“Michele Schirru, Padria, 19 di ottobre dell’anno 1899 – Roma, 29 di maggio dell’anno 1931”.“L’uomo che voleva uccidere Mussolini”, testo - dalla prefazione di Giancarlo De Cataldo al volume “Vita e morte di Michele Schirru” (Laterza, 1983) di Giuseppe Fiori - pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 16 di febbraio 2025: «Ai primi di quest'anno venni in Europa col solo scopo di incontrare questo boia, e ricordargli che la libertà è ancora più viva che mai, che ancora riscalda il cuore dei ribelli e li spinge al sacrificio, e che non è ancora spenta la buona e vecchia razza degli anarchici che sanno vendicare le crudeltà e torture inflitte ai loro compagni». Prima di partire per la missione che si è prefisso - uccidere Benito Mussolini -, Michele Schirru redige un testamento politico-esistenziale nel quale offre l'interpretazione autentica dell'attentato che ha in animo di compiere. È un'aperta rivendicazione del regicidio come strumento di lotta politica, e, prima ancora, di liberazione del popolo oppresso dal tiranno. L'enfasi che Schirru pone sul «gesto» è, certo, l'evidente espressione di quella fede anarchica che della teoria del gesto ha fatto quasi una mistica. Ma nelle sue parole echeggia, con singolare continuità, una diversa, ancorché per molti aspetti affine, tradizione: quella mazziniana. Le stesse parole usate da Schirru non avrebbero sfigurato in quel passo delle sue memorie in cui Giuseppe Mazzini rievoca i (falliti) attentati a Carlo Alberto e al duca di Modena. L'episodio è noto. Un ardimentoso giovane si presenta al Maestro, in quel momento esule, e gli chiede un'arma per giustiziare il traditore Carlo Alberto, reo di aver dapprima illuso i patrioti con la promessa di un sostegno alle rivendicazioni costituzionali, e poi di averli traditi, rendendosi complice di arresti, condanne, esecuzioni capitali. Mazzini sostiene di aver tentato in ogni modo di dissuadere il giovane, un adepto della Giovine Italia: «Obiettai, come ho fatto sempre in simili casi; discussi, misi innanzi tutto ciò che poteva smuoverlo». Ma l'aspirante martire è irremovibile: «Mi disse che da quando erano cominciate le proscrizioni, egli aveva deciso di vendicare il sangue de' suoi fratelli e d'insegnare ai tiranni una volta per sempre, che la colpa era seguita dall'espiazione […]». Mazzini, a questo punto, dice di essersi convinto che il giovane era uno di quei rari eroi che vengono al mondo «per insegnare ai despoti che sta in mano d'un uomo solo il termine della loro potenza». Per Mazzini, il pugnale è un simbolo religioso. Schirru è, più che laico, miscredente, al punto da rompere i rapporti con un fratello prete. Ma la corrispondenza fra il messianesimo mazziniano e l'autoritratto-confessione dell'anarchico è impressionante. Sin dal 1923 pensa che per eliminare la tirannia occorra liberarsi del tiranno: «in tutti i tempi», aggiunge, «la libertà calpestata dai tiranni ha trovato difensori arditi […] i vindici e gli eroi». Egli farà parte di questa eletta schiera. L'idea di Schirru è che la dittatura di oggi possa annegare nel sangue del dittatore, così come ieri la tirannia in quello del tiranno. Schirru arricchisce la sua personale «propaganda del fatto» con una notazione dalla quale trapela una certa, qual vena profetica. «Non contento del martirio inflitto a 40 milioni di italiani», scrive sempre nel testamento che verrà pubblicato su L'Adunata dei Refrattari, il periodico anarchico stampato negli Stati Uniti in lingua italiana, «fra poco, sempre per libidine di potere, d'accordo con la monarchia sabauda, razza di traditori e di codardi, e con la complicità di tutti gli altri fascismi d'Europa, Mussolini scatenerà su tutto l'umano genere il flagello sterminatore di una nuova guerra». Non c'è solo la volontà di punire il dittatore per le trascorse nequizie, dunque, ma anche quella di prevenire, con la sua uccisione, la prevedibile, ventura ecatombe: «Il mio gesto non sarà delitto, perché riparazione di crudeltà senza numero e prevenzione di stragi ancora maggiori». L'aria mazziniana che si respira nella