“Racconta
una storia e il mondo non finirà”, testo di Georgi Gospodinov – poeta e
narratore, vincitore del premio Strega europeo dell’anno 2021 con il volume “Cronorifugio”
- pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” dell’otto
di giugno 2025: Una biblioteca è un rifugio, un cronorifugio, che accoglie tutti i
tempi. Non sono sicuro se ci rendiamo conto che, se permettiamo la distruzione
del mondo oggi, abbiamo permesso l'annichilimento di tutti i tempi e le epoche
precedenti. In questo senso la nostra responsabilità non riguarda solo il
momento attuale, è una responsabilità storica, che si espande all'indietro nel
tempo e nella storia. Dopo ogni catastrofe umana, che abbiamo permesso,
possiamo ascoltare le grida dei nostri predecessori, filosofi, poeti, narratori
di storie. (…). Sono stato un anno alla New York Public Library. E sempre,
quando ero preoccupato e il mondo era sull'orlo della catastrofe (anche allora
c'erano momenti del genere), andavo nella grande sala di lettura Rose Main Reading
Roorn, sotto il cielo dipinto nello stile del Veronese e guardavo i libri
ordinati su infiniti scaffali. Mi ci avvicinavo, li toccavo con la mano,
qualche volta li aprivo o leggevo lentamente i loro titoli. E questo
funzionava, ti consolava ed era il mantra migliore per salvarsi. Non aveva
importanza che libri fossero, tutto faceva parte di un mondo che è
sopravvissuto. Titoli di dizionari, di enciclopedie sulla Prima e sulla Seconda
guerra mondiale - 24 tomi rilegati in rosso, enciclopedie di botanica, dizionari
di anatomia... Guardavo per convincermi che il mondo è intero e rilegato. E
prima o poi tutte le catastrofi si trasformano in libri. Proprio secondo quella
frase di Mallarmé, amata da Borges, che dice che, prima o poi, tutto si trasforma
in libri. In questo c'è una certa consolazione. Nulla ci tranquillizza come
tomi uguali, ordinati, di enciclopedie di diversi continenti, di colore rosso
ciliegia, marrone e nero. (…). Penso che in un mondo sconsolato come quello di
oggi la letteratura tornerà sempre di più a questo suo ruolo un po'
dimenticato. Oltre duemila anni fa la "Consolazione" era un genere
molto diffuso nella letteratura. Seneca scrive la sua celebre “Consolazione per
mia madre Elvia” che, letta oggi, risuonerà precisamente come le nostre
rimandate consolazioni nei confronti delle nostre madri. (La loro tristezza non
è cambiata molto nel corso di venti secoli). «Spesso, madre mia beatissima, ho provato
un forte desiderio di consolarti, spesso mi sono fermato... Mi sembrava che, anche
se non riuscissi ad arrestare le tue lacrime, ma se te le asciugassi, si sarebbero
alleviate anche le mie pene». Così comincia
questo testo molto intimo di Seneca. Se asciugo
le tue lacrime, «si allevieranno anche le mie pene». Non riposa qui un possibile meccanismo di
ogni consolazione? Non puoi essere pienamente felice in un mondo dove, intorno a
te, è pieno di persone che soffrono. Ma torniamo a Seneca. La strategia della
consolazione, che viene scelta nel seguito del suo testo, sembra ugualmente
inaspettata e al di fuori della logica. «Metterò a nudo di nuovo tutte le
ferite dell'anima», scrive Seneca e comincia metodicamente a ricordare le
sofferenze passate, le infelicità e le perdite sofferte dalla madre. Così, in
maniera complessa, ci consola la letteratura. Non quando sottace, ma quando ci
ricorda le nostre tristezze sottaciute, quando ci dà una lingua per esse,
quando ci racconta di tristezze altrui finché «l'anima si vergogna» di
soffrire, come scrive Seneca. La letteratura è consolazione, ma anche
incoraggiamento di continuare a vivere. Consideriamo questo incoraggiamento
come un dono o una superforza. Mentre scrivevo il mio libro “Il giardiniere e
la morte” venni a sapere di un'antica tradizione slava, dei Balcani, da dove
provengo. Quando il padrone di casa muore, i suoi congiunti devono comunicare
la notizia agli animali domestici e al giardino. Da qualche parte sussurrano
all'orecchio del bue e lui capisce tutto. Che bella lingua, immaginatela
soltanto. Qualcuno va la mattina nella stalla, la mattina è gelida, si avvicina
al caldo orecchio del bue e soltanto gli sussurra dentro. Trasmette la notizia
attraverso il suo respiro. Il bue deve sapere che il suo padrone è morto, ma
che la vita continua. Poi qualcuno va agli alveari e comunica a voce: il vostro
padrone è morto ma voi, che siete vive e vegete, continuate a raccogliere
miele. Questo si comunica anche ai ciliegi nel cortile, che diano frutto anche
in questa primavera e ai fiori, che sappiano che la vita continua e che non
smettano di fiorire a causa della tristezza. Qualcosa di simile fa la
letteratura. Ci sussurra all'orecchio e ci comunica la triste notizia, non per
ucciderci, ma per dirci che il mondo è mortale, il mondo è in crisi, in un
infarto pre-apocalittico, ma voi non perdetevi d'animo e continuate a darvi da
fare per leggere e per scrivere, a seminare e a coltivare il vostro orto. E se
ci chiedono: perché continuate a scrivere libri e a costruire biblioteche, dal
momento che il mondo va evidentemente verso la sua fine, dominato da idioti,
noi possiamo rispondere: ma voi perché non costruite biblioteche vedendo come
il mondo va verso la sua fine, spinto da idioti? Nei libri c'è consolazione e
incoraggiamento. Come anche nello stesso scrivere. Per quanto siamo disperati e
i motivi della disperazione non erano stati da tempo così forti, se scriviamo
vuol dire che abbiamo speranza nel domani. Per un possibile domani in cui la
poesia sarà finita, il romanzo sarà scritto e qualcuno lo prenderà in mano, lo
aprirà e comincerà a leggere per risvegliare coi propri occhi cosa c'è scritto.
