"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 11 febbraio 2025

Lavitadeglialtri. 74 Malcom Pagani: «Le autorità, in quella tonnara siciliana in cui all'inizio degli anni 80 si moriva come a Baghdad, avrebbero voluto darle una scorta. Non prese mai in considerazione l'idea».

                                            Sopra. Foto di Letizia Battaglia. 

Immagini&Vita. LetiziaBattaglia”. 1 “Scrivendo con lo sguardo”: Letizia Battaglia è stata anche una grande scrittrice. Se ne è andata senza saperlo, ma soltanto guardando il suo lavoro è possibile intuire che il mestiere che avrebbe voluto fare da ragazza, quello in cui metodo ed esercizio disciplinano l'invenzione trasformandola in parole e suggestione, in fondo, le era sempre appartenuto. Aveva scritto con lo sguardo. Aveva scritto con la curiosità. Aveva scritto con il coraggio. Aveva scritto provocando, disturbando e testimoniando con i suoi occhi mentre gli altri volgevano lo sguardo altrove. Inquieta e originale, indisposta alla genuflessione, ribelle per inclinazione e per necessità - perché il suo corpo, di fronte a un indizio di prevaricazione, le mandava segnali impossibili da ignorare - questa fotografa inclassificabile che imparò il mestiere senza avere alle spalle scuola alcuna, manca, come in certi capisaldi musicali italiani di fine anni 70, più dell'aria. Aveva visto New York e Parigi, Milano e Roma, Liverpool e Madrid. Aveva viaggiato ovunque, ma sempre a Palermo, senza sapersi spiegare il perché, era tornata. Diceva che si trattava di «epidermide»: una questione di pelle, perché in certi vicoli della sua città, proprio come nei romanzi di Malaparte, trovava la morte e l'amore, la coerenza e la contraddizione, il popolo arrabbiato e quello che «non maledice e non odia nessuno, neppure la miseria». Letizia era un randagio e forse non è un caso che il più nomade dei suoi simili, Josef Koudelka - uno che a Belgrado, sotto le bombe della Nato, rifiutava le misure di sicurezza offerte dall'ambasciata di Francia e dormiva in sacco a pelo nei corridoi dicendo «sono un soldato positivo» - fosse il suo fratello acquisito. L'altro, la sua appendice, era la macchina fotografica. L'aveva usata per la prima volta a due passi da casa, con il pacchetto di sigarette nella tasca, senza spandere quel fumo che alle origini della sua arte era più magia che magnesio, più illusionismo che lampo, più impressione che realtà. Nella realtà, Letizia Battaglia si era trovata spesso. E nella realtà aveva scattato ancora mettendo in primo piano gli internati in manicomio, gli omicidi di mafia e le ragazze di Napoli, in tre, a cavallo di una Vespa. Di ogni foto ricordava l'odore perché l'olfatto era una delle bussole della sua memoria. Come Nan Goldin aveva visto la morte, il sangue, lo stupore sui volti di chi aveva perso la vita in una frazione di secondo. Come Nan Goldin aveva immaginato di poter cambiare le cose e, intelligente com'era, si era resa conto che la storia è crudele e tollera l'aspirazione verso il bene solo quando si tratta di tagliare un nastro, fare propaganda, fingere di cambiare ogni cosa perché tutto rimanga com'era prima. In molti, nel suo luogo natale, avrebbero preferito tacesse per sempre. Le autorità, in quella tonnara siciliana in cui all'inizio degli anni 80 si moriva come a Baghdad, avrebbero voluto darle una scorta. Non prese mai in considerazione l'idea. La paura diventa tangibile quando le dai un'occasione per farsi temere e questo privilegio, Letizia Battaglia, non l'aveva mai concesso a nessuno. Non aveva avuto paura neanche della malattia che pure, disse ad Antonio Gnoli, un po' la spaventava. Quando accadeva, accendeva una candela e con quel fuoco provava a dimenticare che si stava spegnendo. Alla scrittrice mancata i libri piacevano. E ancor di più amava le persone che dietro ai libri brillavano con le loro idee. A Roma, il 16 febbraio, la celebreranno in un luogo di transito, uno dei suoi posti preferiti, Piazza Vittorio, con un incontro ad Esquilibri e una vendita di volumi usati che ogni tanto, sulle bancarelle, Letizia si incantava a guardare e sfogliava per il puro gusto di perdersi nelle storie degli altri. La bussola della sua esistenza, la bandiera dei suoi anni feroci. A marzo sarebbero stati 90, pochi, per chi una vera età non l'ha avuta mai.

