"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 23 febbraio 2025

Lavitadeglialtri. 75 Donald J. Trump: «Chi deve sudare lo stipendio per tutta la vita è innanzitutto perché è idiota».


(…). …da molti anni – diciamo, per comodità, dalla Bolognina a oggi: e sono più di vent’anni – ogni tentativo di osmosi tra la sinistra-partito e la sinistra-popolo ha cozzato una, dieci, cento, mille volte contro finestre e porte chiuse. La domanda è semplice, ed è tutt’altro che “populista”, riguardando, al contrario, il tema cruciale della formazione di una élite: quanti potenziali leader, quanti quadri politici appassionati, quante nuove idee, quanta innovazione, quanta energia è stata perduta dalla sinistra italiana a causa, soprattutto, della sua incapacità di fare interagire le sue strutture politiche e il suo popolo, i dirigenti e i cittadini? Quante di quelle energie sono confluite nelle Cinque Stelle, portandosi dietro altrettanti voti? Quanto alto è stato il costo politico di un partito che per timore di perdere “centralità” ha perduto realtà, e infine ha perduto competenze, autorevolezza, e con l’autorevolezza il senso stesso della missione di qualunque vera avanguardia politica? Infine e soprattutto: per quanti anni ancora varrà, a sinistra, il pregiudizio contro il “radicalismo minoritario” (sono state queste, più o meno, le ragioni addotte da alcuni per spiegare il loro no a Rodotà), quando le sole vittorie recenti, dall’acqua pubblica alle amministrative, sono il frutto evidente di scelte radicali, e non per questo meno popolari, e infine maggioritarie? Chi è più snob – per usare un termine tanto di moda – Rodotà che lavora con i Comitati per l’acqua e vince il referendum o un partito così castale, così impaurito da rinserrarsi a litigare, per anni, nel chiuso delle proprie stanze?
(Tratto da “La scomparsa dei post-comunisti” di Michele Serra, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 30 di aprile dell’anno 2013).

