"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 12 giugno 2025

Lavitadeglialtri. 96 Goliarda Sapienza: «Si muore per lasciare il meglio di sé a quelli che ti hanno saputo leggere».


Donne&Arte”. 1“A Ladispoli da Laura”: (…): «È morta Laura Antonelli, vai tu?», L'estate era iniziata da un solo giorno, nel cielo splendeva il sole e a Roma faceva già molto caldo. La salita del lunedì, già irta di per sé, si era trasformata improvvisamente in pianura. Indifferente ai colpi di clacson, agli isterismi metropolitani e alle colonie di zanzare dai molti nomi che da sempre trovano confortevole la mia città, avevo accostato l'auto, messo le quattro frecce e inseguito qualche ricordo della mia infanzia. In quella stasi' irreale mi erano tornati alla mente Turi Ferro e Jean-Paul Belmondo, l'allegra frenesia di Salvatore Samperi, i tempi felici e quelli agri, la luce e il buio, i premi e l'oblio, la bellezza e il suo tramonto, i titoli di giornale e il silenzio. La solitudine di Laura, portata via in manette dalla sua casa di Cerveteri, località Valle della Mola, in una notte d'aprile del 1991 e tradotta a Rebibbia, forse inconsapevole che il peggio sarebbe dovuto arrivare, la ricordavo bene. Nelle Olimpiadi dei guardoni specializzati nell'incollare l'occhio al buco della serratura e a propagare scampoli di verità spesso indistinguibili dalla menzogna, la parola cocaina era risuonata ovunque. All'epoca in cui era nelle grazie dei registi e i produttori tendevano a offrirle sempre i soliti ruoli, Laura si era azzardata a esprimere un desiderio: «Mi piacerebbe una parte in cui tirare fuori un po' di cattiveria, aggressività e perfidia». Nessuno gliela offrì, ma con lei in compenso furono spietati. Tranne rare eccezioni, chi l'aveva conosciuta ne parlava con sussiego e toni funerari. Miserabile paternalismo e malcelata soddisfazione: ben le sta, così finisce, sembravano dire, chi fa di tutto per cercarsela. Laura che si era persa. Laura che aveva ceduto ai demoni del vizio. Laura che aveva abbracciato Dio. Laura che era stata bella e per non dimenticarlo aveva finito per deturparsi. L'Aurelia era quasi deserta: cemento e ginestre a due passi dal mare. In poco più di un'ora arrivai a Ladispoli. La strada in cui abitava l'attrice che aveva fatto sragionare un Paese, Via Napoli, portava il nome della città in cui i suoi, di origini istriane, dopo una serie di peregrinazioni tra Brescia e Venezia, erano capitati quasi per caso alla fine degli anni 40 vivendo accampati nella reggia di Capodimonte, da esuli in una tendopoli, tra miseria e nobiltà. In Via Napoli c'erano i fotografi e le televisioni. La gente affacciata alle finestre. A bordo strada il dispiacere disegnato sui volti di chi l'aveva conosciuta e qualche vicino di casa che offriva ai cronisti più insistenti i pochi particolari in cronaca. Le serrande sempre abbassate. Gli ultimi giorni in cui l'avevano vista di rado. L'esterno dell'appartamento nel quale, senza televisione, Antonelli aveva disperatamente cercato di far dimenticare sé stessa e la propria immagine concedendo a un giornale locale, L'ortica, l'unica intervista che tanti in precedenza avevano invano provato a fare. Due ore di colloquio per dire «ho sbagliato» e urlare sottovoce: «Non sono pazza». Dal giorno del funerale di Laura Antonelli sono trascorsi dieci anni. Sopra la sua lapide, nel cimitero di Ladispoli, c'è il numero cento. Sotto, nel bianco, qualche fiore colorato, un paio di biglietti e una foto in cornice. La brezza scuote gli alberi. Qualche uccello lancia versi nel nulla. È un luogo di pace in cui finalmente non sei ciò che hai, ma torni a somigliare all'idea che c'è negli occhi di chi viene a trovarti.

