"Storied'Acqua". 8 “La grotta e l’anima di un bambino”: Le scale strette, scavate nella roccia, che portavano Grotta della Monaca erano buie e sporche, niente che facesse presagire il momento dell'immersione, quando dalla penombra della cavità ci si ritrovava immersi nell'acqua azzurrissima, attraversata dai raggi di sole che penetravano dal mare aperto. Fuori dalla grotta il caldo era secco, senza un alito di vento, il mare immobile. Qualcosa si mosse sul fondale: fra le diverse tonalità di marrone, verde e nero dello scoglio, un movimento lasciava intuire uno schema animale. Mi avvicinai con un paio di rapide pinnate e lo misi a fuoco: era un polpo e anche piuttosto grosso. Feci un cenno a mio padre e lui si immerse a coltello, il fucile ben disteso davanti a sé. Il polpo intuì l'avvicinarsi di una minaccia e, come un lenzuolo animato da uno spirito invisibile, si mosse rapido verso il bordo dello scoglio. Il suo movimento era affascinante, si comprimeva e si espandeva come un'onda di energia e s'infilò rapido sotto uno spuntone dello scoglio. Sentii il sibilo pneumatico dello sparo e poi da dietro lo scoglio vidi le estremità dei tentacoli, spalancati a raggiera. Una piccola nuvola nera, ma era troppo poco e troppo tardi. Mio padre tirò il cordino della fiocina quel tanto che bastava per fare emergere il polpo dall'inchiostro, poi lo finì con il coltello. Un polpo ferito poteva attaccarsi al braccio e sott'acqua era pericoloso. Avvinghiato all'asta il polpo era immobile, le propaggini dei tentacoli sventolavano appena, animate soltanto dalla corrente della risalita. Quand'ero bambino, mio padre, seduto sulla pietra viva della grotta, estraeva il coltello a fine pesca e con la punta della lama mi insegnava l'anatomia dei pesci: le branchie, la vescica natatoria, talvolta compiva le sezioni necessarie alla spiegazione del momento. Da un lato quell'indugiare sui pesci morti mi faceva impressione, dall'altro non potevo negare che ci fosse qualcosa di attraente in quegli insegnamenti. Attorno ai dieci anni d'età, con uno dei tiri semplici che aveva incominciato a concedermi, avevo colpito di taglio una piccola orata che pascolava ignara sulla sabbia. L'avevo presa solo di striscio con il rostro esterno della fiocina, ma era stato sufficiente per asportargli l'organo responsabile dell'equilibrio. Si mise a nuotare ossessivamente in tondo, incapace di uscire dal cerchio che stava tracciando sulla sabbia. Mi fece pena e nei giorni successivi quella scena mi diede da pensare: eravamo davvero niente di più che la somma delle nostre parti? Cosa sarebbe rimasto di una persona togliendogli una parte del cervello? Una volta fuori dalla grotta, alla luce accecante del sole, condivisi i miei dubbi con mio padre. "È così" rispose, "rispetto agli animali però gli uomini hanno in più l'anima". "Sì, ma dove sarebbe l'anima?". "L'anima è ovunque e da nessuna parte, quindi non si può perdere, non si può menomare". Ci pensai un po' su. "Se non è da nessuna parte vuol dire che non c'è, che discorsi". In quel momento volevo parlare con l'uomo di scienza e lui invece se ne usciva con l'anima. Nutrivo grande fiducia in lui quando si trattava di spiegare il mondo e che cercasse di propinarmi una favoletta del genere lo trovai fastidioso. ''Vedrai" aggiunse solo, poi mi ignorò. Non era la prima volta che ci scontravamo sull'argomento, sosteneva, anzi, che già a quattro anni d'età avevo mandato all'aria i suoi tentativi di insegnarmi a memoria il Padre Nostro, chiedendogli: "E come ci è andato nei cieli? Con l'aereo?" L'aneddoto finiva sempre con mio padre che si metteva a sogghignare e pronunciava un "ma vaffanculo!" rivolto al me di quattro anni. Gli brillavano gli occhi, però.
N.d.r. I testi sopra riportati sono rispettivamente degli scrittori Lorenzo Marone – napoletano – e di Daniele Rielli – di Bolzano – e sono stati pubblicati sul periodico “Green&Blue” del quotidiano “la Repubblica” dell’undici di dicembre 2024.
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