Ha scritto Enzo Bianchi in “Il tempo dell’attesa” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” dell’11 di dicembre 2023: (…). C’è stato un tempo, non certo il nostro, in cui si poteva rispondere alla domanda “chi è il cristiano?” con le parole “colui che aspetta Gesù Cristo, la sua venuta”. Abbiamo alle spalle più di due millenni di cristianesimo e lo dobbiamo confessare: la speranza e l’attesa dei primi cristiani che si sono sempre rinnovate nei secoli sono state tutte deluse. Cristo non torna, tutto va avanti come prima, il Regno di Dio non lo si vede e la promessa di giustizia, pace, salvezza sembra essere delusa, un bel sogno dell’umanità condannato a essere frustrato. Eppure in secoli diversi e in chiese diverse vediamo cristiani che per aspettare la venuta di Gesù Cristo vegliano durante la notte per essere pronti all’incontro con il loro Signore, ci sono stati cristiani che hanno consacrato la vita a una ricerca della sua presenza, all’ascolto della sua Parola, chiedendogli solo: vieni Signore. Questa è follia? No, è un desiderio custodito nel cuore e nel comportamento: ognuno di noi può essere il Regno di Dio annunciato da Gesù come veniente. (…). Ma la certezza della fede non toglie l’ansietà, la speranza disperata della ragione per la quale Gesù ritardi la sua promessa rendendo il nostro esilio da lui insopportabile. Forse abbiamo capito male e lui non ritorna. Ci sono uomini e donne che si consumano in questo desiderio.
“Non c’è pace cristiana senza lotta alla povertà”, testo di Antonio Spadaro – gesuita e teologo - pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, 21 di dicembre 2023: «Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a mettervi la pace, ma la spada». Così Gesù nel vangelo di Matteo (10,34). Si resta sconvolti a leggere queste parole così dirette e inequivocabili, e forse per questo dimenticate. Non hanno nulla di irenico. Ma è lo stesso Gesù che sempre in Matteo afferma un mandato etico fondamentale: «Beati quelli che si adoperano per la pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (5, 9). Forse è proprio in queste parole del Vangelo di Matteo che troviamo i due poli autenticamente cristiani della pace. E il tono più autentico delle beatitudini è quello che Pasolini ha voluto dare nella sua versione del Vangelo matteano: una beatitudine quasi rabbiosa. (…). Il messaggio di Gesù richiede scelte radicali e per questo può diventare motivo di contrasto e disaccordo: richiede la «spada», nel senso che richiede tagli e mette divisione persino all’interno delle famiglie: «sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell’uomo saranno quelli stessi di casa sua» (Matteo 10, 35-36). Il cristianesimo vive di una profezia che sa che il messaggio del «Principe della pace» non si compirà nella storia, e tuttavia è a quella profezia che occorre orientare l’azione mondana. Così nelle parole di Isaia, che capovolge il senso comune e stravolge le nostre più naturali e istintive paure, convertendole in controsenso: «Il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà. La vacca pascolerà con l’orsa, i loro piccoli si sdraieranno assieme, e il leone mangerà il foraggio come il bue. Il lattante giocherà sul nido della vipera, e il bambino svezzato stenderà la mano nella buca del serpente. Non si farà né male né danno su tutto il mio monte santo» (11,6-8). Gesù annuncia questo regno, che non è di questo mondo, ma inizia qui e ora, e consiste nell’abbattimento dei muri di separazione (Efesini 2, 14), dei compartimenti stagni, delle polarizzazioni rigide. L’immaginazione profetica coglie la dialettica degli opposti e li incarna nella natura animale che non perde la sua dimensione selvatica, ma desidera l’armonia degli istinti. Immaginare il leone che vive in compagnia di animali grassi o la vacca che pascola con l’orsa, o il lupo che vive nella stessa casa dell’agnello non è vagheggiare un mondo annichilito, esangue, privo di passioni e sdilinquito. Questo sarebbe un incubo, non una profezia. Nietzsche ne era stato inorridito. È invece sovvertire la capacità di capire il mondo, infrangere il logos comune, e anche il senso stesso della “casa” intesa come il luogo delle sicurezze domestiche. Bisogna allenarsi all’utopia per comprendere la forza della profezia di un mondo che lascia essere ciascuno quel che è senza ricorrere al male e al danno, alla morte e alla distruzione. Il senso della profezia ebraica che il cristianesimo ha assunto radicalmente è dato dal bambino che “gioca” con la vipera. Il desiderio di pace è quello che porta a tradurre l’aggressività nel gioco che diverte o fa godere senza distruggere l’altro: anzi si fonda sulla sua integrità. Come nel conflitto amoroso, ad esempio, o nell’agonismo. La “pax cristiana”, dunque, non è la stoica tranquillitas animi, anche se il cristianesimo spesso ne è stato affascinato. Essa richiede il “gioco” delle parti perché il conflitto è ineliminabile nella dinamica dei rapporti umani, e dunque anche in quelli internazionali. Anzi, la stessa pace «comporta una vera e propria lotta», (…). La pace non è mai perdita delle polarità e del contrasto, non è monotonia, assuefazione e remissività. E questo ha una ricaduta diretta nell’azione del cristiano nel mondo, che è sempre drammatica perché sa di vivere in uno scontro che non può essere fermato in quanto è dato costitutivo e ineliminabile della storia umana. Immaginare che la conflittualità possa essere eliminata da questo mondo è pretesa ideologica. Se non altro perché c’è la lotta tra il bene e il male che è in atto nelle dinamiche della storia. Bisogna invece andare alla base dei conflitti, comprenderne le radici, svelenirle, imparare a giocare. E questo richiede militanza, creatività, lotta, impegno. In un mondo dall’ordine sconvolto e dalle guerre che scoppiano come pezzi di un mosaico cubista che cosa può significare tutto questo? Il cristianesimo ha sempre saputo, ad esempio, che alla radice dei conflitti c’è l’ingiustizia. Per questo, ad esempio, le iniziative di “pace” devono essere sempre collegate ai due grandi temi sociali: la pace sociale e l’inclusione degli scartati. I conflitti armati hanno spesso in questi temi la loro radice ultima. (…). Il cristianesimo non intende proporre una “pace” che faccia calare il silenzio sulle ingiustizie e la difesa dei poveri. Una pace che non sorga come frutto dello sviluppo integrale di tutti, non avrà nemmeno futuro e sarà sempre seme di nuovi conflitti e di varie forme di violenza. E, anzi, per il cristianesimo la pace non è di per sé un obiettivo da raggiungere, ma soltanto il primo passo, la condizione dello sviluppo e del superamento delle ingiustizie. La pace non si fonda su un semplice desiderio di “ordine” sociale. Al contrario, nasce dal desiderio di risolvere le cause strutturali che generano esclusione e violenza. Solo così si guarisce da una malattia che rende fragile e indegna la società, e la lascia sempre sulla soglia di nuove crisi. Ed è ancora l’immaginazione profetica che ci guida al futuro con la sua potenza, lì quando dice dei popoli: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Is. 2, 1-5). Le lame, usate dal muscolo umano, restano tali e affilate tagliano, ma non più le tenere carni del nemico, ma la terra in modo che i semi generino frutto e prosperità per tutti.
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