Tratto da “Tutte
le prime volte perdute” di Francesco Piccolo, pubblicato sul settimanale “Robinson”
del quotidiano “la Repubblica” di ieri sabato 20 di febbraio 2021: È un
anno ormai che a scuola si va e non si va, ma soprattutto non si va. È un anno
quindi che manca a una gigantesca quantità di ragazzi la consuetudine, quella
metà di vita quotidiana che è un dovere e uno spazio e un tempo dove accade
quasi tutto. Le scuole non sono soltanto dei contenitori di esseri umani molto
giovani, di quantità di ormoni scattanti, e di compiti, interrogazioni e
spiegazioni. Ma sono dei contenitori di esperienze e di emozioni che
prescindono dal programma scolastico - di cui si occupano ossessivamente i
genitori nella chat di gruppo, fin dalla scuola materna, quando cominciano a
dire sospettosi che hanno la sensazione che la classe stia un po’ indietro con
il programma, e continueranno a scriverlo in modo compulsivo su whatsapp fino
all’ultimo giorno della carriera scolastica dei loro figli. Della vita, invece,
si occupano i figli. La didattica a distanza è svegliarsi a casa, fare lezione
a casa, e non dover tornare a casa perché ci sei già. La scuola è uscire, vestirsi
con quel maglione perché quella della 3C ti ha detto che è di un bel colore,
inzupparsi sotto la pioggia, saltare giù di corsa alla fermata, sentire
chiarissimo l’odore della primavera, oppure correre nel gelo e pensare che il
futuro è tuo. È tornare a casa affamati, farlo insieme a un amico facendo
progetti per la sera, o guardando gli altri che si divertono e tu che torni da
solo. Perché non manca solo la felicità, l’euforia, la sensazione di avercela
fatta a stare nel mondo; ma manca anche la solitudine, pensare che non andrai
mai in un bar a bere la birra con quegli amici o qualsiasi altro essere umano. La irripetibilità dei giorni e degli anni di scuola sta nel fatto che pensi che
il mondo sia quello, che qualsiasi persona non vada più a scuola sia decrepita
e non ha più senso che stia al mondo; sta nel fatto che pensi che sarai per
sempre il più fico, il più sfigato, il più simpatico, il più coglione. Per
sempre. Anche se ti ripetono che i brufoli se ne andranno via prima o poi, sei
convinto di avere il viso rovinato per sempre. Gli anni della scuola son belli
perché fai progetti per dopo, ma in fondo pensi che la vita non avrà un dopo, è
tutta lì, e quell’esame di maturità che farai tra otto anni, sei mesi, cinque
anni, due settimane, in realtà non accadrà, e se accadrà il tempo poi si
fermerà appena sarai seduto davanti alla commissione. Dalle scuole nessuno
pensa mai che un giorno se ne andrà per davvero. E non riesce a immaginarsi al
liceo se è alle medie, e all’università se è al liceo. Sta lì, passa mezza
giornata della sua vita per andare, passarci il tempo, tornare. Ecco cosa
manca. Manca almeno mezza vita, adesso. E molto di più, se si pensa alle
conseguenze che quella mezza giornata avrà sull’altra metà, che quella mezza
vita avrà sull’altra metà. A scuola, o fuori scuola, anche decidendo di non
entrare e di andare al parco, si vive molto tempo, e in questa quantità di vita
accadono molte cose per la prima volta. Carlo Emilio Gadda la chiamava "la
primavoltità", è una categoria che comprende tutta una serie di eventi
irripetibili che anche se si ripeteranno migliaia di volte non saranno più come
quella prima volta, che non andrà mai più via dalla memoria. Se si contano le
primevoltità a scuola, di ognuno, ne verrebbe fuori un elenco così lungo che
sfinirebbe - perché la memoria non è solo uno scrigno prezioso, è anche una
tortura, e ci sono molte cose che dimenticheresti volentieri perché ti fanno
venire la pelle d’oca ancora ora a distanza di decenni, oppure fai uno scatto
improvviso del corpo per scrollarle via, e chi è accanto a te chiede: ma che
succede? Niente, dici. A scuola accadono tante cose che non riguardano la
scuola. La classe, quello dietro di te, quello che arriva in ritardo e ha
sempre una scusa nuova, da applausi, quelli che non entrano oggi perché c’è
sciopero, e quei tre che invece sono entrati (chissà mai perché) e saranno
loro, come accade dalla preistoria ai giorni nostri, a prendersi addosso una
lunga tirata del professore di turno contro la scelta di non venire a scuola,
detta con violenza a chi a scuola ci è venuto. Ma da quando suona la sveglia di
mattina fino a quando si torna a casa urlando: sono io!, c’è tutta quella mezza
vita che comprende anche l’altra metà: il primo bacio fuori scuola, la prima
volta che ti hanno lasciato sulla panchina del cortile, il primo invito a una
festa, il primo bigliettino passato da un banco all’altro, diventare un eroe
per aver risposto male al prof, innamorarsi della lezione di un altro prof,
nascondere qualcosa in bagno, le chiacchiere sugli scalini pensando non voglio
tornare a casa mai più, quei brividi di freddo dell’inizio influenza e qualcuno
che viene a prenderti, dire a un compagno se vuole venire a studiare da te e
