
Se volete capire cosa sta succedendo alle democrazie
occidentali, andate a vedere Mein Kampf di Stefano Massini. Lungo i magistrali
85 minuti in cui tiene inchiodato il pubblico, Massini non parla mai di oggi.
Ogni parola che egli pronuncia si riferisce a fatti che precedono il 1919: sì,
quelle che di seguito citerò tra virgolette sono tutte di Adolf Hitler.
Attraverso brani del Mein Kampf e di altre fonti dirette, Hitler racconta le sue
frustrazioni e aspirazioni, la sua lettura del mondo e la volontà di
sottometterlo. Ne esce uno spiazzante autoritratto del dittatore da giovane:
non si vede ancora una svastica, non si parla della Shoah, della guerra. Se ne
vede però l'antefatto, la radice, l'inizio. A Vienna, un Hitler diciannovenne
conosce la sofferenza della classe lavoratrice, e la descrive con accenti così
solidali da far correre un brivido sulla schiena del pubblico, che lì si scopre
d'accordo col 'mostro': "Laddove chiunque avrebbe chiuso gli occhi per
pietà o per disprezzo, io viceversa gli occhi mi imposi di aprirli, e vedevo
tutto: lo sforzo infame dei facchini, le schiene piegate delle lavandaie, l’inchino
- mento a terra - dei lustrascarpe, calli alle mani dei falegnami, ustioni al
polso dei fabbri, tagli verticali sulle gambe degli stagnai, ulcere rosse fino
al sangue di chi mescola la calce... ". Non meno empatia si prova di
fronte alla condanna dei benestanti: "Garantiti nella vostra più che ovvia
sopravvivenza pasciuti di pranzi a più portate, sprofondati nei palchetti dei
teatri, come bambini vi si illuminano gli occhi alla gioia dell'acquisto".
Commiserando questo popolo, diviso per condizione, ma accomunato da un'identica
incapacità di mutare destino, il giovane Hitler ha l'intuizione: "Vi manca
una guida... Vi manca un Fiihrer". E poi un'altra: in mancanza di
soluzioni, la soluzione è inventare un nemico. Chi? Il diverso, l'altro, l'ebreo:
"Lui mi appare all'angolo destro della strada, mi è del tutto
indifferente, non avrei alcuna ragione per notarlo, se non fosse che adesso lui
avanza nella mia direzione, lentamente, nel centro esatto della strada: e si
ferma a pochi passi da me. Le sue scarpe. Il suo caftano. La valigia. L'ampio
cappello scuro, tipico della sua... razza". Lui, e gli altri 'diversi'
come lui (saranno poi, lo sappiamo, neri, zingari, omosessuali, comunisti...):
"A futura memoria riporto la lista dei nemici, prova inoppugnabile di
quanto grave sia la cancrena". Sono questi nemici a perseguitare i
bianchi, vittime di un complotto internazionale, una sostituzione etnica:
"Parliamo di come ti hanno tolto la voce? Di come ti hanno soffocato in
ogni minima ambizione?... Hai dovuto ripiegare scendendo al contrario la scala,
gradino dopo gradino... e tu stai zitto? Stai zitto. Tolleri". Il mondo al
contrario: le vittime sono i bianchi, i normali'! Gridiamolo, 'prima noi!':
basta subire! Hitler capisce che paura e rabbia sono la chiave: "C'è una
forza straordinaria nella disperazione. Un combustile perfetto, annidato nel
petto di chiunque". C'è bisogno di "uno chiamato a comandare ben
oltre la melassa stantia dei parlamenti, con le loro liturgie''. Non si
chiamava 'premierato: ma lo scopo ero lo stesso: far fuori "i parlamenti:
così inutilmente lenti, così tardivi, soporiferi, inconcludenti". E il
capo, ovviamente, è l'underdog Adolf: "Uno come me, che non sono l'erede
di chissà quale dinastia. Non verso liquore francese in calici di cristallo,
non ho un posto d'onore da cui salutare ossequiosamente i notabili in vista
della città". Un underdog fortissimo nella comunicazione, lontano dalle
complessità incomprensibili delle sinistre: "Per entrargli dentro addosso
inestricabilmente e non uscirne più ti servono poche pochissime parole che
scavino come gocce: sempre uguali, sempre identiche, sempre uguali. Vuote,
prosciugate di qualunque minimo spessore che non sia il loro ripetersi ossessivo".