vicenda umana di Schirru offre un ulteriore corollario. Il giovane ardimentoso che «convince» Mazzini a investirlo della missione regicida si chiama Antonio Gallenga. Dopo aver preparato minuziosamente il «colpo», si tira indietro all'ultimo momento. Espatriato, si fa una fama come scrittore, giornalista e storico del Risorgimento. Col tempo, diventerà alquanto di destra, un entusiasta di casa Savoia: Neanche Schirru riuscirà nel suo intento. E passerà alla storia come il primo attentatore giustiziato senza aver nemmeno tentato di attentare. Michele Luigi Schirru nasce a Padria il 19 ottobre 1899. La sua è una famiglia relativamente agiata. Un fratello prete, s'è detto, e una sorella tanto pia e devota da definire Michele «un tristo eroe». Il ragazzo ha quattordici anni quando il padre emigra a New York. E a questo punto scopre l'anarchia, anzi, per dirla con la sorella, «quei maledetti maestri dell'anarchia, rifiuti della umana società, (…) assassini di moltissime anime giovanili». In realtà, la prima fede è il socialismo. A differenza di altri grandi socialisti, allo scoppio della Grande Guerra è interventista. Nella terribile mattanza, si forma una coscienza politica più concreta, scopre le differenze di classe, si avvicina all'anarchia deluso dall'attendismo dei socialisti. Viene arrestato più volte. Poi torna in Sardegna, e all'età di ventuno anni, il 2 novembre del 1920, «si sveglia davanti all'isoletta di Bedloe, nella baia di New York. Suoni intubati di sirene, l'aria vibra come dei muggiti d'una mandria portuale. Gli giganteggia sopra una statua. Ha la faccia rassicurante. Raffigura la Libertà». L'America in quegli anni è preda della fobia dei «rossi». Nel novembre del'19 la polizia procede a una spettacolare deportazione di massa. Sono arrestati comunisti, anarchici, wobblies, cioè lavoratori dei sindacati radicali. «In una notte "di accanimento e di ferocia" sequestrano migliaia di immigrati spesso incolpevoli trascinandoli in prigione». Scatta un'immediata equiparazione fra sovversivo e immigrato. Gli italiani sono woops, corruzione americana di «guappo», sono il lato oscuro dei vecchi scolpiti nella pietra che di lì a poco racconterà John Fante, sono malandrini macchiati di «Chianti, cattolicesimo e crimine». Due di loro, il pugliese Nicola Sacco, e il piemontese Bartolomeo Vanzetti, vengono arrestati per una rapina con omicidio che negheranno tenacemente di aver commesso. Continueranno a negare anche sulla sedia elettrica dove saranno spediti dopo un interminabile processo-farsa che suscita lo sdegno di mezzo mondo. Il giovane Schirru non può immaginare che Nicola&Bart vivranno per sempre, nella musica immortale di Ennio Morricone, nel film di Montaldo, nella memoria di generazioni e generazioni. Ma la consapevolezza di aver assistito a uno snodo storico irreversibile è totale. Anche se ha due figli piccoli e una moglie, Minnie, che adora, l'attività politica esercita un richiamo irresistibile. L'ambiente degli italiani d'America è anch'esso frazionato in due nazioni: ci sono i combattenti dell’Adunata e del Martello, e i filofascisti, aggregati dal Progresso italo-americano di Generoso Pope. Già. I fascisti. Come combatterli? Prima di decidersi alla «politica del pugnale», Michele oscilla a lungo. Finché - come scriverà nel passo già evidenziato del testamento - con lo scoccare del fatidico 1930 si decide al gran passo. Parte per l'Europa. Ultima tappa: Roma. Il progetto: l'attentato a Mussolini. L'opposizione italiana all'estero è lacerata. Ci sono due strade, insomma. Il lavoro, meglio lavorio politico, e il Gesto. L'eredità mazziniana è forte, non solo per Michele. Se i comunisti restano ostili al tirannicidio, se pesa ancora il giudizio impietoso di Marx - Mazzini è un vecchio asino reazionario -, il gruppo di Giustizia e Libertà propende apertamente per l'azione. Sono nomi che passeranno alla Storia: Parri, i fratelli Rosselli, Bauer, Tarchiani, Cianca, lo stesso Pacciardi. E, naturalmente, Emilio Lussu. Dell'incontro fra i due Giuseppe Fiori scrive anche ne Il cavaliere dei Rossomori, la