Tratto da “Il
mio amico e magister Umberto” di Danco Singer, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del 19 di febbraio 2021: (…). Umberto Eco è stato e rimane un
maestro. Per me, per tutti. Un “maestro”, inteso in senso medievale, come il
magister capace di istruire, educare e ispirare. Ogni momento con lui era
l’occasione per guardare alle cose da un punto di vista nuovo, ribaltare i
cliché, esplorare il reale con nuovi interrogativi, un’abitudine sana che aiuta
a non dare mai nulla per scontato. Ricordo quel giorno, era giugno del 2010, in
cui Umberto mi invitò ad andare con lui al convegno dell’Associazione italiana
di semiotica a Carloforte, sull’Isola di San Pietro, un luogo che gli avevo
sempre descritto come fascinoso e selvaggio, dove, in quella occasione di
dibattito internazionale, tenne l’appassionante lezione “Perché l’isola non
viene mai trovata”. E fu proprio a Carloforte, dove ci trattenemmo ben oltre il
convegno con tutti i suoi “allievi” (Omar Calabrese, Paolo Fabbri, Patrizia
Violi, Maria Pozzato, Isabella Pezzini), che derivò poi il suo libro Storia
delle Terre e dei luoghi leggendari. Umberto ha visto sempre in me un’occasione
per coniugare il suo pensiero con le nuove frontiere della tecnologia, per
costruire senso e dare significati alle cose attraverso un’incessante varietà
di forme espressive: dai primi Cdrom, al web, ai festival culturali, e alle
nuove costruzioni tecnologiche. Quando, nel settembre del 1990, gli mostrai il
prototipo di computer multimediale che il laboratorio dell’Olivetti di Pisa
aveva appena realizzato, la sua reazione fu sorprendente. Gli spiegai:
«Umberto, sono nati gli ipertesti, e stanno tutti investendo per costruire
computer sempre più potenti, ma nessuno pensa a cosa metterci dentro». Lui mi
guardò e mi disse: «Facciamo la storia del mondo». Nacque così Encyclomedia, la
prima enciclopedia che avrebbe permesso agli utenti di “navigare”, con pochi
movimenti delle dita, nel tempo e nello spazio. Internet come lo conosciamo
ancora non esisteva e Umberto aveva già capito, prima di tutti, che sarebbe
arrivato il World Wide Web. Anticipare il nuovo era una delle sue migliori
capacità e lo vedevo in tutti i progetti che abbiamo costruito insieme, fino,
ormai quasi anni nove fa, al Festival della comunicazione di Camogli, che
abbiamo abbozzato nelle sue prime linee su un tovagliolo, del Caffè Sforzesco
di via Dante a Milano; un festival che si è trasformato, com’era nei nostri
sogni, in un’occasione di crescita culturale per la nazione intera: perché
chiama intorno a sé i più grandi personaggi della cultura, dell’economia, della
società italiana; perché è l’occasione per condividere direttrici di sviluppo,
fatte di forme tecnologiche avanzate, ma anche di contenuti forti e amore per
il sapere, “filosofia”, appunto. Filosofia per lui non era, infatti, solo una
“questione da filosofi” - come ha dimostrato anche nel manuale Storia della
Filosofia che ha curato con Riccardo Fedriga - filosofia era uno stile di vita,
è «imparare a pensare». «Non
smettete mai di farvi provocare da ciò che vi succede attorno e continuate a
farvi domande».
Non esiste cultura alta e cultura bassa. Coltivate la memoria, la curiosità
intellettuale e il pensiero critico. E fatevi stupire dagli atti di
meraviglia». Questo è l’insegnamento che continuo a portarmi dentro. Non c’era
limite al suo pensiero, non c’era confine disciplinare. Il suo era uno sguardo
sul futuro sempre vivo e attuale, sulle spalle dei giganti, forte di quella
memoria storica che sta alla base di quello che siamo, come uomini e come
umanità. Non per nulla scelse di intitolare Against the loss of memory la sua
lectio del 2013 alle Nazioni Unite. Quella memoria tanto cara a Umberto, che
più che capacità di ricordare è capacità di stabilire relazioni, connessioni
tra fatti, intenzioni, significati, e, sì, anche capacità di dimenticare,
quando occorre. Perché è solo recuperando la nostra memoria storica che
possiamo guardare più forti e più preparati al mondo che verrà. Ed è proprio questo
suo sguardo curioso, critico, carico di memoria storica e aperto al nuovo che
vogliamo perpetuare, come sua più grande eredità, come Historyland, l’ambizioso
progetto che abbiamo in cantiere, che vorrebbe tradurre in realtà quel
“palazzo-storia” che Eco già nel 1997 a Valencia mi descriveva così: «Siamo
stati abituati a concepire la storia come un asse continuo e portante, su cui
ci viene detto tutto, lungo il quale ogni tanto si aprono delle diramazioni,
come dei corridoi verso altre civiltà, sulle quali non sapevamo nulla prima di
averle incontrate e continuiamo a saperne poco anche dopo. E se ci fosse un
modo diverso di rappresentare la storia del mondo? Immaginate un palazzo,
strutturato non per percorsi perpendicolari, ma attraverso un labirinto, dove
le linee maestre talvolta si incrociano, altre volte procedono accostate o si
divaricano».
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