Ha scritto Massimo Fini su “il Fatto Quotidiano” di
ieri sabato 27 di febbraio 2021 in “Sputi
e corruzione: beata democrazia”: (…). Le Democrazie sono, storicamente e
statisticamente, i sistemi politici più corrotti del mondo, più delle
dittature, delle autocrazie, delle teocrazie. E si comprende facilmente il
perché: le varie fazioni politiche, in perenne conflitto fra di loro per
procacciarsi il consenso, ricorrono molto spesso, per non dire quasi sempre, ad
atti illeciti. Quella italiana, almeno in Europa, è la più corrotta di tutte,
più che in Germania, più che in Spagna, più dei pur corrottissimi cugini
francesi. Pervertiti sono i suoi meccanismi istituzionali a uso e consumo delle
varie autocrazie, economiche e politiche. Corrotti sono i partiti, poco più che
delle associazioni mafiose che proteggono, a scapito di pochi cittadini liberi,
gli amici e gli “amici degli amici”. Corrotto in larga misura è il Parlamento
dove siedono centinaia di inquisiti e anche condannati per reati di diritto
comune e personaggi di un tale squallore che ci si chiede perché mai siano lì a
rappresentare la più prestigiosa Istituzione della Repubblica. Scrive Alexis de
Tocqueville in La democrazia in America: “Al mio arrivo negli Stati Uniti fui
molto sorpreso scoprendo fino a qual punto il merito fosse comune fra i
governati e come fosse scarso nei governanti” e aggiunge “Nella democrazia i
semplici cittadini vedono un uomo uscire dalle loro file e giungere in pochi
anni alla ricchezza e alla potenza: questo spettacolo suscita la loro sorpresa
e la loro invidia. Essi ricercano in che modo colui che ieri era un loro eguale
sia oggi rivestito del diritto di dirigerli”. Corrotta è la Pubblica
Amministrazione infiltrata arbitrariamente dai partiti. Corrotta è una parte
della Magistratura, soprattutto nei suoi gradi più alti. Corrotto è il mondo
universitario dove, solitamente, si entra e si avanza non per merito ma per uno
scambio di favori e c’è voluto un docente di origine inglese, Philip Laroma
Jezzi, per smascherare un sistema che tutti conoscevano. La mafia, per
parafrasare al contrario Bertoldo, sono quattro: la mafia propriamente detta,
la ‘ndrangheta, la camorra, la Sacra corona unita, cui si aggiunge quel “mondo
di mezzo” per il quale è stata accolta con gran giubilo una sentenza della
Magistratura che non lo giudicava propriamente mafioso mentre si tratta di un
fenomeno ancora più grave perché le mafie ufficiali sono malavita organizzata
gerarchicamente e quindi, in teoria, individuabile, il “mondo di mezzo” no,
perché può essere dappertutto. Scriveva Ignazio Silone in Vino e Pane: “Per
vivere un po’ bene, bisogna vendere l’anima. Non c’è altra via”. Si riferiva al
periodo fascista, ma questo vale anche, e forse ancora di più, nella democrazia
italiana degli ultimi decenni. (…). Tratto da “Draghi, restaurazione sulle macerie dei partiti” di Gad Lerner,
pubblicato sempre su “il Fatto Quotidiano” di ieri: Non dubito della buona fede con cui
il presidente Mattarella ha compiuto la scelta d'imperio del governo Draghi
("democrazia dall'alto", l'ha chiamata Gustavo Zagrebelsky),
considerandolo un male minore rispetto a elezioni anticipate da svolgersi in piena
emergenza. (…). Mi chiedo però se Mattarella abbia valutato, soppesando i pro e
i contro della soluzione Draghi, anche l'effetto nefasto prodotto fra i
cittadini comuni dai clamorosi voltafaccia in cui si sono esibiti troppi protagonisti
della nostra politica. Lo si presenta come senso di responsabilità, addirittura
felice resipiscenza, ma appare fin troppo evidente che si tratta di faccia tosta.
Nessuno crede all'europeismo di facciata di un Salvini così come all'improvvisa
folgorazione moderata, liberale e atlantista di un Di Maio. Quanto al Pd, l'unica
cosa che si capisce è la sua impossibilità a concepirsi altro che partito ministeriale.
Al pari delle forze minori di centro, Berlusconi in testa, fortunosamente rientrate
nel gioco. I partiti ne sono usciti a pezzi, chi più e chi meno afflitti da ulteriori
lacerazioni. Sottovalutare gli effetti futuri di questa dissoluzione, ben visibile
nei rancori che si manifestano all'interno dei loro gruppi dirigenti, a me sembra
pericoloso. Si potrebbe obiettare che il trasformismo è da sempre una caratteristica
della politica italiana. E che anche di recente abbiamo assistito a trasformazioni
virtuose di personalità, come Giuseppe Conte, rivelatosi capace di assumere una
fisionomia diversa da quella meramente subalterna assegnatagli nel 2018 da M5S
e Lega. Ma resta il fatto che l'incoerenza al potere è diventata la cifra prevalente
della nostra democrazia malata, acuita al massimo grado nel governo
dell'emergenza. Davvero improponibile è il paragone con i governi di unità nazionale
del dopoguerra, nei quali coabitavano partiti politici protesi alla
ricostruzione del Paese dopo aver combattuto insieme, nel Cln, il regime
fascista: un profilo comune, sociale e culturale, pur nelle grandi diversità
che presto si manifesteranno, oggi del tutto assente. Non a caso nella storia
d'Italia, i governi di unità nazionale hanno sempre avuto vita breve (a
differenza della “grosse koalition” tedesca) e sono stati caratterizzati da
scarsa capacità riformatrice, in quanto paralizzati dai veti reciproci. Perfino
la scelta dei sottosegretari, che ha messo in imbarazzo anche i più devoti
cultori dei superpoteri di Draghi, lascia intendere che questo governo non farà
eccezione. Sicché riesce davvero temerario illudersi che il banchiere
trasformatosi in politico possa diventare il riordinatore di un sistema fondato
sull'alternanza democratica fra una destra e una sinistra di matrice
europeista. Gli stessi moti di esultanza che hanno accompagnato la nascita di
questo governo segnala-no che non si tratta, di un'innovazione bensì di una restaurazione.
Esso non prefigura, cioè, la formazione di una nuova classe dirigente
democratica, bensì il ritrovato protagonismo di funzionari e notabili che nel
passato recente pretesero e ottennero, solo per fare un esempio, l'inserimento
dell'obbligo di pareggio di bilancio nella nostra Costituzione. Sia detto per
inciso: il relatore di quella riforma votata a larga maggioranza nel 2012 si chiamava
Giancarlo Giorgetti, che poi non ebbe niente da ridire quando la Lega due anni
dopo si scatenò in una campagna elettorale al grido "Basta euro”. Analoghe
contraddizioni hanno costellato il passaggio del M5S dal fautore della Brexit,
Nigel Farage, al voto per Ursula von der Leyen; e da Salvini a Zingaretti. Il rifiuto
di riconoscere validità alla distinzione fra destra e sinistra è la causa
principale della sua deflagrazione. Resta il fatto, però, che pur con tutte le
accuse di dilettantismo che il governo Conte bis si è tirato addosso, i suoi ministri
hanno svolto un ruolo determinante nella svolta impressa all'Unione europea nel
luglio del 2020. Un merito che in futuro nessuno potrà togliergli.
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