Una volta, in un pomeriggio italiano, girellando nelle vie di una cittadina,
vidi una donna che leggeva sul balcone. Stavo all'ombra di un albero, guardavo
come sfogliava le pagine, poi alza la testa, getta uno sguardo distratto e
ritorna nel rifugio del libro. E ricordo cosa mi dissi: questo mondo non può
finire, almeno finché quella donna continua a leggere sul balcone. Raccontiamo
o scriviamo libri per rimandare la fine del mondo e la nostra stessa fine.
Consideratela come la prossima superforza, magia e dono. Lo sappiamo meglio di
tutto dalle “Mille e una notte” e il grande esempio di Sherazade. Con ogni
storia narrata, interrotta nel momento più intricato, lei rinfocola la
curiosità di Shahriar, questo assassino seriale di donne e allontana la fine
ancora di un giorno. (…). Il dono risveglia dono, ma la storia, non finita,
risveglia ovviamente la curiosità del tiranno: «Per Dio, non la ucciderò,
voglio sentire il racconto sino alla fine». Ma il racconto è infinito, come è
infinito il labirinto del mondo. Dobbiamo però riconoscere che l'oppio delle
storie e la loro capacità di risvegliare empatia funzionano solo se possiedi
cuore e orecchio per esse. Purtroppo, i dittatori e alcuni manipolatori
politici non possiedono la superforza dell'empatia. Per loro, è una
superdebolezza. Non a caso Musk ha dichiarato che l'empatia è il punto debole
dell'Europa. E comporta solo tristezza e sofferenza. Questa gente non riconosce
la tristezza (non potete vedere in pubblico un dittatore triste). (…). E tuttavia
la letteratura e il raccontare producono empatia. Questa è un'ulteriore loro
superforza e dono. Non puoi - se sei una persona normale - gridare, offendere o
scacciare una persona che hai di fronte se hai appena sentito o letto la sua
storia. Detto in breve, la propaganda cerca di privare l'uomo della sua natura
umana, di spogliarlo del suo volto e della sua storia per regolare più
facilmente i conti con lui. Ma la letteratura fa proprio il contrario -
restituisce l'umanità. La letteratura e il raccontare costituiscono l'antidoto
naturale alla propaganda e alla volontà di aizzare coscientemente gli uni contro
gli altri. E questa è un'importante qualità politica. L'uomo che legge dovrebbe
riconoscere facilmente tutto il fake e il kitsch della propaganda e delle
teorie cospirative che ci sommergono. Il male, in particolare il male politico,
è sempre un cattivo stilista, dice Brodskij. E qui, mi sembra, risieda la
nostra forza - nell'elaborazione del gusto che riconosce perfettamente il male
politico e il nuovo e vecchio kitsch. Abbiamo finito di vivere il tempo in cui
ogni racconto è valido, il mondo è pieno di fake. Anche i populisti scrivono
storie - per un grande passato che nessuna nazione si è neanche sognato. Le
teorie cospirative conquistano la nostra immaginazione, come se non ci fossero
stati Galileo, Copernico, Newton, Einstein o Heisenberg. Ogni volta che oggi si
dice qualcosa sulla terra piatta, ad esempio, è come se Giordano Bruno ardesse
di nuovo sul rogo. Che cosa dobbiamo fare noi che scriviamo, quali storie e
come raccontarle per cancellare le storie di chi cancella secoli di conoscenza,
di Rinascimento, di Illuminismo? Qual è la differenza tra finzione letteraria e
falsificazione? Tra il mito e la teoria cospirativa? Non posso spiegarlo in
breve e in generale non posso spiegarlo. Ma so con certezza che la finzione ha
come scopo di arricchire con la fantasia la realtà umana. Mentre le storie e le
teorie fake hanno lo scopo di restringere e disumanizzare questa realtà umana.
Il lettore colto può stabilire questa differenza. E forse è questa la cosa
importante: educare lettori colti e critici, educare il cuore e la mente, non
smettere di educarli. Essere migliori narratori dei narratori di storie false.
Tornare alla conversazione e di far tornare la conversazione stessa. Perché noi
ormai quasi non ci parliamo, ci scambiamo solo furiosi monologhi, la
conversazione tra di noi si è spezzata. Ci troviamo come in quella fase così
bene schizzata nel penultimo capitolo della “Montagna incantata” di Thomas Mann
che descrive la vigilia, gli ultimi minuti prima della Grande Guerra. «Cosa
c'era in realtà? Cosa c'era nell'aria? L'avvicinarsi della crisi. Irascibilità.
L'irritabilità pronta a scatenarsi. In sofferenza senza nome. Una tendenza
generale ai discorsi irritanti agli sfoghi leciti e anche agli scontri.
Polemiche spietate, grida sfrenate, travolgevano ogni giorno singoli o interi
gruppi». Oggi questo passaggio risuona più che attuale in un'altra vigilia, non
voglio neppure dire di che cosa. Perciò dobbiamo in tutta fretta tornare alla
conversazione.
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