"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 8 febbraio 2025

MadreTerra. 36 Lorenzo Marone: «Odisseo non pescò più con la sua rete, i pesci da allora gli furono amici e il mare, in un'alba buia da miliardi di stelle, s'aprì per accoglierlo. Odisseo si fece pesce, e con la sua Partenope visse lunghi secoli d'amore sotto l'isola di Capri».


"Storied'Acqua". 7 “Storia di un albatro Odisseo e Partenope”: Un grande albatro volteggiava da giorni sul monte Solaro, da più parti dell'isola lo avevano avvistato, un ricamo bianco nel cielo azzurro. Nessuno sapeva la verità, nessuno avrebbe mai potuto credervi, perché il magnifico uccello era un antico aedo, cantore e poeta, e veniva da lontanissimo, di là dall'orizzonte, da un mondo remoto, per un anniversario secolare, per raccontare ai popoli del mare, del cielo e della terra, una storia nata sull'isola di Capri chissà quando. Sotto tempeste e temporali aveva volato il vecchio albatro, per fare quel che sapeva fare, cantare d'amore e di virtù. E ora veleggiava tra piccole nuvolette bianche - gli sbuffi di noia di Eolo, - attendendo che il grande popolo tutto si riunisse a piedi dello Scoglio delle sirene, a Marina piccola. L'isola era un brulicare di persone che salivano e scendevano per le viuzze al pari delle formiche, portando allegria e caos: ma il vecchio aedo non si preoccupava di loro, non più; c'era stato un tempo, invece, nel quale il popolo invisibile aveva tentato invano di risvegliare gli uomini, ma quel tempo era lontano, solo il ricordo di un fallimento. Dal cielo giungevano rapide le rondini in picchiata, tra le correnti qualcuno avvistò l'elegante falco pellegrino, ma venivano giù anche i seri gabbiani, posandosi sulla punta della roccia. Dalla terra giungevano i tassi, abbandonavano i lecci gli scoiattoli, per l'ascolto i merli cercavano i rami più alti, lì dove s'annidavano gli scontrosi barbagianni. Su un corbezzolo si posò un solitario pettirosso guardandosi attorno curioso, il verso di un allocco si librò nell'aria da una ginestra a picco sul mare. Per l'occasione giunse anche - e salì un mormorio tra i presenti - la lucertola dei Faraglioni, che strisciò lapidaria tra il lentischio e il mirto, sfregiando d'azzurro la terra. Dall'acqua emersero a frotte cernie, saraghi, cefali e totani, dall'orizzonte punteggiato d'arancio arrivarono fluttuando i delfini. L'aedo, soddisfatto, scese tra gli scogli, scuoté il piumaggio e scrutò i presenti: solo il canto delle cicale riempiva l'aria, anche Eolo aveva smesso di soffiare. Le acque blu erano immobili, riflettevano il profilo della costa e si spegnevano con una nuvola di fumo sulla ghiaia. L'aedo schiarì la voce e attaccò a cantare dell'amore di Odisseo, il pescatore che un giorno lontano finì per prendere nella sua rete la sirena Partenope, abitante di quelle acque incantate. Lei lo pregò di lasciarla libera, in cambio avrebbe cantato per lui ogni notte, e lui acconsentì. E così, notte dopo notte, i due s'innamorarono, Odisseo non pescò più con la sua rete, i pesci da allora gli furono amici e il mare, in un'alba buia da miliardi di stelle, s'aprì per accoglierlo. Odisseo si fece pesce, e con la sua Partenope visse lunghi secoli d'amore sotto l'isola di Capri, finché, ormai vecchi, i due si presentarono al cospetto del grande Poseidone chiedendo d'essere per sempre vicini, per sempre insieme. Il dio del mare li tramutò allora in scogli, Eolo nel tempo li modellò, e oggi Odisseo e Partenope svettano ai piedi di Capri, l'uno accanto all'altra. Gli umani li chiamano stoltamente Faraglioni, perché di Odisseo e Partenope nulla ricordano, sanno solo di Tore, così lo chiamavano, che faceva all'amore sul gozzo con la sua bella nelle notti di una piena. Terminata la cantica, l'aedo s'alzò in volo, l'insenatura pian piano si andò spopolando, rimase solo qualche granchio innamorato, le acque ripresero mareggiare. In attesa di un nuovo raduno, di un'altra storia da raccontare, da tramandare.

