A lato. “Spagnola” (5 di dicembre dell’anno 1919). Immagini dalla “pandemia” ri-trovate ed elaborate da Nicola Bertasi.
Tratto da “Dalla spagnola al covid, i nostri fantasmi rimossi. E i volti della pietà” di Giuseppe Genna, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 31 di gennaio 2021:
Il
sentimento che l’uomo sopporta con maggior fatica è la pietà, soprattutto
quando la merita. L’odio è un tonico, che permette di vivere, ispirando
vendetta ed energia. L’ironia funziona perfettamente come esorcismo. La pietà
invece uccide, indebolisce ancor di più la nostra debolezza. È forse per questo
che non penetrano profondamente la pietà le immagini elette a simbolo del
passaggio storico che viviamo, l’era del Covid (qualche anno varrà un’intera
epoca). Da decenni la civiltà del benessere altro non faceva che eleggere
immagini, una forma di cronaca che presumeva di sostituire la storia. Le
immagini delle tragedie erano andate sostituendosi alle usuali forme di monito
e di celebrazione. L’immagine più scoscesa e metafisica di quell’era
spettacolare, forse, era la sagoma dell’uomo che cade dalle Torri Gemelle a New
York: un umano irriconoscibile nei tratti, piccino, isolato, non ancora morto,
impiegatizio e americano. Una tragedia silente e trascurabile, perché non
intrisa di pietà. Un’anestesia di massa: noi di fronte all’uomo occidentale,
che perisce in tempo reale in un atto di guerra, non riconosciuto del tutto
come tale. Nessun sentimento, nessuna compromissione tra lo spettatore e la
viscosa materia storica che si esprimeva con una fotografia. Era una verità
dura, implicita nell’ordine che si viveva dal dopoguerra in poi: il fatto di
essere separati dall’immagine, così come si era sempre separati dalla storia.
Il Muro di Berlino lo abbattevano altri, era uno spettacolo. Davanti al
carrarmato in piazza Tienanmen ci stava un altro. Il Papa si afflosciava ferito
in piazza San Pietro, lo scrutavamo come si assiste a un film. Alfredino
scompariva alla nostra vista, all’imbocco di quel pozzo artesiano eravamo tutti
spettatori. Il cadavere di Aldo Moro si trovava al centro dell’osceno teatro
umano precipitatosi in via Caetani e noi quello guardavamo: un teatro nel
teatro. Con il Covid, invece, le immagini sembrano collassare o perlomeno
perdere di colpo la capacità di riassumere lo spettacolo, a cui si pensava che
si fosse ridotta la storia. Questo fatto, il virus, non è semplicemente
spettacolare, perché è pienamente storico, lo stiamo vivendo tutti e nello
stesso momento. Più si vive la storia e meno lo spettacolo funziona come
surrogato: non c’è bisogno di alcun surrogato. Un fatto che dura mesi, forse
anni, non è uno spettacolo. Non si riesce a riassumerlo attraverso flash e
polaroid. Un dolore così a lungo negato, così malamente sopportato, che
coinvolge la totalità dell’esistente, può forse confermare le profezie di una
scrittura sacra o innescare la poesia, ma non arriva a produrre istanti isolati
per uno spettacolo domestico. Nella comune sofferenza, nulla è domestico,
nemmeno le case in cui chiunque si rintana per proteggersi dalla pandemia.
L’arte può incidere ancora e riscattare le immagini cronachistiche, ma si dà
che in questo tempo epidemico nessuno sia in grado di stabilire con certezza
cosa sia l’opera d’arte. Possiamo ancora minimizzare la grande storia, per
esempio irridendo le corna di uno sciamano vichingo dentro il parlamento
statunitense, ma non riusciamo ad abbracciare la totalità muta di quanto
avviene quotidianamente mentre penetriamo l’era del Covid. È come se chiunque
fosse ridotto a fantasma: quali opere d’arte producono i fantasmi? E fantasmi
si sovrappongono a fantasmi. La storia delle immagini confuse della grande
pandemia mondiale di un secolo fa, l’influenza cosiddetta “spagnola”,
giustapposte alle istantanee di oggi. I trapassati si sovrappongono ai presenti
e viceversa. È il regno confuso delle immagini e della storia, che pur sempre
sono corpi fantasmi, scena fantasma. Spettri in mascherina, assiepati in hangar
per l’isolamento, dispersi nella disinfezione delle strade. Tutta una
epidemiologia a un secolo di distanza, praticamente identica nei tratti
essenziali, nei dispositivi di protezione, nelle cautele e nelle prevenzioni.