sua biografia di Lussu. Michele è alto, occhi chiari, capelli lisci e castani. Se non fosse per l'accento, insopprimibile, lo diresti piuttosto un italiano del Nord che un isolano. Lussu ha una buona impressione del giovane. «Quella faccia chiara [...] gli ispira fiducia». Schirru è già determinato ad agire, Lussu viene messo a conoscenza del progetto. Il supporto logistico di GL è innegabile: lo rivendicherà, anni dopo, l'ambasciatore Tarchiani. Il 2 gennaio 1931 Michele parte per l'Italia. Ricorda Lussu: «Lì alla Gare de Lyon, salutandolo dal marciapiede sotto la vettura, dissi arrivederci, e gli sorridevo. Anche lui sorrideva, ma triste. Rispose: no, non arrivederci. Addio. Soltanto questo disse, e sollevò il vetro del finestrino». Con sé, Michele ha una Walter calibro 38 e due bombe caricate a cheddite. Si sistema all'hotel Royal, in via XX Settembre. A Roma, Michele, che non ha evidentemente la più pallida idea di come si organizzi «tecnicamente» un attentato, non riesce nemmeno ad avvicinare Mussolini. Passano due settimane di pazienti ricognizioni, appostamenti, falsi avvistamenti. Michele scrive lettere nelle quali esprime la propria frustrazione per quello che intravede come il fallimento radicale del piano. Comincia a frequentare un dancing. Conosce Anna Lukovszky, ballerina ungherese, giovane, non alta, rossa, grandi occhi blu, viso pallido spruzzato di lentiggini. È amore a prima vista. Lo consumano nella discrezione dell'hotel Colonna di via Due Macelli. Ed è lì che il 3 febbraio 1931 un maresciallo del commissariato Trevi chiede di lui. Sulle prime, Michele ostenta calma, esibisce il passaporto americano - dopo tutto, è un cittadino a stelle e strisce. Non ha messo in conto l'efficienza della polizia politica del regime. Sanno già di lui, da tempo. L'ambiente dei fuoriusciti pullula di spie. C'è chi si vende per debiti di gioco e chi perché tiene famiglia. Riconosciuto, mette mano alla pistola. Ferito, viene ricoverato in ospedale e, ovviamente, arrestato. Mentre le polemiche imperversano, Schirru viene processato. La versione ufficiale è che era pronto a fare una strage, e ha tentato di uccidere i poliziotti che lo stavano arrestando, rimanendo ferito. La realtà è che ha cercato, senza riuscirci, di suicidarsi: per la vergogna di un fallimento indecoroso, per aver speso i soldi della causa al tabarin, perché, in cuor suo, aveva deciso di desistere. Il processo abbandona i toni di commedia e la Storia torna a farsi tragedia. L'udienza si apre davanti al tribunale speciale che Mussolini ha voluto per comminare punizioni esemplari agli oppositori del regime. Ha dovuto farlo perché non poteva fidarsi di una magistratura in gran parte di origine liberale, tanto da liquidare la fuga di Turati con uno scappellotto al Pertini di turno. Presiede la corte il feroce giudice Cristini. Il tema giuridico è complesso. Anche se l'attentato non presuppone la riuscita, non è necessario che il bersaglio sia attinto, basta provarci perché il reato operi, ma è difficile, se non impossibile, sostenere che Michele ci abbia provato. Aveva, questo sì, l'intenzione. Ma si era arrestato ben di qua dalla soglia della punibilità. Ne è consapevole il pm, fascista, certo, ma anche giurista: con gli elementi di cui disponiamo, spiega a Cristini, al massimo potranno strappare un risicato ergastolo, in nessun caso la pena di morte. Risultato: il pm viene sostituito. Michele, anche se reca ancora i postumi del tentato suicidio, si difende con grande dignità. Ecco il vero riscatto. Non volevo più farlo, dice, perché era diventato troppo difficile. Del resto, non avrei mai gettato la bomba in mezzo alla gente. Sono un regicida, non un terrorista. Parole al vento. La condanna a morte, mediante fucilazione alla schiena, viene eseguita poche ore dopo il verdetto. (...). Mussolini affida l'esecuzione a un plotone di ventiquattro volontari sardi. È uno sberleffo atroce. Ma di loro non serbiamo memoria. Di Michele Schirru, grazie al sardo Fiori, sì.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
mercoledì 19 febbraio 2025