Donne&Arte”. 2 “Lasciare il meglio di sé”: (…). Roma, agosto 1980. Goliarda Sapienza guarda fuori dalla finestra in una giornata senza vento. I pini sono fermi e sembrano sculture, l'aria è immobile, la luce abbaglia e il rombare lontano di qualche macchina colora il silenzio di promesse. Goliarda ne ha ascoltate tante e qualcuna l'ha fatta anche balenare. Le prime e le seconde si sono incagliate su un fondale da cui risalire è difficile. Goliarda sa stare in apnea, ma è una donna che rifiuta apparenze e definizioni. Dicono che provi a fare la scrittrice e non è falso, ma diventi ciò che fai solo quando qualcuno ti consegna una patente e sul suo esame pesano infrazioni e sospetti. Goliarda la velleitaria e l'intrattabile, Goliarda la pazza, Goliarda la depressa, Goliarda la viziata che abita in un bel quartiere, ma è attratta dai margini e dai marginali, Goliarda l'ingrata che è stata accolta a corte e poi si è rifiutata di seguirne le logiche. Quando la bella stagione che sta per finire le soffia sul cuore, Goliarda balla per l'ultima volta. Va a una festa del suo vecchio mondo, si infila in una stanza, arraffa una manata di gioielli della padrona di casa e poi quando in autunno la arrestano e la rinchiudono in galera, scopre quello nuovo, l'università di Rebibbia. Uscita dal carcere non si riconosce più. E lo dice a Citto Maselli, il compagno di un'epoca che sembra lontanissima, nel novembre di quel 1980, con una lettera: "Da quando sono uscita non devo più vestirmi bene per andare a una cena, sono serena (se non fosse per il timore solito di restare all'asciutto sarei felice) e non mi pesa affatto né vivere poveramente né rinunciare non dico al cinema o al ristorante o a vestiti nuovi, ma neanche ai pochi lussi ai quali mi ero abituata". È ancora povera: "Da piccola vedevo girare per casa questi scrittori che sono sui libri di testo: facevano tutti la fame. E infatti, questo mi è successo", ma nulla le pesa perché dietro le sbarre, nella comune che appiana censo, provenienze e ipotesi di futuro, così simile al mare "che ascolta e non giudica", ha scoperto un presente da interpretare con più desiderio di quanto non facesse nei panni dell'attrice, la prima delle sue tante esistenze, quella in cui pensava fosse ancora possibile vivere senza farsi male. Ha nuove amiche, nuove curiosità, nuovi incontri che sostituiscono l'ansia dell'odiato telefono. Ha di nuovo voglia di respirare: "Sono da così poco sfuggita all'immensa colonia penale che vige fuori, ergastolo sociale distribuito nelle rigide sezioni delle professioni, del ceto, dell'età, che questo improvviso poter essere insieme - cittadine di tutti gli stati sociali, cultura, nazionalità - non può non apparirmi una libertà pazzesca, impensata". Ha Angelo, Angelo Pellegrino, che la capisce e la sostiene. Che la farà conoscere. E che a Mario Martone, che sul quel periodo della vita di Goliarda Sapienza ha girato Fuori, per filologia offre la possibilità di girare nei veri luoghi in cui quella storia è stata vissuta. Se al cinema la ricostruzione d'epoca è il più insidioso dei pericoli e l'azzardo che si propone di restituire l'inquietudine del protagonista la più rischiosa delle scommesse e la via più rapida per precipitare nel ridicolo involontario, Martone è pronto per Las Vegas. Tutto è sincero, tutto credibile, tutto giustamente crudo e mai consolatorio. Ma intanto, mentre Valeria Golino si muove e parla proprio come Goliarda Sapienza e tu dimentichi di essere spettatore, capisci che ne è valsa la pena: "Si muore per lasciare il meglio di sé a quelli che ti hanno saputo leggere". 

N.d.r. I testi sopra riportati sono a firma di Malcom Pagani e sono stati pubblicati, rispettivamente, sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 24 di maggio e del 31 di maggio dell’anno 2025.

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