"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 2 febbraio 2025

Lavitadeglialtri. 72 Rita Baroud: «Ho paura della verità che potrei trovare se tornassi. Ma nel profondo so che lo farò perché sento un forte desiderio di vedere con i miei occhi quel che resta del nostro mondo devastato dalla guerra e affrontare il dolore sepolto dentro di me».

                                Sopra. "Gaza", prima della distruzione.

Anche mio padre, Maisara, è partito per il nord di Gaza. Come altre centinaia di migliaia di palestinesi, due giorni fa si è messo in marcia inseguendo il passato nella speranza di un futuro migliore. Ma anche lui è stato deluso, colpito dalla cruda realtà fatta di rovine e polvere. Maisara si è mosso da solo. Nelle ore precedenti avevamo litigato. Io avevo insistito per andare con lui. Ma non ne ha voluto sapere. Riteneva il viaggio troppo pesante e doloroso per me, sua figlia. Ci ha però raccontato al telefono il cammino attraverso le macerie di Gaza. E la verità che cercava si è rivelata desolante. Ci ha parlato della massa umana in movimento, di un uomo anziano che è morto sotto gli occhi di tutti, stroncato dalla fatica. Ci ha raccontato di due persone uccise dalla guerra, che ancora ci insegue: sono morte a causa di una bomba inesplosa sulla strada Al-Rashid. Ci ha colpito la descrizione dell’aria che si attaccava al viso e ai vestiti: «I passi sono diventati sempre più pesanti e l’aria così secca da diventare insopportabile. La sete era diventata tale che le nostre conversazioni si sono ridotte a meri silenzi e sussurri sull’acqua». Poi ci ha chiamato quando è arrivato. In piedi, di fronte a ciò che vedeva. È rimasto in silenzio, poi ci ha detto. «Questa non è la nostra casa. Qui ci sono solo cumuli di macerie che riempiono a malapena un buco nel terreno. È come se la terra avesse inghiottito tutto: i muri, i ricordi, il suo stesso odore. Mi è sembrato come se il luogo volesse cancellare del tutto la sua esistenza, negare che sia mai stato la nostra casa. La guerra si rifiuta di concederci anche solo la possibilità di piangere per ciò che è stato». Maisara è un artista. Tra le macerie sperava almeno di ritrovare le sue opere abbandonate nella fuga. «E i dipinti?», gli ho chiesto. «Niente», ha risposto sconsolato. Poi ha aggiunto: «Però ci sono dei quadri che avevo lasciato da mia sorella. Sono andato a controllarli». La sua voce si è indebolita: «Si sono ammuffiti... L’umidità ha divorato i loro colori. Non erano più dipinti, ma solo fogli di carta distorti». È rimasto di nuovo in silenzio, per un attimo, per poi dire con voce tremante: «Ho cercato di elaborare che questi erano i miei quadri. Erano una parte di me e ora non è rimasto nulla... solo muffa e silenzio». In quel momento, ho sentito che ciò che aveva perso non erano solo dipinti, ma un pezzo della sua anima. Un frammento della sua memoria artistica che ha cercato di resistere alla guerra, ma che non è riuscito a sopravvivere alla devastazione. «Tornare al nord - si è sfogato - è stato un grosso errore. Non avrei dovuto farlo. Per quanto cerchi di descrivere ciò che ho visto, non ci riesco... Il posto che conoscevo non esiste più». Poi, con voce tremante: «Rita, sono stanco... ogni parola riporta alla mente immagini dolorose, fa male. Ne riparleremo più tardi». Sentivo che non aveva più l’energia per continuare a parlare, le parole erano diventate un peso. Il silenzio l’unico rifugio rimasto. La curiosità mi ha spinto poi a richiamare la mia amica Layal - anche lei arrivata lunedì a Gaza nord, dove con grande sorpresa aveva, tra i pochi, trovato la sua casa ancora in piedi. Anche la sua voce era appesantita dalla stanchezza. «Ti consiglio di non pensare nemmeno di tornare qui al nord», mi ha detto senza esitazione. «Il nord non è più quello che era una volta. Quello che troveresti qui sono dolore e delusione. Non tornare indietro, Rita. Non tornare». Comprendo le sue parole, e quelle di mio padre, e io stessa ho paura della verità che potrei trovare se tornassi. Ma nel profondo so che lo farò perché sento un forte desiderio di vedere con i miei occhi quel che resta del nostro mondo devastato dalla guerra e affrontare il dolore sepolto dentro di me. (Tratto da «La delusione di mio padre di fronte alla nostra casa. “Solo un cumulo di macerie”» di Rita Baroud pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 29 di gennaio 2025).

