Ha scritto Michele Serra oggi, martedì 2 di
febbraio 2021, in
“Zingaretti e i
radical chic” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”:
(…).
…una cosa un tempo considerata iper-popolare come la democrazia, secondo gli
assalitori di Capitol Hill, è un inganno dell’establishment. È radical chic. Inventato
mezzo secolo fa in un contesto molto specifico (…) dallo scrittore dandy Tom
Wolfe (…), il termine è diventato poi uno dei più abusati luoghi comuni, la
classica arma spuntata, un blabla in mezzo a tanti. Non per caso lo usano a
raffica i leghisti, che adoperano uno dei linguaggi politici più poveri dai
tempi di Odoacre. È un poco come quando la sinistra, nei tempi ormai molto
remoti della sua egemonia culturale, amava dare del “qualunquista” o del
“fascista” a chiunque non appartenesse al proprio giro. Nel momento in cui
anche il capo della sinistra italiana bolla di radical chic una giornalista anch’essa
di sinistra (Nicola Zingaretti vs Concita De Gregorio, già direttrice
del quotidiano “L’Unità” n.d.r.)
, viene dunque da chiedersi: ma dove sono
finite le parole “di sinistra”? La celebre invocazione di Nanni Moretti
(D’Alema, di’ qualcosa di sinistra!) è del 1998. Sono passati più di vent’anni:
è una generazione. Molte delle parole vecchie, si sa, sono state ingoiate dalla
storia, che le ha ruminate fino a farle sparire. Padroni e proletariato, per
esempio, hanno un suono otto-novecentesco che le rende quasi impronunciabili, e
anche se il loro oggetto (il dominio del capitale sulle persone) è palesemente
ancora in essere, non le si usa più per le stesse ragioni per le quali non si
portano più le ghette, o non si arano più i campi con i buoi. Il tempo passa e
ci rimette in riga, come è normale che sia. Sono le parole nuove che
evidentemente difettano, a sinistra, tanto che il linguaggio della destra ha un
visibile, anzi udibile sopravvento nel discorso pubblico. La sconfitta
culturale della sinistra è perfettamente leggibile in questa lenta, inesorabile
sottomissione, che (…) riguarda il grande corpo della sinistra nel suo
complesso, compresi giornali e giornalisti. E dire che di lavoro da fare ce ne
sarebbe molto, anche se risalendo la corrente come i salmoni. Cominciando con
una generale restituzione di senso alle parole, a ciascuna parola: operazione
che, mi rendo conto, renderebbe quasi impossibile il lavoro dei vari staff
social, nonché dei digitatori in proprio, perché la velocità compulsiva è nemica
delle parole. (…). Eppure si può fare. Coraggio, si può fare. Per finire con
una nota di ottimismo, un solo esempio: quando il Pd oppone allo slogan “dalla
parte degli italiani” lo slogan “dalla parte delle persone”, fa e dice una cosa
di sinistra. Basta una parola per cambiare significato a una intera politica. E
non è che non lo si nota: lo si nota. Non è che non lo si capisce: lo si
capisce. E ci si sente meglio rappresentati. Ci si sente un poco meno soli, che
in questo momento è davvero una cosa di sinistra. In e da questo vuoto
creato dalla sinistra, vuoto che non è solamente lessicale ma investe ed
impoverisce il vivere di tantissime moltitudini, alle quali moltitudini questa
“sinistra” si presenta il più delle volte come indifferente se non ostile, ecco
la “rabbia” dell’oggi che ha trovato, quale sua sponda ideale, i protagonisti
dei fatti del “6 di gennaio” nell’America di Trump. Di seguito l’intervista
“L’Italia e l’ira funesta: sindrome
Sudamerica, fuggiamo dal futuro?” di Antonello Caporale a Marco Revelli –
figlio del mitico Nuto Revelli comandante partigiano - pubblicata su “il Fatto
Quotidiano” di ieri lunedì primo di febbraio:
“Questa disconnessione totale
della politica con la realtà sta spalancando le porte dell’Italia a una prova
di massa dell’anomia, cioè a forme di disordine diffuso, a uno sviluppo
molecolare del ribellismo, alla convinzione di dover fare sempre più a meno
della legge e di un governo. Temo che nel prossimo futuro saremo preda della
sindrome sudamericana del periodo pre-peronista”.
