
“Storied’Acqua”. 9“Scendere al fiume diventò inutile”: Prima dell'acquedotto c'era il fiume.
Lo chiamavamo il fiume, anche se, soprattutto d'estate, era poco più che un ruscelletto,
un rigagnolo che scorreva tra i sassi alla fine della terra rossa e dura, crepata
dal sole. Al fiume quando ero bambina mi ci portava mio padre, all'alba quando
il cielo era ancora buio. Mia madre non voleva che andassi, diceva che ora che
i miei fratelli erano partiti per lavorare mio padre poteva anche andarci da
solo, ma lui rispondeva che anche io dovevo imparare a cavarmela se lui non ci
fosse stato più. All'epoca tutti sapevano che l'acquedotto sarebbe arrivato, si
sapeva anche dove erano gli scavi per i tubi e i ponti, ma lui non ci pensava.
Così uscivamo in quel tempo che non esiste, quando l'alba è ancora blu e il
freddo sembra una presenza fisica che devi spostare in avanti per camminare,
che ti preme sul viso e fa piangere. Mio padre non parlava mai dentro casa, e
non parlava nemmeno quando andavamo giù per i campi. Camminava sei passi
davanti a me con in mano un bastone che usava per appoggiarsi e per scacciare i
cani, ma nella mia testa anche per scacciare il freddo. Nell'altra mano teneva
i secchi, e io portavo il mio prendendolo a calci con la punta delle scarpe,
fino a quando mio padre si girava e mi diceva con lo sguardo di farla finita.
Anche quella mattina di febbraio stavamo zitti, io buttavo fuori le mie
nuvolette di fumo dalla bocca e davo i calci al secchio aspettando che lui si
girasse per farmi smettere, ma non si girò. Al fiume ci fermavamo sempre nello stesso
punto, dove dei sassi generavano una cascatella che rendeva più semplice
riempire i secchi. Altri come noi stavano un po' più a valle o poco più su, e
ognuno aveva il suo posto. Qualche volta ci facevamo un segno di saluto, ma
quella mattina mio padre non salutò nessuno. Riempì i secchi, li poggiò a
terra. Quello era il momento che preferivo. Restavamo fermi qualche minuto
prima di ripartire, mio padre immobile a guardare il fiume, e io vicino a lui.
Pensavo che quel tempo passato a guardare l'acqua dovesse essere molto
importante. Poi papà si voltava verso il sentiero, metteva i secchi ai lati del
bastone e il bastone di traverso sulle spalle, e ripartivamo verso casa. Io mi
affrettavo a prendere il mio secchio e per tutta la strada del ritorno cercavo
di far cadere meno gocce possibile, camminando attenta a dove mettevo i piedi.
Quella mattina invece mio padre, prima di tornare, si piegò per parlarmi. Ero
talmente sorpresa che feci un salto all'indietro. Questo posto è importante, ce
lo siamo conquistato. Non te lo far portare via mai, che è il migliore per
prendere l'acqua. Parlò lentamente, come si addice a chi parla poco. Poi si
avviò. Forse perché quella frase mi aveva allarmata, notai che ansimava e
camminava più piano. Si ammalò il giorno dopo, e rimase a letto lamentandosi
per tutte le mattine successive. In quel mese feci vedere a mia madre la strada
per arrivare al posto migliore per prendere l'acqua, e mi sentivo molto
importante perché sapevo una cosa che lei non sapeva, e quando provò ad accostarsi
al fiume in punto diverso le dissi che non lo poteva fare, e lei fece come
dicevo io. Ai primi di marzo attaccarono le tubature dentro casa, quando
giravamo la manopola del rubinetto usciva l'acqua limpida, quanta ne volevamo.
Non c'era più bisogno di scendere al fiume. Corsi a dirlo a mio padre che era
ancora nel suo letto. Lui annuì in un modo impercettibile. Morì il giorno dopo,
come se si sentisse libero di andare, ora che c'erano le tubature. Oggi che ho
quasi cento anni, due cose faccio che nessuno capisce. Quando entro in una
casa, per prima cosa apro un rubinetto e guardo il flusso scorrere, e poi,
d'estate, quando torno a trascorrere qualche mese nella casa dove sono
cresciuta, trascino tutti, figli e nipoti, in quello che per loro è un punto
qualunque della campagna, dove scorre solo un rigagnolo sotto il sole di
agosto. Perché quello è il posto migliore dove prendere l'acqua.