Lastoriasiamonoi. 33 “Michele Schirru”.
“Michele Schirru, Padria, 19 di ottobre dell’anno 1899 – Roma, 29 di maggio dell’anno 1931”.“L’uomo che voleva uccidere Mussolini”, testo - dalla prefazione di Giancarlo De Cataldo al volume “Vita e morte di Michele Schirru” (Laterza, 1983) di Giuseppe Fiori - pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 16 di febbraio 2025: «Ai primi di quest'anno venni in Europa col solo scopo di incontrare questo boia, e ricordargli che la libertà è ancora più viva che mai, che ancora riscalda il cuore dei ribelli e li spinge al sacrificio, e che non è ancora spenta la buona e vecchia razza degli anarchici che sanno vendicare le crudeltà e torture inflitte ai loro compagni». Prima di partire per la missione che si è prefisso - uccidere Benito Mussolini -, Michele Schirru redige un testamento politico-esistenziale nel quale offre l'interpretazione autentica dell'attentato che ha in animo di compiere. È un'aperta rivendicazione del regicidio come strumento di lotta politica, e, prima ancora, di liberazione del popolo oppresso dal tiranno. L'enfasi che Schirru pone sul «gesto» è, certo, l'evidente espressione di quella fede anarchica che della teoria del gesto ha fatto quasi una mistica. Ma nelle sue parole echeggia, con singolare continuità, una diversa, ancorché per molti aspetti affine, tradizione: quella mazziniana. Le stesse parole usate da Schirru non avrebbero sfigurato in quel passo delle sue memorie in cui Giuseppe Mazzini rievoca i (falliti) attentati a Carlo Alberto e al duca di Modena. L'episodio è noto. Un ardimentoso giovane si presenta al Maestro, in quel momento esule, e gli chiede un'arma per giustiziare il traditore Carlo Alberto, reo di aver dapprima illuso i patrioti con la promessa di un sostegno alle rivendicazioni costituzionali, e poi di averli traditi, rendendosi complice di arresti, condanne, esecuzioni capitali. Mazzini sostiene di aver tentato in ogni modo di dissuadere il giovane, un adepto della Giovine Italia: «Obiettai, come ho fatto sempre in simili casi; discussi, misi innanzi tutto ciò che poteva smuoverlo». Ma l'aspirante martire è irremovibile: «Mi disse che da quando erano cominciate le proscrizioni, egli aveva deciso di vendicare il sangue de' suoi fratelli e d'insegnare ai tiranni una volta per sempre, che la colpa era seguita dall'espiazione […]». Mazzini, a questo punto, dice di essersi convinto che il giovane era uno di quei rari eroi che vengono al mondo «per insegnare ai despoti che sta in mano d'un uomo solo il termine della loro potenza». Per Mazzini, il pugnale è un simbolo religioso. Schirru è, più che laico, miscredente, al punto da rompere i rapporti con un fratello prete. Ma la corrispondenza fra il messianesimo mazziniano e l'autoritratto-confessione dell'anarchico è impressionante. Sin dal 1923 pensa che per eliminare la tirannia occorra liberarsi del tiranno: «in tutti i tempi», aggiunge, «la libertà calpestata dai tiranni ha trovato difensori arditi […] i vindici e gli eroi». Egli farà parte di questa eletta schiera. L'idea di Schirru è che la dittatura di oggi possa annegare nel sangue del dittatore, così come ieri la tirannia in quello del tiranno. Schirru arricchisce la sua personale «propaganda del fatto» con una notazione dalla quale trapela una certa, qual vena profetica. «Non contento del martirio inflitto a 40 milioni di italiani», scrive sempre nel testamento che verrà pubblicato su L'Adunata dei Refrattari, il periodico anarchico stampato negli Stati Uniti in lingua italiana, «fra poco, sempre per libidine di potere, d'accordo con la monarchia sabauda, razza di traditori e di codardi, e con la complicità di tutti gli altri fascismi d'Europa, Mussolini scatenerà su tutto l'umano genere il flagello sterminatore di una nuova guerra». Non c'è solo la volontà di punire il dittatore per le trascorse nequizie, dunque, ma anche quella di prevenire, con la sua uccisione, la prevedibile, ventura ecatombe: «Il mio gesto non sarà delitto, perché riparazione di crudeltà senza numero e prevenzione di stragi ancora maggiori». L'aria