Universi che si scontrano, per scoprirsi coincidenti. Gli spettri del 1919 e le
larve del 2020. Purché siano viventi, nel momento in cui la fotografia viene
scattata. Ciò che manca, infatti, sono i cadaveri e i morti. Mai come nel corso
di questa pandemia i due corpi si sono disgiunti, il cadavere e il morto. Non
li si sono visti, sono stati censurati. Il cadavere con tutto l’orrore che
comporta e il morto con tutta la storia che si porta via, la pietà e
l’imperativo per noi di provare un sentimento acuto e vero. Non li si vedono in
queste nebule dell’immediato dopoguerra e non li si notano, neppure di scorcio,
nelle immagini registrate di giorno in giorno oggi. La pietà, sostituita dalla
numerologia dei bollettini, è il grande rimosso della nostra epoca. Stracciata
e sostituita dall’indifferenza e dalla normalizzazione della morte e del
pericolo, la pietà non è evocata e non è praticata dal pubblico dominio, che
sembrerebbe accontentarsi per la maggior parte di un’alzata di spalle, a fronte
di cinquecento morti al giorno. «Freddi eunuchi distribuiscono il veleno», come
scriveva il grande poeta russo Osip Mandel’stam. Non avviciniamo le rughe e le
disperazioni di chi ha ceduto alla polmonite bilaterale o di chi sta per farlo,
soffocando per l’eccesso di ossigeno sotto il casco Cpap. Orrore e pietà sono
sentimenti connaturati alla tragedia, che da troppi mesi sembra avere preso le
forme dell’ordinario, una mascherina e via, un caffè d’asporto e chi si è visto
si è visto. Dove sono le immagini che hanno il coraggio e la capacità di
portare con se stesse il carico di dolore reale, di sofferenza viva
nell’inoltrarsi della morte? La pietà è il riscatto della vita, a danno della
morte. Le parole della pietà valgono cento immagini dell’empietà. E in questo
caso, cioè nel caso di noi viventi ora, nemmeno possiamo conferirci il rilievo
morale del dramma, che l’empietà comporta. Siamo piuttosto dominati dal regime dell’impietà.
Né pietosi né spietati, gli abitanti della civiltà benestante si aggirano per
metropoli, indifferenti a tutto, in cerca vana di uno spettacolo ulteriore, su
cui ciarlare infinitamente, nel chiacchiericcio che ha sostituito il discorso
pubblico. Senza pietà, muore tutto - la politica in primis. Nel tempo
dell’impietà si affaccia una nuova specie di politica, cioè l’impolitica.
Impolitica è la gestione dell’esistente, la tecnica amministrazione delle cose,
tanto dei vaccini come delle fake news. Ricchissimi di opinioni e poveri di
pensiero: così appaiono i viventi nelle grandi circonvallazioni della civiltà
urbanizzata, impolitica appunto, che costituisce la scena primaria di ciò che
accade oggi, da Washington a Wuhan, passando per Milano, per Stoccolma, per Tel
Aviv, fino all’immenso mistero africano e indiano, del tutto privo di immagini
pandemiche. È come vivere in un tempo che ha la possibilità di guardare tutto e
non vede niente. Ci vorrebbe un grande moralista, per inchiodarci alle nostre
disperazioni. Per produrre l’immagine che scolpisce, facendo entrare il vuoto
in noi, lo smarrimento, l’abiezione, tutto il fango della vita e le ceneri
bagnate della morte. «Le ossa e la cenere: dove sono quando non sono nella
realtà?», si chiedeva Andrej Tarkovskij in un vecchio film. Il tempo del virus
è saturo di fenomeni universali. Lo spettro dell’estinzione di specie, per
esempio. La solitudine affettiva dei morenti. I fratelli e le sorelle divisi
dal telo in plastica. L’inaccessibilità dei reparti, l’inaccessibilità delle
cure. Chi perde la vita mentre è già prodotto un vaccino che gliela avrebbe
salvata. L’inutilità, la gratuità della morte. L’immane inutilità, la splendida
gratuità della vita. È profilata come in un sogno l’umanità depredata, non piegata,
ma ingigantita dai giorni del virus. I saggi parlano del presente, i folli del
futuro. Le immagini, mute, le parole, mute anch’esse, dicono questo: abbiamo
bisogno dei folli più che mai, di febbri più potenti che quelle sollevate dalla
malattia, di deliri che vedano e profetizzino cosa sta per arrivare. Perché - è
certo - qualcosa sta arrivando.
"Siamo una società che ha dimenticato l'esperienza del piangere, siamo caduti nella globalizzazione dell'indifferenza". (Papà Francesco). "Il peggior peccato contro i nostri simili non è l'odio, ma l'indifferenza:questa è l'essenza della mancanza di umanità".(George Bernard Shaw). "L'indifferenza è l'ottavo vizio capitale".(Don Andrea Gallo). "Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita".(Antonio Gramsci). "L'indifferenza è un crimine".(Jack Kerouac). "Il desiderio è metà della vita, l'indifferenza è metà della morte".(Khalil Gibran). "L'indifferenza è la paralisi dell'anima, è una morte prematura". (Anton Cechov). "La pietà per ogni essere vivente è la prima valida garanzia per il buon comportamento dell'uomo".(Arthur Schopenhauer). "La pietà, mentre addolcisce le sofferenze degli altri, è giovevole ancor più a colui il quale la prova".(Lev Tolstoj). "Nella gioia dell'universo, il canto dell'anima umana è come il tocco del tuo dito sul liuto della pietà, la vibrazione della corda d'oro".(Rabindranath Tagore). Carissimo Aldo, purtroppo, un' umanità priva di pietà, di compassione, di ogni capacità di affrontare e condividere il dolore, un' umanità fredda, che ha sostituito i sentimenti con la totale indifferenza, non promette nulla di buono e non potrà essere artefice di alcuna rinascita e di alcun tipo di progresso! Grazie, per questo post così realistico e che dovrebbe far molto riflettere... E buona continuazione.
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