La risposta di Natalia Aspesi: La ringrazio per la sua lettera (…). La pubblico, pensando che ci sia gente molto più informata di me che possa darle ragione, o anche no. Conoscendo la sua storia alla grande meravigliosa Olivetti di Ivrea, qui racconta cose essenziali, per chi come me, non sa quasi nulla. Il suo scritto arriva in un momento che si è fatto all’improvviso tragico, soprattutto per Israele e il resto di quella parte del mondo. Riconfesso qui la mia ignoranza e cerco di capire la differenza che lei fa tra Olocausto e Shoah: l’Olocausto è il sacrificio di sé imposto alla vittima che lo rifiuta, la Shoah è quando l’uomo viene sacrificato per eliminarlo, per toglierlo dalla vita, come fecero i nazisti nei campi di concentramento. Quindi, “l’antisemitismo e l’Olocausto sono le due parole infondate di quanti hanno tradito i grandi valori dell’Ebraismo...”?
“Israele se questo è uno Stato”, intervista (dell’anno 1984) di Gad Lerner a Primo Levi riportata su “il Fatto Quotidiano” di oggi venerdì primo di dicembre 2023: (…). “Mi sono convinto che il ruolo d’Israele come centro unificatore dell’ebraismo adesso – sottolineo l’“adesso”– è in una fase di eclissi. Bisogna quindi che il baricentro dell’ebraismo si rovesci, torni fuori d’Israele, torni fra noi ebrei della Diaspora che abbiamo il compito di ricordare ai nostri amici israeliani il filone ebraico della tolleranza”.
Perché, dottor Levi? Forse avverte il ritorno del falco Sharon come una rottura, come una minaccia? “Non parlerei di rottura, non credo che ci troviamo di fronte a un’involuzione irreversibile. Del resto la degradazione della vita politica non è un fenomeno solo israeliano. L’offuscamento degli ideali lo si registra in tutto il mondo. D’accordo, c’è un peggioramento della qualità di Israele, ma non dimentichiamo che si tratta di un paese dotato di un’agilità anche intellettuale anomala, dove avviene in un anno quel che altrove avviene in dieci”.
Cosa la preoccupa, allora? Forse l’ascesa del rabbino Meir Kahane, quello che propugna l’espulsione dell’intera popolazione araba dalla Terra Promessa, quello che s’è fatto propaganda con uno spot televisivo in cui si vedono fiotti di sangue colare su una pietra di marmo? “Kahane è solo una scheggia impazzita, ne sono convinto. Se non sopraggiungono nuovi traumi, la sua forza politica è destinata a estinguersi. Mi si potrebbe obiettare: anche Hitler nel ’23 era solo una scheggia impazzita. Rispondo che a nessuno è dato prevedere il futuro, ma non vedo Israele sulla strada del fanatismo di Kahane. Andiamo, non è razzismo affermare che gli ebrei non sono tedeschi! Un paese per diventare razzista deve essere compatto, tendere a farsi blocco massiccio, uniforme, manovrabile (…)”.
Non è il diffondersi dell’intolleranza anti-araba, dunque, la fonte delle sue preoccupazioni? “Potrei risponderle che in tempi recenti Israele vive anche un fenomeno che purtroppo non fa notizia: sta compiendosi nelle università e negli ospedali un’integrazione vasta e profonda fra arabi ed ebrei israeliani (…). Il discorso è diverso per il milione e mezzo di palestinesi della Cisgiordania occupata”.
Appunto. Nel suo delirio il rabbino Kahane pone un problema che angustia molti israeliani: secondo gli attuali tassi di natalità, entro il Duemila gli arabi diventeranno maggioranza numerica (…). Sicché, dice Kahane, prima di quel giorno Israele dovrà cessare di essere una democrazia, per salvaguardare la sua identità ebraica. “Queste proiezioni demografiche sono molto discutibili, nessuno può fare profezie sensate al di là di cinque anni. Mi risulta ad esempio che il tasso di natalità degli ebrei israeliani è in aumento mentre decresce quello degli arabi israeliani. Assai diversa è la situazione della Cisgiordania, ciò che dovrebbe indurre i governanti israeliani a un rapido ritiro dai territori occupati (…)”.