Fuggire dal futuro. La diagnosi di Marco
Revelli sull’Italia che verrà è infausta. “Cos’è questo Parlamento se non il
risultato di una disistima totale dell’elettorato verso coloro che avevano
governato il Paese nei decenni precedenti? Tanto grande la disistima e la
sfiducia da far prevalere il partito di un comico su tutti gli altri, ritenendo
che il comico potesse essere più capace o almeno più onesto di tutti gli altri.
Cos’altro doveva accadere per allarmare tutti e convincerli a mutare abitudini,
riti, esibizioni di potere sciagurato? E invece siamo qua a commentare le
iniziative di un uomo politico corsaro, della sua attività demolitrice, della
totale assenza di senso della misura”.
Matteo Renzi è l’unico responsabile della
sciagura? “Renzi è un corsaro senza coscienza pubblica. Ma il problema
gravissimo è che le istituzioni non hanno mostrato, in questa dissennata
vicenda, di avere gli anticorpi per tenerlo a bada. La prova che l’Italia l’è
malata”.
Lei cosa avrebbe sperato? “Avrei sperato che
gli altri partiti, persino quelli di opposizione, avessero neutralizzato
l’attività corsara di Renzi e attivato una clausola di salvaguardia collettiva.
Poi alle elezioni avrebbero regolato i conti”.
La politica di Renzi è anzi spesso
commentata con favore e rispetto. “Leggo commenti che rilevano fondamenti di
serietà in un’azione incomprensibile, di elementi di razionalità in una
spericolata operazione di puro potere. Dietro questi commenti scorgo anzitutto
l’ombra di potentati, come Confindustria, che non si danno pace, che vogliono a
tutti i costi riguadagnare condizioni di supremazia e dettare l’agenda al
governo”.
È necessario però riflettere anche sulle
responsabilità di Giuseppe Conte. Dove ha sbagliato, perché ha sbagliato e
quando ha sbagliato. “Ha coltivato l’idea che la sua solitudine, l’essere cioè
estraneo ai riti e alle piccole e grandi chiese dell’apparato politico, lo
tenesse fuori dalle rogne. E poi si è sopravvalutato troppo, ecco”.
L’ha fregato il personalismo, l’idea –
figlia di un posizionamento sempre mediano – di poter fare tutto e anche un po’
di più? “L’ha fregato anzitutto, se possiamo dire così, l’essere giurista.
Avesse avuto nozioni di sociologia dell’organizzazione avrebbe compreso che le
decisioni, anche le più giuste e opportune, se non correttamente veicolate
nella catena di comando non producono nulla”.
Se le Asl regionali invece che vaccinare i
medici elargiscono le dosi agli amici degli amici… “Tu hai un piano, ma quel
piano poi non lo gestisci. Ne paghi dazio senza averne apparente colpa. Però al
fondo la tua responsabilità è chiara. Come con la cassa integrazione: stanziare
i soldi ma non controllare che arrivino speditamente nelle tasche di chi ha
bisogno è errore esiziale”.
E adesso? “Temo che rimpiangeremo il tempo
del turpiloquio di Beppe Grillo, la sua capacità di contenere la rabbia sociale
dentro i limiti della rappresentanza istituzionale. Perché a me un dato sembra
chiaro: gli italiani proveranno ancora maggior sete di rivalsa, e utilizzeranno
altre strade per confermare la propria disistima, se non avversione a questa
classe dirigente”.
Paventa anni di piombo? “No, quelli erano
figli di una stagione iperpoliticizzata. Qui all’opposto ciascuno si sente solo
e cercherà prove isolate di contestazione. Un magma sociale disperato, che la
pandemia convince alla rabbia dei mille movimenti di forconi improvvisati,
all’età del disordine capillare”.
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