha coltivato l’idea che la sua solitudine, l’essere cioè estraneo ai riti e alle piccole e grandi chiese dell’apparato politico, lo tenesse fuori dalle rogne. E poi si è sopravvalutato troppo, ecco”.

L’ha fregato il personalismo, l’idea – figlia di un posizionamento sempre mediano – di poter fare tutto e anche un po’ di più? “L’ha fregato anzitutto, se possiamo dire così, l’essere giurista. Avesse avuto nozioni di sociologia dell’organizzazione avrebbe compreso che le decisioni, anche le più giuste e opportune, se non correttamente veicolate nella catena di comando non producono nulla”.

Se le Asl regionali invece che vaccinare i medici elargiscono le dosi agli amici degli amici… “Tu hai un piano, ma quel piano poi non lo gestisci. Ne paghi dazio senza averne apparente colpa. Però al fondo la tua responsabilità è chiara. Come con la cassa integrazione: stanziare i soldi ma non controllare che arrivino speditamente nelle tasche di chi ha bisogno è errore esiziale”.

E adesso? “Temo che rimpiangeremo il tempo del turpiloquio di Beppe Grillo, la sua capacità di contenere la rabbia sociale dentro i limiti della rappresentanza istituzionale. Perché a me un dato sembra chiaro: gli italiani proveranno ancora maggior sete di rivalsa, e utilizzeranno altre strade per confermare la propria disistima, se non avversione a questa classe dirigente”.

Paventa anni di piombo? “No, quelli erano figli di una stagione iperpoliticizzata. Qui all’opposto ciascuno si sente solo e cercherà prove isolate di contestazione. Un magma sociale disperato, che la pandemia convince alla rabbia dei mille movimenti di forconi improvvisati, all’età del disordine capillare”.

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