Parole che indichino "dov'è il bene, dov'è il male, dov'è il
pericolo". Parole che non parlano all'intelligenza, ma alla pancia:
"Non è la loro testa che devi conquistare - dice Adolf a sé stesso - non è
lì che puoi farli innamorare. Nel petto, nello stomaco, nelle viscere, dove
l'istinto regna " incontrastato. La tua rabbia, che è la mia, il tuo
orgoglio, la tua paura, la tua frustrazione, il dolore, la sconfitta che ho
vissuto come te anch'io". Alla fine, si esce sconvolti: perché noi le
conosciamo, le ascoltiamo tutti i giorni, queste parole. Sono quelle dei Trump,
Milei, Orbàn, Salvini, Meloni, Vannacci: dopo un secolo, la retorica con cui
l'estrema destra arriva al potere è esattamente la stessa. E sono le stesse
anche le colpe di noi benestanti, che ascoltiamo tutto questo ancora
sprofondati nei palchi di un teatro. Anche chi è convinto che lo sviluppo della
storia sarà completamente diverso, dovrebbe interrogarsi sul fatto che l'inizio
è dimostrabilmente, terrificantemente, identico. Possiamo scegliere di non
vederlo: ma è tutto lì, in quegli 85 minuti. (Tratto da «L’indergog
Hitler: la “pancia” e quegli inizi così simili a oggi» di
Tomaso Montanari pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 18 di novembre dell’anno
2024).
“OggiComeIeriL’altro”. “La resurrezione di un tiranno”, testo di Marco Mondini pubblicato
sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, mercoledì 19 di febbraio 2025: «Ci
vorrà tempo, ma presto o tardi avremo la maggioranza. E poi la Germania». Sostiene
nelle sue memorie Kurt Lüdecke, zelante nazista della prima ora, che Adolf
Hitler lo abbia affermato in un giorno della primavera 1924. Era confinato in
una cella del carcere di Landsberg, ma non parlava affatto come uno sconfitto.
Eppure, avrebbe dovuto. Lo sgangherato tentativo di colpo di stato dell’anno
prima a Monaco (il «putsch della birreria») era naufragato nel ridicolo. Erano
bastate alcune fucilate della polizia per disperdere la sua variopinta truppa
di duemila scalmanati e porre fine al tentativo di rovesciare la Repubblica di
Weimar. Il partito nazionalsocialista era stato messo al bando, i giornali
radicali chiusi, Hitler stesso era stato catturato ed era finito sotto processo
per alto tradimento. Ma lì, nell’aula di tribunale in cui avrebbe dovuto
trovare la sua morte politica, davanti a una folla di giornalisti, il futuro
Führer mise in scena la più geniale opera teatrale della sua vita. Si presentò
con le medaglie al valore sul petto. Rivendicò il suo gesto come un atto di
amore per la vera nazione tedesca, quella dei veterani delle trincee. Insultò
la democrazia e i suoi governanti socialisti e cattolici, traditori e meschini,
che si erano arresi nel 1918 e ora pensavano solo a conti pubblici e pensioni.
Negò alla corte il diritto di giudicarlo («perché la storia mi assolverà»).