"Storied'Acqua". 8 “La grotta e l’anima di un bambino”: Le scale strette, scavate nella roccia, che portavano Grotta della Monaca erano buie e sporche, niente che facesse presagire il momento dell'immersione, quando dalla penombra della cavità ci si ritrovava immersi nell'acqua azzurrissima, attraversata dai raggi di sole che penetravano dal mare aperto. Fuori dalla grotta il caldo era secco, senza un alito di vento, il mare immobile. Qualcosa si mosse sul fondale: fra le diverse tonalità di marrone, verde e nero dello scoglio, un movimento lasciava intuire uno schema animale. Mi avvicinai con un paio di rapide pinnate e lo misi a fuoco: era un polpo e anche piuttosto grosso. Feci un cenno a mio padre e lui si immerse a coltello, il fucile ben disteso davanti a sé. Il polpo intuì l'avvicinarsi di una minaccia e, come un lenzuolo animato da uno spirito invisibile, si mosse rapido verso il bordo dello scoglio. Il suo movimento era affascinante, si comprimeva e si espandeva come un'onda di energia e s'infilò rapido sotto uno spuntone dello scoglio. Sentii il sibilo pneumatico dello sparo e poi da dietro lo scoglio vidi le estremità dei tentacoli, spalancati a raggiera. Una piccola nuvola nera, ma era troppo poco e troppo tardi. Mio padre tirò il cordino della fiocina quel tanto che bastava per fare emergere il polpo dall'inchiostro, poi lo finì con il coltello. Un polpo ferito poteva attaccarsi al braccio e sott'acqua era pericoloso. Avvinghiato all'asta il polpo era immobile, le propaggini dei tentacoli sventolavano appena, animate soltanto dalla corrente della risalita. Quand'ero bambino, mio padre, seduto sulla pietra viva della grotta, estraeva il coltello a fine pesca e con la punta della lama mi insegnava l'anatomia dei pesci: le branchie, la vescica natatoria, talvolta compiva le sezioni necessarie alla spiegazione del momento. Da un lato quell'indugiare sui pesci morti mi faceva impressione, dall'altro non potevo negare che ci fosse qualcosa di attraente in quegli insegnamenti. Attorno ai dieci anni d'età, con uno dei tiri semplici che aveva incominciato a concedermi, avevo colpito di taglio una piccola orata che pascolava ignara sulla sabbia. L'avevo presa solo di striscio con il rostro esterno della fiocina, ma era stato sufficiente per asportargli l'organo responsabile dell'equilibrio. Si mise a nuotare ossessivamente in tondo, incapace di uscire dal cerchio che stava tracciando sulla sabbia. Mi fece pena e nei giorni successivi quella scena mi diede da pensare: eravamo davvero niente di più che la somma delle nostre parti? Cosa sarebbe rimasto di una persona togliendogli una parte del cervello? Una volta fuori dalla grotta, alla luce accecante del sole, condivisi i miei dubbi con mio padre. "È così" rispose, "rispetto agli animali però gli uomini hanno in più l'anima". "Sì, ma dove sarebbe l'anima?". "L'anima è ovunque e da nessuna parte, quindi non si può perdere, non si può menomare". Ci pensai un po' su. "Se non è da nessuna parte vuol dire che non c'è, che discorsi". In quel momento volevo parlare con l'uomo di scienza e lui invece se ne usciva con l'anima. Nutrivo grande fiducia in lui quando si trattava di spiegare il mondo e che cercasse di propinarmi una favoletta del genere lo trovai fastidioso. ''Vedrai" aggiunse solo, poi mi ignorò. Non era la prima volta che ci scontravamo sull'argomento, sosteneva, anzi, che già a quattro anni d'età avevo mandato all'aria i suoi tentativi di insegnarmi a memoria il Padre Nostro, chiedendogli: "E come ci è andato nei cieli? Con l'aereo?" L'aneddoto finiva sempre con mio padre che si metteva a sogghignare e pronunciava un "ma vaffanculo!" rivolto al me di quattro anni. Gli brillavano gli occhi, però.

N.d.r. I testi sopra riportati sono rispettivamente degli scrittori Lorenzo Marone – napoletano – e di Daniele Rielli – di Bolzano – e sono stati pubblicati sul periodico “Green&Blue” del quotidiano “la Repubblica” dell’undici di dicembre 2024.

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