Sta scritto all’articolo 49 della “Costituzione” d’Italia: «Tutti i cittadini hanno
diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale». Ha scritto Michele Serra in “Il grande tessitore” pubblicato ieri,
venerdì 5 di febbraio 2021, sul quotidiano “la Repubblica”: "Le
vicende di questi giorni dimostrano che la politica non si fa con gli aut aut,
ma con una paziente opera di tessitura e dialogo". La frase è di Matteo
Renzi, (…). In bocca al leader politico meno disposto, dopo Attila, alla
tessitura e al dialogo (o si fa come dice lui, o non se ne fa nulla), suona
fantastica. Quasi spiritosa. Poiché Renzi ha la parola veloce, si potrebbe
pensare a una frase riuscita male. Oppure tocca prendere atto di una lettura
della crisi (la "sua" crisi) più astuta e più occulta di quella che i
comuni mortali hanno potuto intendere: lui si considera il vero artefice
dell'avvento di Draghi (ecco la tessitura) e presume di essere il suo
interlocutore politico più ascoltato (ecco il dialogo). Forse la politica non
ha tempo per le questioni di stile. Ma un poco dispiace che nel sostanziale
commissariamento dei partiti che il Quirinale – (…) - ha messo in atto incaricando
Mario Draghi, non tutti si sentano ugualmente dietro la lavagna. Il Pd paga il
prezzo del suo governismo a oltranza, dunque della sua lealtà a Conte; i
Cinquestelle del loro Dna tanto confuso da essere oramai illeggibile,
Masaniello in grisaglia non è un compromesso, è uno scherzo di natura; il
centrodestra sconta la sua goffa simulazione di unità, una modesta furbata per
fingersi in grado di governare da solo. Nella classe deserta, solo un alunno
rimane tranquillamente seduto al suo banco, spiegando a tutti gli altri dove
hanno sbagliato. No, Matteo Renzi non è simpatico, e se in politica non è un
demerito, è il momento giusto per dire che non è nemmeno un merito. Tratto
da “L’uomo debole solo al comando” di
Michela Murgia – scrittrice – pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 31 di
gennaio 2021: (…). Come Roncalli, anche Conte è stato scelto per far da segnaposto in
attesa di maggioranze più nette. All’atto della nomina ha pronunciato
un’accattivante frase confidenziale, inviando a casa non una carezza ai bambini,
ma la suggestione di avere nei palazzi del potere un avvocato del popolo. Lo
scolorito burocrate che doveva sparire presto ha ribaltato il tavolo in pochi
mesi. Prima ha capitalizzato le incaute dimissioni di Salvini, il più
tracotante alleato politico, riuscendo nella rara torsione felina di tornare
premier con una maggioranza di segno opposto. Da lì ha trasformato il Pd di
Nicola Zingaretti in un complice prono a ogni compromesso e ha divorato
internamente il consenso di Luigi di Maio, l’enfant senza prodige del M5S, che
ha visto la parabola di Conte salire in direzione talmente opposta alla sua da
fargli perdere la leadership del partito. Eppure faremmo fatica a citare una
sola sua idea, un posizionamento o una semplice affermazione che ci restituisca
qualcosa di simile al pensiero politico di Giuseppe Conte. Se esiste, non gli
serve dircelo, anzi è controproducente. Dopo anni di orizzonti in scontro,
essere governati da qualcuno che non dice mai che mondo vuole deve essere
sembrato a molti un sogno finalmente non divisivo, una tregua civica in cui
nessuno doveva più difendere una posizione. Nella pax contiana si è potuti
restare abbastanza di destra da non toccare la sostanza infame dei decreti
sicurezza, ma sentendosi abbastanza di sinistra da minacciare il
commissariamento a una regione che si rifiutava di adottare la doppia
preferenza di genere nella sua legge elettorale. Abbastanza di destra da
proporre un’indiscriminata e iniqua flat tax, ma abbastanza di sinistra da
andare a sedersi per terra all’inaugurazione della stagione del Cinema America,
col maglioncino di cashmere sulle spalle e i selfie con i giovani reduci di
un’occupazione urbana. Conte è l’istituzionalizzazione dell’idea non che uno
valga uno, ma che tutto vale quanto il suo contrario. Non è strano che goda di
un gradimento trasversale: è il chiodo di Pascal disegnato sul muro che offre a
ciascuno l’illusione di poterci appendere il cappello, almeno finché non ci
prova. L’uomo a caso in una situazione straordinaria cosa può fare in più o in
meno dell’uomo giusto? Roncalli, con quel guizzo profetico che è il canto
finale di certe preziose vecchiaie, seppe riconoscere la straordinarietà nei
tempi che stava vivendo e la interpretò aprendo il Concilio. Forse era un uomo
a caso, ma per caso era anche l’uomo giusto. Conte si è trovato lì nel momento
in cui la storia prendeva forma di pandemia e trasformava il paese in un
bambino fragile a cui l’avvocato in Europa serviva davvero. Non è la santità
che li accomuna, tantomeno lo spessore. È la natura monarchica del possesso di
quei pieni poteri che mai avremmo lasciato in mano a Salvini, che con un NO
secco abbiamo negato alla riforma accentratrice di Renzi e che invece per quasi
un anno Conte ha esercitato quasi papalmente senza che nessuno sentisse di
vivere in un sistema messo a rischio. L’avvocato del popolo, in due giri di
governo, ci ha mostrato che siamo una democrazia con gli anticorpi per
affrontare l’uomo forte, ma non sappiamo come reagire se al comando ci va
l’uomo debole, tantomeno se poi non lo è. Chiunque guiderà il nuovo governo,
questo faremmo bene a ricordarlo.
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