Cos’è dunque che l’angoscia, dottor Levi? A cosa allude quando parla di degradazione della vita politica israeliana? “(…). Alludo soprattutto al fatto che prima delle elezioni sono state sposate tesi addirittura ripugnanti al solo scopo di guadagnare voti. Neanche questo accade solo in Israele, ma forse noi siamo male abituati. Siamo abituati a un Israele paese dei miracoli, all’Israele del ’48, del sionismo che coincide con una certa idea di socialismo. Adesso assistiamo a una degradazione che è un normalizzarsi. Israele sta diventando, purtroppo, un paese normale. In più, essendo un paese mediorientale, tende a diventare piuttosto simile alle altre nazioni di quella regione. Per esempio si può temere un contagio fra il khomeinismo islamico e il diffondersi dell’integralismo religioso in Israele, anche se in prospettiva non vedo le masse israeliane prosternarsi davanti a un nuovo ayatollah, sia esso Kahane o lo stesso Sharon”.
Non crede che essendo nati in maggioranza nel loro Stato, gli ebrei d’Israele sono ormai cambiati rispetto a quelli della Diaspora, abituati da sempre a sentirsi “minoranza” nel paese in cui vivono, plasmati dalla propria “diversità”? (…). “Questo è un futuro prevedibile. Credo che sta a noi, ebrei della Diaspora, combattere. Ricordare ai nostri amici israeliani che essere ebrei vuol dire un’altra cosa. Custodire gelosamente il filone ebraico della tolleranza. Certo, mi rendo conto di toccare così un punto cruciale, e cioè l’interrogativo: dov’è oggi il baricentro dell’ebraismo?”.
Almeno dal 1948 in poi le principali istituzioni sioniste non hanno dubbi: il baricentro è Israele. “No, ci ho meditato a lungo: il baricentro è nella Diaspora, torna a essere nella Diaspora. Io, ebreo diasporico, molto più italiano che ebreo, preferirei che il baricentro dell’ebraismo rimanesse fuori d’Israele”.
Questo potrebbe suonare come l’annuncio di un suo distacco dalla nazione israeliana così com’è cambiata. “Niente affatto, è lo sviluppo di un rapporto profondo e passionale. Solo credo che la corrente principale dell’ebraismo sia meglio preservata altrove che in Israele. La cultura ebraica stessa, specie quella ashkenazita, è più viva altrove, negli Stati Uniti per esempio, dov’è addirittura determinante”.
Da quel che dice, sembra che restare in Diaspora, cioè restare comunità minoritaria, sia quasi una condizione obbligatoria per perpetuare l’identità ebraica (…)? “Direi che il meglio della cultura ebraica è legato al fatto di essere dispersa, policentrica”.
Attribuendo agli ebrei della Diaspora il compito di educare gli israeliani ai valori dell’ebraismo, lei si tirerà addosso molte reazioni stizzite. Non era il contrario? Non era Israele a infondere forza e sicurezza in tutti gli ebrei del mondo? “Purtroppo si deve parlare di un rovesciamento. Alla fonte da cui traevano forza gli ebrei della Diaspora, oggi traggono motivi di riflessione e di travaglio. Per questo parlo di eclissi, spero momentanea, del ruolo d’Israele come centro unificatore dell’ebraismo. Noi dobbiamo appoggiare Israele, come ci chiedono anche le sue sedi diplomatiche, ma dobbiamo altresì fargli sentire il peso numerico, culturale, tradizionale, perfino economico della Diaspora. Abbiamo il potere e anche il dovere di influire in qualche misura sulla politica israeliana”.
In che direzione? “(…) Credo che vada sollecitato il ritiro dal Libano. Altrettanto urgente è bloccare i nuovi insediamenti ebraici nei territori occupati. Dopo di che, come già dicevo, va cautamente ma decisamente perseguito il ritiro dalla Cisgiordania e da Gaza (…)”.
Due anni fa, dopo l’invasione del Libano, lei diede vita insieme ad altri ebrei italiani a una protesta pubblica contro il governo israeliano. È l’indignazione, dunque, la molla che può unire gli ebrei della Diaspora? “Parliamo, più pacatamente, di disapprovazione. Sì, quella è una molla, anche se io ho sempre idealmente davanti a me l’israeliano che mi rimprovera “fai presto tu, ebreo italiano in poltrona, a decidere per noi!”. Eppure insisto. La storia della Diaspora è stata, sì, una storia di persecuzioni, ma è stata anche una storia di scambi e di rapporti interetnici, quindi una scuola di tolleranza (…)”.
È difficile, per uno che la pensa come lei, il rapporto con le istituzioni ebraiche e israeliane? “Parlerei di un rapporto affettuoso e polemico. Certo profondo. Perché io sono convinto che Israele va difeso, credo nella dolorosa necessità di un esercito efficiente. Ma sono convinto che anche al governo israeliano faccia bene confrontarsi con un nostro appoggio sempre condizionato”.
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