“La nostalgia e quel fiume verso Gaza”, testo di Umberto Galimberti pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 29 di gennaio 2025: Che cosa ci dice quel fiume di uomini, donne e bambini che, dal Sud della Striscia di Gaza, dove sono stati obbligati a trasferirsi per non morire sotto i bombardamenti iniziati al Nord, ora ritornano a casa nella loro terra a piedi, con i sacchi che contengono le loro povere cose rimaste, con i bambini sulle spalle, con i vecchi che non ce la fanno sistemati su carretti di fortuna? Perché lo fanno, tutti insieme, con insistenza e perseveranza, senza esitazione né cedimenti, quando sanno che non troveranno le loro case, ma solo un cumulo di macerie, dove sarà impossibile persino identificare dove quelle case sorgevano e dove probabilmente troveranno sotto quelle macerie i corpi esanimi di quanti non sono riusciti a trasferirsi? Coperta da quelle macerie non c’è una vera e propria strada che, percorsa, porti tutte quelle persone “a casa”. La strada la aprono loro camminando. Sono le loro impronte a tracciare la strada e niente più. Quando volgono indietro lo sguardo vedono il sentiero che hanno tracciato, neppure sostenuti dalla speranza che non più la dovranno tornare a rifare. La speranza non li regge, ma li sostiene la nostalgia da assumere qui non come edulcorata malinconia, ma nel suo amaro e struggente significato etimologico reso dalla lingua greca che chiama “nostalgia” il dolore (álgos) del ritorno (nostos). E anche se la loro meta sarà un cumulo di macerie, quella è la loro terra, che sarà loro solo se a calpestarla saranno i loro piedi, e a ricostruirla le loro mani. Non vogliono ripetere l’esperienza del 1947 quando i britannici rinunciarono al loro mandato sulla Palestina e l’Assemblea delle Nazioni Unite votò un piano di ripartizione della Palestina che costrinse molti palestinesi a lasciare le loro terre. Parve a molti ebrei che finalmente fosse possibile realizzare il sogno biblico della “Terra promessa”, anche se non tutti gli ebrei erano d’accordo e, primo fra tutti, Sigmund Freud che, nel 1930, a Chaim Koffler, rappresentante viennese dell’associazione sionista “Keren Hajessod”, che cercava consensi e finanziamenti per gli insediamenti ebraici in Palestina, scrisse una lettera che solo nel 1954 fu pubblicata in ebraico e solo nel 1999 in inglese sul Los Angeles Psychoanalytical Bulletin, in cui diceva: “Non posso fare quello che Lei desidera. Il mio sobrio giudizio sul sionismo non me lo permette. Io non penso che la Palestina potrà mai diventare uno stato ebraico e che il mondo cristiano e il mondo islamico potranno mai essere disposti ad avere i loro luoghi sacri sotto il controllo ebraico. Mi sarebbe parso più sensato fondare una patria ebraica in una terra meno gravata di storia. Giudichi ora Lei stesso se, con un simile atteggiamento critico, io sia la persona giusta per confortare un popolo illuso da una speranza ingiustificata”. La speranza si è realizzata, anche se non possiamo sapere se Freud avrebbe mantenuto questo suo severo giudizio dopo lo sterminio nazista degli ebrei. Eppure il tema della nostalgia, quella forza che, a mio parere, sostiene quel fiume di persone che traccia con i suoi passi sofferti la strada verso la propria terra, ritorna persino nella lingua tedesca, dove il termine “nostalgia” è reso dalla parola heimweh, dove nella radice heim c’è il richiamo alla patria (heimat), alla casa, al villaggio, a ciò che è familiare (heimlich), anche se poi in Germania heim proseguì la sua storia nella versione negativa di Unhemlich, l’Inquietante, che mi auguro turbi ancora le nostre coscienze. Quando penso al conflitto israelo-palestinese mi sovvengono le parole di Barbara Spinelli là dove scrive in Ricordati che eri straniero (ed. Quiqajon, Comunità di Bose), esperienza comune sia agli ebrei sia ai palestinesi: “Non è civiltà né operazione di giustizia chiedere all’altro di compiere l’intero cammino che porta a me, da solo, in una logica che non è di cooperazione, ma di sottomissione. […] Perché non: ‘Veniamoci incontro’ anziché ‘Vienimi incontro’. Il che vuol dire facciamo un po’ di passi tutti e due, uno verso l’altro; stringiamo un patto, stabiliamo un terreno d’intesa, magari minimo, però comune”. Ma qui sorge l’obiezione: e quando lo straniero assume la forma del terrorista, che è poi colui che non ha nulla da perdere, tranne la sua vita, come si fa a stipulare un patto e trovare un’intesa? Finora noi occidentali gli abbiamo dichiarato guerra riconoscendo allo straniero lo statuto del nemico. Così facendo, alla morte inflitta dallo straniero abbiamo risposto infliggendo morte. Siamo rimasti vittima di questa reciprocità, perché abbiamo restituito allo straniero lo sguardo che lo straniero aveva rivolto a noi: lo sguardo del nemico. Ma se la logica del nemico ha consentito all’uomo un’evoluzione che dalla clava ci ha portato alla bomba atomica, non è possibile inaugurare un’evoluzione diversa di cui potrebbe farsi carico la “politica”, qui intesa in senso alto, che abbia in vista non l’accordo tra me e te, che può avvenire su qualsiasi base, fatti salvi i nostri interessi, ma quell’accordo tra me e te che si fa carico di tutti quei morti che sono le vittime del tuo e del mio sistema, regolato unicamente dalla logica del nemico. È una strada difficile, lo sappiamo. Ma è quella che abbiamo inventato all’origine della nostra cultura e che, dopo mille devianze e smarrimenti, dobbiamo recuperare per essere all’altezza della nostra civiltà, che non possiamo dichiarare “superiore” solo per la nostra superiorità economica, tecnologica e militare, come pensa Donald Trump, che vorrebbe trasferire questo popolo in marcia verso la propria terra in altre terre, dove i palestinesi si sentirebbero nuovamente stranieri e, per la logica del nemico, nemici. Questo è il significato di quel fiume di uomini, donne e bambini che si sono incamminati verso la loro terra.

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