“Storied’Acqua”. 10 “Che vita è senza l’amore degli
altri”: Marilù ma che sei andata
a fare a Mergellina di notte? Che ti è venuto in mente? Mi hanno chiamato che dormivo ancora. Il telefono suonava ma io non ci pensavo. Una notte brutta, piena di terrori. Avevo fatto un brutto sogno, ma di tutto
quello che ho visto e sognato, non era rimasto niente. Ma so di avere pianto.
Dovevi essere per forza tu. Ti ho sentita finire e ho aperto gli occhi stanco.
Addolorato. La mattina in cui ti hanno trovata sono rimasto a letto, fermo ad
aspettare che le gambe si riscaldassero. Sai che a volte non funzionano bene,
no? La nuova ragazza che mi aiuta per le cose di casa era già in cucina.
Sentivo pentole, bicchieri, e ancora quel telefono che squillava, più
fastidioso di un citofono. Natalina Cristo in croce! E rispondi! Lei allora si
asciuga le mani, prende il telefono e si mette in ascolto. Poi caccia un grido
secco, che ha il suono dello scherzo di un bambino. Dalla mia stanza vedevo
tutto. Natalina sfocata e tutta disfatta, che si succhia le dita per
disperazione. Signor Gianni, piagnucola dal corridoio. Mi dispiace! Per che
cosa? Per la ragazza. Sua nipote. E io gli urlo, che dici, Natalina? Levati le
mani di bocca e parla! La polizia? E da me che vuole la polizia? Sì sono il
nonno. Mia figlia Lina è una disgraziata. Sì è la madre, a quest'ora lavora. Sì
la ragazza è mia nipote, ma il cognome è senza accento. Allora? Che succede? È
successo che sua nipote si è ammazzata. Ha preso qualcosa e si è annegata nella
fontana della sirena qui a Mergellina. Tra tutti i posti in cui potevi
deciderti morta, dovevi proprio scegliere la nostra fontana preferita. Quante
volte ti ho raccontato la storia di Partenope e tu lasciavi sempre cadere metà
della tua granita al limone? Te la ricordi Marilù? Ti ricordi che Partenope era
bella e brava, ma riusciva ad essere felice solo quando i marinai le dicevano
che era brava? E che tu facevi lo stesso con i compiti, le poesie, la musica e
i balli? Eri contenta solo quando ti dicevo che eri brava. Proprio non riuscivi
a vivere senza l'amore degli altri. E forse io che ti ho visto nascere, la
sentivo questa cosa. E mi spaventava. Mi ricordo che alla recita tua madre era
l'unica che non applaudiva mai, e tu mi chiedevi sempre, perché mamma non mi
vuole bene? E allora mi arrabbiavo tanto con Lina. La rimproveravo. Le dicevo, perché non dai
soddisfazioni a questa bambina? Perché non la prendi in braccio? Perché non le
fai capire che va bene già così com'è? Napoli poteva nascere solo da un grande
desiderio d'amore. Sta città che nasce da una morta suicida, sta città che
combatte per l'amore e l'approvazione di chi non la vuole e non la può sentire.
Sta città non capita. Sta città che per il suo sciocco orgoglio figlio della
fame d'amore si suicida. Proprio come Partenope. Proprio come te. Non era colpa
tua se tua madre non ti ha voluta. Lina era come Ulisse. Si costringeva, ma ti
vedeva. Ti ha sempre vista. Ma purtroppo l'amore è una staffetta. È un comandamento
che certe volte i Padri non sanno tramandare alle figlie. Questa tua
sottrazione piena di grazia mette il sale in ogni mia ferita. Se potessi
tornare indietro e amare mia figlia Lina come ho amato te, oggi sarebbe una
madre e io, di nuovo Padre.
N.d.r. I testi sopra riportati sono rispettivamente
degli scrittori Nicola Ravera Rafele – ha partecipato alla selezione dei
finalisti del premio “Strega” dell’anno 2018 – e di Djarah Kan – nata a Santa
Maria Capua Vetere – e sono stati pubblicati sul periodico “Green&Blue” del
quotidiano “la Repubblica” dell’undici di dicembre 2024.
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