Invocò un Reich di nuovo grande, per il quale valeva la pena morire. E sedusse
tutti, cronisti e giudici. Come ha scritto Brendan Simms in “Hitler. Solo il
mondo era abbastanza”, grazie alla sua superba recitazione trasformò la
disfatta in un trionfo mediatico. In tribunale era entrato un imputato
relativamente sconosciuto, uno dei tanti esagitati di estrema destra che
schiamazzavano nell’Europa di quegli anni. Ne uscì un divo. Condannato a cinque
anni, venne scarcerato sulla parola dopo appena qualche mese, riverito come un
patriota e un martire. Non sorprende che il 27 febbraio del 1925, quando entrò
nella Bürgerbräukeller, la stessa birreria da cui era partito per tentare la
rivoluzione a mano armata, migliaia di seguaci lo abbiano acclamato come il
messia tornato per guidarli. Grazie alla sua fama, e alla promessa di non
fomentare più disordini, Hitler aveva ottenuto dalle autorità il permesso di
ricostituire il Partito nazista. Ne divenne il padrone assoluto e iniziò la sua
marcia verso il potere.
Quella sera, molte camicie brune rimasero incredule
quando il loro ipnotico condottiero ordinò di accantonare (momentaneamente) le
armi. Non con pistole e bombe a mano avrebbero conquistato il paese, ma
legalmente, con i voti degli elettori. Entrando in parlamento e svuotando la
democrazia dall’interno. Alle elezioni del 1930, dopo che la Grande Depressione
aveva seminato rabbia e disperazione, oltre sei milioni di tedeschi gli diedero
ragione. Nel 1932 furono quattordici milioni a sceglierlo. «Germania
svegliati!» urlavano i manifesti della propaganda nazista. Hitler aveva offerto
all’elettorato un nemico a cui addossare ogni colpa: la democrazia liberale.
Con i suoi dibattiti troppo lenti, i suoi deboli governi ostaggio dei partiti,
i suoi poteri forti in combutta con il capitalismo e il giudaismo
internazionali per spegnere la fiamma dello spirito germanico. E molti che
avevano fino ad allora avuto la tessera dei socialdemocratici o del Centro
democristiano si convinsero che solo lui, l’ex ribelle, avrebbe potuto
risollevarli dalla povertà e dalle umiliazioni. Nel gennaio 1933 Adolf Hitler,
leader della formazione di maggioranza relativa, diventava cancelliere. Ci
aveva messo otto anni a realizzare la sua profezia. In compenso, gli bastarono
pochi mesi per smantellare la repubblica, a colpi di leggi votate dal
parlamento prima ancora che con la violenza dei suoi squadristi. L’Europa tra
le due guerre mondiali era un mondo cupo in cui la violenza era l’ingrediente
naturale della lotta politica, e qualsiasi analogia troppo semplicistica con
l’oggi sarebbe fuorviante. Eppure, la resurrezione di Hitler fu il frutto di
una combinazione di fattori estremamente, e inquietantemente, attuali. Lo
spregiudicato uso di mass media compiacenti per inquinare il dibattito pubblico
attraverso la sistematica deformazione della realtà. Un esasperato culto della personalità
orchestrato attraverso il Mein Kampf, l’autobiografia concepita in carcere (e
ampiamente inventata) in cui Hitler emergeva come eroe predestinato a riportare
grandezza e orgoglio ai tedeschi. E le debolezze della stessa dirigenza di
Weimar, i cui vertici avevano finito per convincersi che, dopo il disastro del
1923, l’arresto dei suoi sostenitori e la galera, quello strambo caporale
austriaco non rappresentasse più una minaccia credibile. Ha scritto Ian
Kershaw, il suo principale biografo, che, se le porte della cella non gli
fossero state aperte così presto, la storia di Hitler avrebbe preso certamente
un’altra strada. Forse i capi politici e la magistratura, a Monaco e Berlino,
credevano che lasciandolo in carcere avrebbero finito per trasformarlo in una
vittima, rendendolo ancora più popolare. Forse pensavano sinceramente che il
pericolo fosse passato e la repubblica ormai così solida da non temere più
alcun assalto. Qualunque sia stato il motivo, il suicidio di Weimar fu una
buona dimostrazione di cosa succede quando la democrazia abbassa la guardia e
si sente al sicuro da ogni minaccia. A cento anni di distanza, è un monito
ancora valido.
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