«Dickens e “quellichelasinistra” di un tempo passato». “Caro Dickens, la working class ha bisogno di nuovi eroi”, testo di Stefano Massini pubblicato sul settimanale “Robinson” del 9 di febbraio 2025: (…). …il mestiere, nell'era del precariato diffuso, è diventato un parametro secondario, forse un contenitore vuoto, talmente vuoto da passare in secondo piano. Il lavoro? Un quasi anagramma di valore, ma un valore in crisi verticale, relitto baluginante di qualcosa che l'umanità ha progressivamente imparato a detestare. Eppure resta viva la memoria del 1912, quando i giovani Gramsci e Togliatti andavano nei giardini torinesi lungo il Po per respirare a pieni polmoni la vitalità delle lotte operaie, unendosi alle centinaia di lavoratori che affluivano sotto quegli alberi per organizzare scioperi e confrontarsi sui loro diritti: il pleistocene, se si pensa che oggi il responsabile del dicastero del lavoro è una figura di cui a stento ricordiamo il nome. Sarà forse che oltre mezzo secolo è passato da quando Lennon cantava Working Class Hero e ormai gli eroi sono quelli plasmati dalla mitologia dei social o dei blog, spesso traendo l'aura della fama proprio dal tenersi lontani dal lavoro, pratica degradante con cui sono costretti a mantenersi i non-supereroi («chi deve sudare lo stipendio per tutta la vita è innanzitutto perché è idiota», sentenziò Donald J. Trump in una puntata di TheApprentice). E pensare che i milionari di inizio secolo si infuriavano se li accusavi di non lavorare, e i privi di occupazione si chiamavano un tempo "scioperati", additando nella categoria il biasimo morale per chi non spendeva fatica per la collettività. Da allora, passando attraverso Memoriale di Volponi e La vita agra di Bianciardi siamo approdati allo squallore evanescente del lavoro 3.0, scandito al ritmo dei jobs-act e perfettamente documentato dalla fotografia senza sconti dei film di Ken Loach. Chissà come commenterebbe Charles Dickens, colui che da Oliver Twist a Nicholas Nickleby ci ha consegnato in forma di romanzi un Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, un affresco letterario di personaggi sprofondati nei drammi e nei dilemmi di un mondo del lavoro così lontano eppure così vicino al nostro. Sfogliarne le pagine è scavare in un'archeologia del lavoro. Cominciamo dicendo che il nume tutelare della working class letteraria sapeva bene cosa fosse il verbo lavorare. Lo sapeva al punto tale che prima andò in fabbrica e poi a scuola. Il classico percorso che prevede un meccanismo inverso è del tutto ribaltato nella vita di Dickens, che conobbe la fatica del turno prima dei banchi di scuola della Wellington, un po' come John Clare che prima di imparare a leggere si rompeva già la schiena nei campi del Cambridgeshire. Certo, Charles aveva ricevuto un'istruzione di base all'età di cinque-sei anni, ma poco dopo i dodici si trovò costretto a lasciare le sue adorate letture per varcare ogni giorno i cancelli della Warren's Blacking Warehouse, dove una legione di operai come lui produceva l'olio per i lustrascarpe di mezza Inghilterra. Ci rimase per molti mesi, costretto a turni sfinenti, sprofondato nell'abbrutimento di quei sobborghi settentrionali di una fumosissima Londra, in cui la borghesia non metteva piede neanche per errore, e se accadeva ne restava traumatizzata. Non per nulla erano spesso ambientate lì le storie di sangue e degrado di cui abbondavano i cosiddetti penny-dreadful, racconti tascabili spaventosi concepiti per spruzzare un po' di brivido nella routine monotona del ceto medio vittoriano, ben lieto di inorridire di certe Babilonia come Camden Town, la periferia nord nota ai più per i quadri a tinte fosche di Walter Sickert, sospettato d'essere Jack lo Squartatore. Qui avvenne il battesimo lavorativo dello young Dickens, bambino perduto alla J.M. Barrie, immerso in una specie di girone infernale in cui i diritti erano un miraggio, lo sfruttamento una prassi consolidata, ma soprattutto regnava la totale negazione di ogni umanità, e quindi si può ben dire che in quel nefasto 1824 non fu solo il padre di Dickens a essere recluso nel carcere della Marshalsea, ma anche Charles ebbe le sue sbarre in una galera denominata fabbrica. Di quegli hard times non si sarebbe più dimenticato, quei mesi trascorsi come Giona nel ventre operaio della balena lo avrebbero impressionato indelebilmente, nonostante il successivo rasserenarsi dello scenario familiare gli consentisse di essere iscritto all' Accademia di Wellington, dove ritrovò i suoi libri e un'ipotetica carriera da legale. Ma no, era troppo tardi per non percepire un'altra missione, quella di farsi cantore delle masse dimenticate, le moltitudini brulicanti in quegli alveari che egli stesso aveva frequentato. E infatti, quando nel '36 cominceranno a uscire le puntate di Oliver Twist, i lettori londinesi si troveranno davanti l'odissea barbara di un piccolo eroe sulla scia di Tom Jones che, guarda caso, ha la stessa età dell'autore quando passava dieci ore al giorno nel grigio della fabbrica per strappare un salario da fame. Sembra un quadro lontanissimo, ma a ben osservarlo è sovrapponibile al nostro: la Camden Town di Dickens sarà stata cupa e tinta di nero pece, ma non era in fondo diversa dalle periferie degradate di cui cantano Mahmood e Ghali, quelle in cui la città appare lontanissima e la sopravvivenza è l'unica discriminante. Tredici anni sono passati da quel giorno in cui Isabella Viola, barista di trentaquattro anni, fu trovata morta su un mezzo pubblico stroncata dal prezzo di una vita impossibile pur di mantenere quattro figli e un marito nella giungla dei condomini di Torvaianica: è una storia che potrebbe ben figurare nelle pagine di Tempi difficili, per la semplice ragione che pochissimo è cambiato e l'assenza di garanzie e di diritti trionfa ancora per chi necessita di soldi, i famosi "pochi maledetti e subito", quelli per cui vivere e morire secondo la regola spietata che tratteggia Pasolini ne La tosse dell'operaio. A fare semmai la differenza è che la società di Dickens era ancora visibilmente distinta in livelli, e ognuno di questi era riconoscibilissimo per abbigliamento e riti, mentre nel 2025 tutto appare uniformato nel grande sabba dell'omologazione, per cui anche i più derelitti figli della toorking class si realizzano facendo la fila all'alba fuori da un outlet per aggiudicarsi il nuovo smartphone con 48 comode rate (da detrarre da uno stipendio che chissà se manterranno). Oliver Twist all'età di dodici anni era subito identificabile come un predestinato all'eterno sudore, laddove oggi vestirebbe invece con gli stessi abiti di un piccolo borghese e scaricherebbe dal web gli stessi video dei suoi coetanei delle zone residenziali. Per il resto, niente è diverso, e anzi rispetto all'operaia Vincenzina di Enzo Jannacci siamo riusciti a peggiorare il quadro con l'annientamento della solidarietà sociale, del mutuo soccorso, del reciproco sostegno fra lavoratori che compare sullo sfondo degli scritti, per esempio, del nostro Ottieri. È il ricordo di un'epoca svanita, quella in cui ancora l'individuo non svettava come entità salvifica e onnipotente, consacrando fra le altre sciagure la solitudine del lavoratore orfano di quel plurale che oltre a proteggerlo lo epicizzava. Qui giace la working class? Se non è un requiem, poco ci manca.

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