lui dice non posso e poi va da un altro, il dolore che non se ne va per un
sacco di tempo e il corpo che impara a sopportarlo, e impara anche a capire che
il dolore passerà, che quando la compagna di banco bellissima ti dice no, poi
passerà, come passa il 3 al compito di matematica e tu prometti che recuperi - e
insomma impari che puoi recuperare, c’è il tempo per recuperare tutto, e non
puoi impararlo al tavolo della cucina di casa su zoom, ma solo andando e
tornando da scuola, andando e tornando, aspettando che cominci e aspettando che
finisca, sentendo chiamare un altro alla lavagna, salvandoti, oppure vedere il
sollievo sul volto degli altri mentre la prof ha chiamato te. I libri
sgualciti, senza copertina, abbandonati sul banco. Convincersi che ci si ama
davvero solo se si viene gettati in un rogo o se perfino la peste si inventano
per non far sposare due innamorati. Tutte le confidenze che ti fanno
all’improvviso i compagni di scuola, alcuni di questi poi in età adulta sono
ancora amici tuoi e ricordate sempre gli stessi aneddoti, quando ti sei alzato
e la prof non poteva crederci, quando hai scritto nella versione di latino che
Cesare andava incontro a delle cicogne che avevano dichiarato guerra, le volte
che ti sei addormentato appoggiato sulle braccia abbandonato sul banco, tutte
le volte che il prof ha detto: e allora cosa stavo dicendo?, e tu non lo stavi
ascoltando, oppure la volta che lo stavi ascoltando e lui è costretto a dirti:
sì, bravo. Ed è solo a scuola che qualcuno può legittimamente chiederti di
spegnere il telefonino o di chiuderlo in un armadietto. E quindi solo a scuola
puoi provare quella mancanza vertiginosa, quella nostalgia seria, che nessuno
potrà mai capire, per il tuo telefonino. Solo in quelle ore capisci che lo ami,
che senza di lui la vita non ha senso. Ed è solo quando suona l’ultima campanella
e corri fuori e lo riprendi e lo riaccendi che capisci cosa significa la
lontananza. Ti perdi molte cose se per un anno non vai a scuola se non qualche
volta — ti perdi perfino la capacità di formare la corazza. Quella corazza
annoiata che si forma pian piano e ti rende anche un po’ stronzo, e ti annoi
alle feste, sei stanco di raccogliere i soldi per l’ennesimo regalo di
compleanno, i ritorni dalle gite imbottigliati nel traffico, nel dormiveglia,
provando a canticchiare canzoni vecchie che altri continuano a urlare a
squarciagola. O la mattina in cui vai a scuola sentendoti il re del mondo
perché il pomeriggio prima hai fatto l’amore per la prima volta, e adesso
mostri un’arroganza che in realtà dentro non hai, perché dentro hai solo un
senso di sollievo, la sensazione di esserti salvato, che anche tu sei nel
mondo, sei come gli altri, non sei un reietto, non devi più vergognarti. In
più, è a scuola, in mezzo agli altri, durante quelle ore infinite, che ci si
sente soli, che ci si sente infelici e si pensa che sarà così per sempre. È a scuola che si va incontro alla primavoltità dei
fallimenti, è lì che ti puoi sentire l’ultimo al mondo, una sensazione da
cui la casa ti protegge, e se invece ti sei sentito, a ragione ma più
probabilmente a torto, l’ultimo al mondo, è in quel momento che hai capito di
più di te stesso, e da quel te stesso non ti allontanerai più. A scuola, e non
a casa, si sentono più nitidi i giorni di infelicità, di tristezza insensata. E
tutto questo groviglio si scioglie in una sensazione più precisa, che si può
sintetizzare in una sola parola: amarezza. E l’amarezza si può sentire in mezzo
agli altri, o tornando a casa a testa bassa dopo essersi allontanati dagli
altri. L’amarezza è la sintesi dei grovigli che quando si è ragazzi, non si
saprà mai perché, sono in maggior numero rispetto alle euforie. A scuola si
sente, e si impara a riconoscere, e a capire, l’amarezza. E senza, come ci si
potrà sedere davanti alla commissione, come si può diventare grandi, come si
può entrare per davvero nel centro del mondo?
Grazie,Aldo,per questo post eccezionale che fa molto riflettere! Anche se è veramente deprimente prendere coscienza delle conseguenze tragiche, determinate dalla pandemia.Alla povertà materiale crescente, purtroppo,si aggiunge la povertà educativa che, rispetto alla prima, non è certamente meno disastrosa e dolorosa...Alle giovani generazioni "mancano esperienze e stimoli sociali fondamentali:svegliarsi la mattina, prepararsi, incontrare gli insegnanti e i coetanei. L'identità dei ragazzi è legata ai riti della vita quotidiana e ai suoi ambienti, per cui, venendo meno questi elementi, i rischi sono il disorientamento e l'insicurezza. La mancanza del confronto con i coetanei e delle attività scolastiche hanno creato una vera e propria sindrome da deprivazione sociale".(Massimo Ammaniti). "Pensiamo che i bambini e gli adolescenti si possano congelare. Hanno perso i riti di passaggio fondamentali, pagine che rimarranno bianche".(Stefano Morena). Grazie ancora e buona continuazione.
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