"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 20 febbraio 2025

Lastoriasiamonoi. 34 Adolf Hitler: «Per entrargli dentro addosso inestricabilmente e non uscirne più ti servono poche pochissime parole che scavino come gocce: sempre uguali, sempre identiche, sempre uguali. Vuote, prosciugate di qualunque minimo spessore che non sia il loro ripetersi ossessivo».

 


Se volete capire cosa sta succedendo alle democrazie occidentali, andate a vedere Mein Kampf di Stefano Massini. Lungo i magistrali 85 minuti in cui tiene inchiodato il pubblico, Massini non parla mai di oggi. Ogni parola che egli pronuncia si riferisce a fatti che precedono il 1919: sì, quelle che di seguito citerò tra virgolette sono tutte di Adolf Hitler. Attraverso brani del Mein Kampf e di altre fonti dirette, Hitler racconta le sue frustrazioni e aspirazioni, la sua lettura del mondo e la volontà di sottometterlo. Ne esce uno spiazzante autoritratto del dittatore da giovane: non si vede ancora una svastica, non si parla della Shoah, della guerra. Se ne vede però l'antefatto, la radice, l'inizio. A Vienna, un Hitler diciannovenne conosce la sofferenza della classe lavoratrice, e la descrive con accenti così solidali da far correre un brivido sulla schiena del pubblico, che lì si scopre d'accordo col 'mostro': "Laddove chiunque avrebbe chiuso gli occhi per pietà o per disprezzo, io viceversa gli occhi mi imposi di aprirli, e vedevo tutto: lo sforzo infame dei facchini, le schiene piegate delle lavandaie, l’inchino - mento a terra - dei lustrascarpe, calli alle mani dei falegnami, ustioni al polso dei fabbri, tagli verticali sulle gambe degli stagnai, ulcere rosse fino al sangue di chi mescola la calce... ". Non meno empatia si prova di fronte alla condanna dei benestanti: "Garantiti nella vostra più che ovvia sopravvivenza pasciuti di pranzi a più portate, sprofondati nei palchetti dei teatri, come bambini vi si illuminano gli occhi alla gioia dell'acquisto". Commiserando questo popolo, diviso per condizione, ma accomunato da un'identica incapacità di mutare destino, il giovane Hitler ha l'intuizione: "Vi manca una guida... Vi manca un Fiihrer". E poi un'altra: in mancanza di soluzioni, la soluzione è inventare un nemico. Chi? Il diverso, l'altro, l'ebreo: "Lui mi appare all'angolo destro della strada, mi è del tutto indifferente, non avrei alcuna ragione per notarlo, se non fosse che adesso lui avanza nella mia direzione, lentamente, nel centro esatto della strada: e si ferma a pochi passi da me. Le sue scarpe. Il suo caftano. La valigia. L'ampio cappello scuro, tipico della sua... razza". Lui, e gli altri 'diversi' come lui (saranno poi, lo sappiamo, neri, zingari, omosessuali, comunisti...): "A futura memoria riporto la lista dei nemici, prova inoppugnabile di quanto grave sia la cancrena". Sono questi nemici a perseguitare i bianchi, vittime di un complotto internazionale, una sostituzione etnica: "Parliamo di come ti hanno tolto la voce? Di come ti hanno soffocato in ogni minima ambizione?... Hai dovuto ripiegare scendendo al contrario la scala, gradino dopo gradino... e tu stai zitto? Stai zitto. Tolleri". Il mondo al contrario: le vittime sono i bianchi, i normali'! Gridiamolo, 'prima noi!': basta subire! Hitler capisce che paura e rabbia sono la chiave: "C'è una forza straordinaria nella disperazione. Un combustile perfetto, annidato nel petto di chiunque". C'è bisogno di "uno chiamato a comandare ben oltre la melassa stantia dei parlamenti, con le loro liturgie''. Non si chiamava 'premierato: ma lo scopo ero lo stesso: far fuori "i parlamenti: così inutilmente lenti, così tardivi, soporiferi, inconcludenti". E il capo, ovviamente, è l'underdog Adolf: "Uno come me, che non sono l'erede di chissà quale dinastia. Non verso liquore francese in calici di cristallo, non ho un posto d'onore da cui salutare ossequiosamente i notabili in vista della città". Un underdog fortissimo nella comunicazione, lontano dalle complessità incomprensibili delle sinistre: "Per entrargli dentro addosso inestricabilmente e non uscirne più ti servono poche pochissime parole che scavino come gocce: sempre uguali, sempre identiche, sempre uguali. Vuote, prosciugate di qualunque minimo spessore che non sia il loro ripetersi ossessivo". Parole che indichino "dov'è il bene, dov'è il male, dov'è il pericolo". Parole che non parlano all'intelligenza, ma alla pancia: "Non è la loro testa che devi conquistare - dice Adolf a sé stesso - non è lì che puoi farli innamorare. Nel petto, nello stomaco, nelle viscere, dove l'istinto regna " incontrastato. La tua rabbia, che è la mia, il tuo orgoglio, la tua paura, la tua frustrazione, il dolore, la sconfitta che ho vissuto come te anch'io". Alla fine, si esce sconvolti: perché noi le conosciamo, le ascoltiamo tutti i giorni, queste parole. Sono quelle dei Trump, Milei, Orbàn, Salvini, Meloni, Vannacci: dopo un secolo, la retorica con cui l'estrema destra arriva al potere è esattamente la stessa. E sono le stesse anche le colpe di noi benestanti, che ascoltiamo tutto questo ancora sprofondati nei palchi di un teatro. Anche chi è convinto che lo sviluppo della storia sarà completamente diverso, dovrebbe interrogarsi sul fatto che l'inizio è dimostrabilmente, terrificantemente, identico. Possiamo scegliere di non vederlo: ma è tutto lì, in quegli 85 minuti. (Tratto da «L’indergog Hitler: la “pancia” e quegli inizi così simili a oggi» di Tomaso Montanari pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 18 di novembre dell’anno 2024).