mazziniana che si respira nella vicenda umana di Schirru offre un ulteriore corollario. Il giovane ardimentoso che «convince» Mazzini a investirlo della missione regicida si chiama Antonio Gallenga. Dopo aver preparato minuziosamente il «colpo», si tira indietro all'ultimo momento. Espatriato, si fa una fama come scrittore, giornalista e storico del Risorgimento. Col tempo, diventerà alquanto di destra, un entusiasta di casa Savoia: Neanche Schirru riuscirà nel suo intento. E passerà alla storia come il primo attentatore giustiziato senza aver nemmeno tentato di attentare. Michele Luigi Schirru nasce a Padria il 19 ottobre 1899. La sua è una famiglia relativamente agiata. Un fratello prete, s'è detto, e una sorella tanto pia e devota da definire Michele «un tristo eroe». Il ragazzo ha quattordici anni quando il padre emigra a New York. E a questo punto scopre l'anarchia, anzi, per dirla con la sorella, «quei maledetti maestri dell'anarchia, rifiuti della umana società, (…) assassini di moltissime anime giovanili». In realtà, la prima fede è il socialismo. A differenza di altri grandi socialisti, allo scoppio della Grande Guerra è interventista. Nella terribile mattanza, si forma una coscienza politica più concreta, scopre le differenze di classe, si avvicina all'anarchia deluso dall'attendismo dei socialisti. Viene arrestato più volte. Poi torna in Sardegna, e all'età di ventuno anni, il 2 novembre del 1920, «si sveglia davanti all'isoletta di Bedloe, nella baia di New York. Suoni intubati di sirene, l'aria vibra come dei muggiti d'una mandria portuale. Gli giganteggia sopra una statua. Ha la faccia rassicurante. Raffigura la Libertà». L'America in quegli anni è preda della fobia dei «rossi». Nel novembre del'19 la polizia procede a una spettacolare deportazione di massa. Sono arrestati comunisti, anarchici, wobblies, cioè lavoratori dei sindacati radicali. «In una notte "di accanimento e di ferocia" sequestrano migliaia di immigrati spesso incolpevoli trascinandoli in prigione». Scatta un'immediata equiparazione fra sovversivo e immigrato. Gli italiani sono woops, corruzione americana di «guappo», sono il lato oscuro dei vecchi scolpiti nella pietra che di lì a poco racconterà John Fante, sono malandrini macchiati di «Chianti, cattolicesimo e crimine». Due di loro, il pugliese Nicola Sacco, e il piemontese Bartolomeo Vanzetti, vengono arrestati per una rapina con omicidio che negheranno tenacemente di aver commesso. Continueranno a negare anche sulla sedia elettrica dove saranno spediti dopo un interminabile processo-farsa che suscita lo sdegno di mezzo mondo. Il giovane Schirru non può immaginare che Nicola&Bart vivranno per sempre, nella musica immortale di Ennio Morricone, nel film di Montaldo, nella memoria di generazioni e generazioni. Ma la consapevolezza di aver assistito a uno snodo storico irreversibile è totale. Anche se ha due figli piccoli e una moglie, Minnie, che adora, l'attività politica esercita un richiamo irresistibile. L'ambiente degli italiani d'America è anch'esso frazionato in due nazioni: ci sono i combattenti dell’Adunata e del Martello, e i filofascisti, aggregati dal Progresso italo-americano di Generoso Pope. Già. I fascisti. Come combatterli? Prima di decidersi alla «politica del pugnale», Michele oscilla a lungo. Finché - come scriverà nel passo già evidenziato del testamento - con lo scoccare del fatidico 1930 si decide al gran passo. Parte per l'Europa. Ultima tappa: Roma. Il progetto: l'attentato a Mussolini. L'opposizione italiana all'estero è lacerata. Ci sono due strade, insomma. Il lavoro, meglio lavorio politico, e il Gesto. L'eredità mazziniana è forte, non solo per Michele. Se i comunisti restano ostili al tirannicidio, se pesa ancora il giudizio impietoso di Marx - Mazzini è un vecchio asino reazionario -, il gruppo di Giustizia e Libertà propende apertamente per l'azione. Sono nomi che passeranno alla Storia: Parri, i fratelli Rosselli, Bauer, Tarchiani, Cianca, lo stesso Pacciardi. E, naturalmente, Emilio Lussu. Dell'incontro fra i due Giuseppe Fiori scrive anche