Immagini&Vita. ClaudioCaligari”. 2 “Troppo incisivo da scordare”: L'ora dell'appuntamento, nel più anonimo dei bar, l'aveva scelta lui. Così come aveva eletto il tavolino al quale sedersi e cosa consumare mentre tutto, intorno, si stava consumando. Con la voce bassa, le parole giuste e il pudore di raccontarsi senza mai indulgere all'autocommiserazione, c'era un uomo che aveva ancora un paio di desideri. Realizzare l'atto conclusivo di un'esistenza arricchita dai dubbi e non sembrare, neanche per un istante, chi non era mai stato. Conclusi l'intervista e il suo braccio si posò sul mio: «Mi raccomando», disse lui che una raccomandazione non l'aveva mai chiesta né ricevuta. «Non vorrei apparire rivendicativo. Io non mi lamento, lotto». Claudio Caligari se ne andò 10 anni fa, ma è come se in omaggio alla contraddizione che ne aveva guidato ogni metro, fosse ancora tra noi e al tempo stesso non ci fosse mai stato. Troppo incisivo, feroce e breve da dimenticare, il suo segno. Troppo diverso dal suo tempo e dai suoi simili per avere anche uno straccio di riconoscimento, il regista che aveva girato tre soli film in 67 anni di vita. Caligari era quello da lasciare fuori dalla porta: «Ci sono quelli che devono lavorare per forza e poi ci sono tutti gli altri, quelli a cui si può dire "la prossima volta". Ho sempre fatto parte della seconda categoria». Claudio l'inclassificabile, il difficile, l'eretico che nel 1983, al Festival di Venezia, aveva portato Amore Tossico. Qualche anno prima, nel 1976, Caligari era andato a Milano per indagare sui sogni e soprattutto sugli incubi del proletariato giovanile. E al professor Guido Blumir, reduce dal successo di un libro sulla droga, aveva proposto di pensare a una storia per il cinema che senza sinistre apologie, ma anche senza moralismi, non si limitasse a descrivere paternalisticamente il flagello dell'eroina, ma ragionasse sul perché la gente si bucava con l'illusione di approdare all'eden. Un punto di vista onesto e originale che aveva spinto uno dei padri dell'operazione, Marco Ferreri, incline a vedere il futuro a tinte nere come Leonard Cohen, all'auspicio benevolo. Speso il suo centesimo d'ottimismo - «Questo film farà tantissimi soldi» - Ferreri si scoprì più povero. Dopo una conferenza stampa lagunare tratta da una pagina di Hunter S. Thompson - il casinò non era a Las Vegas, ma sono dettagli - in cui lo stesso Ferreri, lanciò un cappello in aria, sbaragliò una fila di sedie e in piena pugna dialettica con Tatti Sanguineti lo accarezzò a modo suo: «Non sei un regista, sei uno stronzo e non capisci un cazzo», il film, proprio come molti protagonisti di quella storia, morì. Costato pochissimo e portato a termine in condizioni disperate, Amore Tossico uscì in 15 sale e fu travolto dall'oblio, dai debiti della produzione, dagli interventi della magistratura, dal generalizzato timore che tutta quella libertà espressiva sventolata da un esordiente, in fondo, fosse un magro affare. «"Questo sa comunicare, è pericoloso", ecco cosa dicevano di me», ricordava Caligari che con il passato aveva fatto i conti. «Fuggi in America», gli avevano consigliato gli amici «non ti perdoneranno mai». Caligari, un muro, ma anche un mulo per coerenza e dignità, preferì evitare la fuga e proprio come Mia Martini, divenne prigioniero delle cattiverie, dell'ostracismo e della pigrizia. Il suo nome non veniva mai in mente a nessuno se non alle persone sbagliate. Incontrò produttori in rovina: «Gente che in ufficio aveva in bella vista il plastico della stazione di New York e si gloriava di aver vinto l'appalto per la ristrutturazione e poche settimane dopo mi chiedeva di lasciargli il pacchetto di sigarette», promesse tradite, rimpianti: «Sarebbe stato meglio girare una cazzata, una storiella leggera, non avrei avuto problemi». Sul suo ultimo set, con i fratelli Mastandrea e Borghi, Claudio stava per morire, ma sorrideva. Poi, per paura di darlo a vedere, tornava severo. «Se gli dicevi "ti voglio bene"», ricordava Marco Giallini, «eri morto». Hanno ammazzato Claudio, Claudio è vivo.

N.d.r. I brani sopra riportati sono a firma di Malcom Pagani e sono stati pubblicati sul settimanale “d” del quotidiano “la Republica” rispettivamente l’otto ed il primo di febbraio dell’anno 2025.

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