Ogni mattina ciascuno di noi si alza, va in bagno, si lava i denti, si veste, fa colazione e si chiede cosa cazzo avrà combinato Elon Musk durante la notte, quanti dipendenti statali avrà licenziato, quanti miliardi avrà accumulato mentre noi dormivamo, quali programmi umanitari avrà cancellato, quanti appelli avrà lanciato ai fascisti e/o sovranisti di tutto il mondo; sovranisti tollerati e incoraggiati purché il sovrano sia lui. Un’attività così frenetica che persino il suo maggiordomo, Donald Trump, ha sentito il bisogno di precisare che “Musk non decide niente senza la mia approvazione”. Grazie, ha fatto bene a dircelo: non si ha memoria, nella storia degli Stati Uniti, di un presidente costretto a ricordare che il presidente è lui, non un altro tizio che comanda. L’ultimo colpo di Elon (l’ultimo mentre scrivo, ma mentre voi leggete potrebbe già essere il penultimo, o il terzultimo) è la chiusura di Usaid, l’agenzia americana che si occupa(va) di aiuti umanitari in giro per il mondo, operatori e funzionari che decidono di mandare camion di aiuti se c’è un terremoto ad Haiti, un’epidemia di tubercolosi in Africa, un disastro naturale in Asia. Tutte seccature, per la categoria protetta dal nuovo presidente Elon e dal suo vice Donald, cioè il maschio bianco eterosessuale americano, possibilmente molto abbiente, segno zodiacale repubblicano, ascendente miliardario. Così, il mondo, da complesso e complicato che era, ridiventa semplice. Se c’è un incidente aereo si dà la colpa ai transessuali, se migliaia di americani si ammazzano col Fentanyl si dà la colpa al Messico, se le rotte commerciali dei concorrenti passano troppo a Nord si mette nel mirino la Groenlandia, se un’app cinese funziona meglio e costa meno di un’app americana la si vieta, e così via. Vanno al macero decenni e secoli di multipolarismo e tentativi (modesti, a dire il vero) di composizione dei conflitti, per tornare ai galeoni, alle colonie, ai conquistadores, alla lineare elementarietà dell’Ottocento. Ci serve oro? Semplice, conquistiamo chi ce l’ha. Carbone? Andiamo a prendercelo. Terre rare? Roba nostra. Eccetera eccetera. Forse i più saggi, i più colti, quelli che hanno maneggiato qualche libro di storia, riconosceranno la sindrome: l’Impero in decadenza fa la faccia cattiva, si arrocca, e ricorda a tutti che lui è ancora il più forte, disposto a distribuire sberloni qui e là, soprattutto per fare il conto di amici e nemici. Tipo la signora von del Lyen che per arginare Elon e Trump propone di comprare più armi e più gas da Elon e Trump. È come se di fronte a un leone affamato che vuole mangiarti tre figli, gliene lanciassi due per tenerlo buono. Che astuzia.Come sempre, il più grande alleato del sovrano è il suddito accecato: forse anche un povero spagnolo del diciassettesimo secolo pensava che derubando le Indie di oro e argento sarebbe diventato più ricco; mentre invece no, diventavano più ricchi solo i già ricchi, e a lui restava il compito di applaudire. È lo stesso meccanismo – oltretutto oliato da tre-quattro detentori dell’informazione mondiale, tutti alla corte di Elon e Donald – che si vede bene oggi: poveracci che tirano l’anima coi denti, che perdono diritti, assistenza, potere d’acquisto, sanità, welfare, diritto allo studio, ma che esultano perché – finalmente – si dà una lezione a quei froci-trangender-comunisti-statalisti di mezzo mondo. Poi via, a pagare la rata della macchina, il pieno di benzina, la bolletta del gas. E a stupirsi se è tutto è più caro di prima. (Tratto da «“America first”. L’impero spaccone di Trump&Musk e i sudditi creduloni» di Alessandro Robecchi pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, 5 di febbraio 2025).
“Trump e il declino del popolo Usa”, testo di Pino Arlacchi – calabrese di Gioia Tauro (21 febbraio 1951), sociologo e politico - pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 28 di gennaio 2025: Il discorso inaugurale di Trump e i suoi primi decreti esecutivi sono il tipico esordio di un capo populista che promette al popolo di riscattarlo dall’ambascia in cui è caduto e di guidarlo dentro un cammino di rinascita. Quante volte l’abbiamo visto questo squallido spettacolo, da Mussolini a Hitler a Berlusconi, agli odierni capetti xenofobi europei? In quanti hanno promesso di far tornare grandezza nazionale e prosperità in virtù del loro carisma personale per poi crollare ignominiosamente, e talvolta tragicamente, di fronte a crisi economiche, guerre e revulsioni da parte degli stessi interessi che li avevano favoriti? È vero che Trump è arrivato al potere grazie a elezioni democratiche, ma la sua vicenda non fa che convalidare il principale argomento contro la democrazia elettiva. Fu Platone a sollevarlo per primo nei confronti di una Agorà ateniese preda di demagoghi al guinzaglio dell’uno per cento dell’epoca (cui Platone stesso peraltro apparteneva). I processi elettorali sono vittima di forze irrazionali perché presuppongono una capacità degli elettori di valutare candidati e programmi che è palesemente inesistente. Tesi confermata dalla famosa battuta di Churchill, che il più grande argomento contro la democrazia è una chiacchierata di cinque minuti con l’elettore medio. E compensata dall’altrettanto celebre battuta, che il convento non offre di meglio. La democrazia è vulnerabile alla manipolazione delle oligarchie che sfruttano a loro vantaggio la bassa partecipazione politica e la diffusa disinformazione. Tutto ciò, tuttavia, fino a un certo punto, perché sono poi i disastri finali delle politiche populiste a far