OggiComeIeriL’altro”. “La resurrezione di un tiranno”, testo di Marco Mondini pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, mercoledì 19 di febbraio 2025: «Ci vorrà tempo, ma presto o tardi avremo la maggioranza. E poi la Germania». Sostiene nelle sue memorie Kurt Lüdecke, zelante nazista della prima ora, che Adolf Hitler lo abbia affermato in un giorno della primavera 1924. Era confinato in una cella del carcere di Landsberg, ma non parlava affatto come uno sconfitto. Eppure, avrebbe dovuto. Lo sgangherato tentativo di colpo di stato dell’anno prima a Monaco (il «putsch della birreria») era naufragato nel ridicolo. Erano bastate alcune fucilate della polizia per disperdere la sua variopinta truppa di duemila scalmanati e porre fine al tentativo di rovesciare la Repubblica di Weimar. Il partito nazionalsocialista era stato messo al bando, i giornali radicali chiusi, Hitler stesso era stato catturato ed era finito sotto processo per alto tradimento. Ma lì, nell’aula di tribunale in cui avrebbe dovuto trovare la sua morte politica, davanti a una folla di giornalisti, il futuro Führer mise in scena la più geniale opera teatrale della sua vita. Si presentò con le medaglie al valore sul petto. Rivendicò il suo gesto come un atto di amore per la vera nazione tedesca, quella dei veterani delle trincee. Insultò la democrazia e i suoi governanti socialisti e cattolici, traditori e meschini, che si erano arresi nel 1918 e ora pensavano solo a conti pubblici e pensioni. Negò alla corte il diritto di giudicarlo («perché la storia mi assolverà»). Invocò un Reich di nuovo grande, per il quale valeva la pena morire. E sedusse tutti, cronisti e giudici. Come ha scritto Brendan Simms in “Hitler. Solo il mondo era abbastanza”, grazie alla sua superba recitazione trasformò la disfatta in un trionfo mediatico. In tribunale era entrato un imputato relativamente sconosciuto, uno dei tanti esagitati di estrema destra che schiamazzavano nell’Europa di quegli anni. Ne uscì un divo. Condannato a cinque anni, venne scarcerato sulla parola dopo appena qualche mese, riverito come un patriota e un martire. Non sorprende che il 27 febbraio del 1925, quando entrò nella Bürgerbräukeller, la stessa birreria da cui era partito per tentare la rivoluzione a mano armata, migliaia di seguaci lo abbiano acclamato come il messia tornato per guidarli. Grazie alla sua fama, e alla promessa di non fomentare più disordini, Hitler aveva ottenuto dalle autorità il permesso di ricostituire il Partito nazista. Ne divenne il padrone assoluto e iniziò la sua marcia verso il potere.