ne Il cavaliere dei Rossomori, la sua biografia di Lussu. Michele è alto, occhi chiari, capelli lisci e castani. Se non fosse per l'accento, insopprimibile, lo diresti piuttosto un italiano del Nord che un isolano. Lussu ha una buona impressione del giovane. «Quella faccia chiara [...] gli ispira fiducia». Schirru è già determinato ad agire, Lussu viene messo a conoscenza del progetto. Il supporto logistico di GL è innegabile: lo rivendicherà, anni dopo, l'ambasciatore Tarchiani. Il 2 gennaio 1931 Michele parte per l'Italia. Ricorda Lussu: «Lì alla Gare de Lyon, salutandolo dal marciapiede sotto la vettura, dissi arrivederci, e gli sorridevo. Anche lui sorrideva, ma triste. Rispose: no, non arrivederci. Addio. Soltanto questo disse, e sollevò il vetro del finestrino». Con sé, Michele ha una Walter calibro 38 e due bombe caricate a cheddite. Si sistema all'hotel Royal, in via XX Settembre. A Roma, Michele, che non ha evidentemente la più pallida idea di come si organizzi «tecnicamente» un attentato, non riesce nemmeno ad avvicinare Mussolini. Passano due settimane di pazienti ricognizioni, appostamenti, falsi avvistamenti. Michele scrive lettere nelle quali esprime la propria frustrazione per quello che intravede come il fallimento radicale del piano. Comincia a frequentare un dancing. Conosce Anna Lukovszky, ballerina ungherese, giovane, non alta, rossa, grandi occhi blu, viso pallido spruzzato di lentiggini. È amore a prima vista. Lo consumano nella discrezione dell'hotel Colonna di via Due Macelli. Ed è lì che il 3 febbraio 1931 un maresciallo del commissariato Trevi chiede di lui. Sulle prime, Michele ostenta calma, esibisce il passaporto americano - dopo tutto, è un cittadino a stelle e strisce. Non ha messo in conto l'efficienza della polizia politica del regime. Sanno già di lui, da tempo. L'ambiente dei fuoriusciti pullula di spie. C'è chi si vende per debiti di gioco e chi perché tiene famiglia. Riconosciuto, mette mano alla pistola. Ferito, viene ricoverato in ospedale e, ovviamente, arrestato. Mentre le polemiche imperversano, Schirru viene processato. La versione ufficiale è che era pronto a fare una strage, e ha tentato di uccidere i poliziotti che lo stavano arrestando, rimanendo ferito. La realtà è che ha cercato, senza riuscirci, di suicidarsi: per la vergogna di un fallimento indecoroso, per aver speso i soldi della causa al tabarin, perché, in cuor suo, aveva deciso di desistere. Il processo abbandona i toni di commedia e la Storia torna a farsi tragedia. L'udienza si apre davanti al tribunale speciale che Mussolini ha voluto per comminare punizioni esemplari agli oppositori del regime. Ha dovuto farlo perché non poteva fidarsi di una magistratura in gran parte di origine liberale, tanto da liquidare la fuga di Turati con uno scappellotto al Pertini di turno. Presiede la corte il feroce giudice Cristini. Il tema giuridico è complesso. Anche se l'attentato non presuppone la riuscita, non è necessario che il bersaglio sia attinto, basta provarci perché il reato operi, ma è difficile, se non impossibile, sostenere che Michele ci abbia provato. Aveva, questo sì, l'intenzione. Ma si era arrestato ben di qua dalla soglia della punibilità. Ne è consapevole il pm, fascista, certo, ma anche giurista: con gli elementi di cui disponiamo, spiega a Cristini, al massimo potranno strappare un risicato ergastolo, in nessun caso la pena di morte. Risultato: il pm viene sostituito. Michele, anche se reca ancora i postumi del tentato suicidio, si difende con grande dignità. Ecco il vero riscatto. Non volevo più farlo, dice, perché era diventato troppo difficile. Del resto, non avrei mai gettato la bomba in mezzo alla gente. Sono un regicida, non un terrorista. Parole al vento. La condanna a morte, mediante fucilazione alla schiena, viene eseguita poche ore dopo il verdetto. (...). Mussolini affida l'esecuzione a un plotone di ventiquattro volontari sardi. È uno sberleffo atroce. Ma di loro non serbiamo memoria. Di Michele Schirru, grazie al sardo Fiori, sì.
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