ravvedere gli elettori. Dopo averne pagato il prezzo. Una delle interpretazioni più superficiali del successo di Trump consiste nell’attribuirlo a una reazione dell’elettore americano contro l’immigrazione incontrollata e la cultura woke, come se questi non fossero i triti capri espiatori di una trita tradizione demagogica e fascistoide. I pontificatori più vacui si spingono fino al punto di spiegare il voltafaccia pro-Trump da parte dei tycoon dell’informazione, fino a ieri democratici, al loro possesso di antenne speciali in grado di captare la rivolta antigay, antistranieri e antiestablishment dell’America profonda, e non al classico salto sul carro del vincitore, anche questo visto chissà quante volte. Perché l’avventura di Trump finirà come quella dei suoi tristi predecessori europei? Perché la sua formula politica è una risposta scadente e truffaldina al risentimento di masse popolari angosciate e demoralizzate da avversità pesanti come pietre: l’impoverimento del ceto medio e della classe operaia, il degrado della qualità della vita, l’insicurezza verso il futuro, il senso di diritti fondamentali minacciati o perduti come la salute, il lavoro, la dignità personale. Trump promette una nuova età dell’oro a una popolazione americana il cui degrado psicofisico è sconcertante. Tra i soloni italiani che sproloquiano sugli Stati Uniti ci sono personaggi che parlano di una società americana che non esiste più da cinquanta anni. Gli studi che escono dalle università più prestigiose degli Stati Uniti cercano di spiegare perché una popolazione tra le più longeve, sane e ottimiste del pianeta – quella degli Stati Uniti fino agli anni 70 – si è trasformata in un mezzo ospedale Cottolengo, dove le aspettative di vita si accorciano di anno in anno invece di crescere come nel resto del mondo: 6 anni e mezzo di vita in meno rispetto all’Italia (76,4 contro 82,9) e 3,7 rispetto all’Europa (80,1). Gli americani di oggi campano quasi due anni e mezzo in meno del 2010 perché campano male. La loro salute fisica e mentale è a pezzi, a causa dell’aumento di povertà, droghe pesanti legalizzate (Fentanyl e simili), suicidi, alcolismo, obesità e Ptsd (disordini mentali dovuti in prevalenza a postumi di guerra). L’overdose da oppiacei è diventata la prima causa di morte degli americani con meno di cinquanta anni, con oltre 100 mila decessi l’anno (settemila in Europa) equivalenti a due guerre del Vietnam perse ogni anno, e una platea di 10 milioni di consumatori (meno di un milione in Europa). I suicidi sono del 45% superiori alla media europea e in crescita contro un trend mondiale in diminuzione. Gli omicidi, pur decresciuti, sono 5 volte quelli europei e 10 volte quelli italiani, per non parlare del tasso di violenza privata. I sofferenti di gravi stress (Ptsd) sono 16 milioni, il 5% della popolazione: il regalo di decenni di militarismo e di aggressioni estere. Nel Paese più ricco del pianeta la mortalità infantile dal 2019 aumenta invece di diminuire, e nel 2023 è quasi il triplo di quella dell’Italia del Nord (1,9 contro 5,4 nati vivi per mille). I senza casa e senza fissa dimora sono un paio di milioni quasi fuori controllo in California. I dati sulla statura di una popolazione ricalcano da vicino quelli sul suo reddito e sulla sua salute. Essi documentano come l’americano alto, magro e vigoroso dei film di Hollywood anni 50 esista solo nei sogni di qualche giornalista italiano bisognoso di aiuto. La statura media dei maschi Usa è oggi inferiore di 3-8 centimetri rispetto a quella europea, poiché ha smesso di crescere negli anni 60 assieme al benessere, alla salute e a tutto il resto. I cittadini statunitensi di oggi sono più piccoli, grassi e vulnerabili di quelli europei. Questi dati non provengono dalla sinistra radicale americana (peraltro scomparsa) ma dagli studi di Putnam (Harvard), Deaton (Princeton) e di una schiera di demografi, storici, sociologi, economisti ignorati dai media mainstream. Questi studiosi mettono in rilievo che il degrado della sostanza umana e naturale della società si è accompagnato negli Stati Uniti a un degrado dell’economia, oggi in mano al capitale finanziario e priva delle infrastrutture indispensabili per ricrescere, a un deterioramento dell’ambiente e a un crollo della coesione sociale di base, cioè della forza vitale di una civiltà. Ora, per ricostruire un sistema così scassato ci vogliono tempi lunghi, ingenti risorse e progetti politici complessi e di vasto respiro. All’America non mancano certo tempo e risorse. È e rimarrà a lungo una potenza di prima grandezza, dotata delle risorse naturali e tecniche sufficienti a sostenere una rinascita. Sono i progetti che mancano. Per rigenerare gli Stati Uniti occorrerebbero strategie a tutto campo, visioni del futuro credibili, simili a quelle che hanno salvato il capitalismo americano negli anni 20 e 30, e simili a quelle che lo hanno rilanciato dopo il 1945, nelle vesti di un governo mondiale. Strategie e visioni imperiali, certo. Ma adeguate alle sfide in campo, efficaci e portatrici di prosperità, sia pure a spese altrui. Non mi pare che le quattro sparate di Trump contro gli immigrati, i competitori commerciali, le energie rinnovabili e le diversità siano anche vagamente assimilabili a una strategia di uscita dal declino. Ma lo stile paranoide della politica americana è un problema del popolo di quel Paese. La questione per noi rilevante è capire se il populismo trumpiano avrà fine cruenta o pacifica al di fuori dei confini statunitensi.
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