Quella sera, molte camicie brune rimasero incredule quando il loro ipnotico condottiero ordinò di accantonare (momentaneamente) le armi. Non con pistole e bombe a mano avrebbero conquistato il paese, ma legalmente, con i voti degli elettori. Entrando in parlamento e svuotando la democrazia dall’interno. Alle elezioni del 1930, dopo che la Grande Depressione aveva seminato rabbia e disperazione, oltre sei milioni di tedeschi gli diedero ragione. Nel 1932 furono quattordici milioni a sceglierlo. «Germania svegliati!» urlavano i manifesti della propaganda nazista. Hitler aveva offerto all’elettorato un nemico a cui addossare ogni colpa: la democrazia liberale. Con i suoi dibattiti troppo lenti, i suoi deboli governi ostaggio dei partiti, i suoi poteri forti in combutta con il capitalismo e il giudaismo internazionali per spegnere la fiamma dello spirito germanico. E molti che avevano fino ad allora avuto la tessera dei socialdemocratici o del Centro democristiano si convinsero che solo lui, l’ex ribelle, avrebbe potuto risollevarli dalla povertà e dalle umiliazioni. Nel gennaio 1933 Adolf Hitler, leader della formazione di maggioranza relativa, diventava cancelliere. Ci aveva messo otto anni a realizzare la sua profezia. In compenso, gli bastarono pochi mesi per smantellare la repubblica, a colpi di leggi votate dal parlamento prima ancora che con la violenza dei suoi squadristi. L’Europa tra le due guerre mondiali era un mondo cupo in cui la violenza era l’ingrediente naturale della lotta politica, e qualsiasi analogia troppo semplicistica con l’oggi sarebbe fuorviante. Eppure, la resurrezione di Hitler fu il frutto di una combinazione di fattori estremamente, e inquietantemente, attuali. Lo spregiudicato uso di mass media compiacenti per inquinare il dibattito pubblico attraverso la sistematica deformazione della realtà. Un esasperato culto della personalità orchestrato attraverso il Mein Kampf, l’autobiografia concepita in carcere (e ampiamente inventata) in cui Hitler emergeva come eroe predestinato a riportare grandezza e orgoglio ai tedeschi. E le debolezze della stessa dirigenza di Weimar, i cui vertici avevano finito per convincersi che, dopo il disastro del 1923, l’arresto dei suoi sostenitori e la galera, quello strambo caporale austriaco non rappresentasse più una minaccia credibile. Ha scritto Ian Kershaw, il suo principale biografo, che, se le porte della cella non gli fossero state aperte così presto, la storia di Hitler avrebbe preso certamente un’altra strada. Forse i capi politici e la magistratura, a Monaco e Berlino, credevano che lasciandolo in carcere avrebbero finito per trasformarlo in una vittima, rendendolo ancora più popolare. Forse pensavano sinceramente che il pericolo fosse passato e la repubblica ormai così solida da non temere più alcun assalto. Qualunque sia stato il motivo, il suicidio di Weimar fu una buona dimostrazione di cosa succede quando la democrazia abbassa la guardia e si sente al sicuro da ogni minaccia. A cento anni di distanza, è un monito ancora valido.

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