"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 10 dicembre 2023

MadreTerra. 21 “Gli alberi & la sete”.


Alberi/Sete”. 1“Metteremo i cactus giganti in piazza Duomo?”, testo di Tiziano Fratus pubblicato sul periodico “Green&Blue” del 6 di dicembre 2023: È davanti agli occhi di tutti: l'ultimo temporale ha abbattuto il platano nel parco, il pino lungo il viale, l'olmo nella piazzetta, e sotto ci sono automobili accartocciate, motorini, panchine e giochi dei bambini, purtroppo, ogni tanto, persone. Amiamo gli alberi, li guardiamo, li ammiriamo, ci accompagnano nelle nostre esistenze complicate, ci donano l'ossigeno, purificano la nostra aria inquinata, ci proteggono dalla pioggia sottile, ci riparano dal cocente calore estivo. Quanto è poetica e invitante una passeggiata sotto un vialone alberato a tigli, magari a fine maggio, i primi di giugno, quando i fiori ricamano l'aria di quel delizioso profumo, o in autunno, quando le foglie a forma di cuore ondeggiano e danzano nell'aria per posarsi vicino ai nostri passi. Amiamo gli alberi, ne vorremmo sempre di più, parliamo addirittura di forestare le città, i centri, le periferie, le scuole, adottando boschi verticali e pareti vegetali. Eppure, ogni estate, la furia dei venti e delle piogge torrenziali li investe, li spezza, li sradica, causando dolore a loro e a noi. E dunque? Che faremo, uomini due volte sapienti (Homo Sapiens Sapiens) delle nostre città e delle nostre idee, dei nostri alberi che importiamo, anzi, deportiamo, nelle città per risolvere quei problemi che da soli, a quanto pare, non sembriamo in grado di affrontare? A Torino, a Roma, a Genova, a Milano, a Firenze, a Palermo, a Cagliari, a Bari, a Napoli, le estati si tropicalizzano, le tempeste si scatenano e gli alberi cadono. L'acqua sta diventando un bene scarsissimo, come dunque risolvere anche quel problema che riguarda i nostri alberi, non vivono di certo di sola pioggia, hanno bisogno di acqua, soprattutto nei primi anni di vita, quando vengono piantati o messi a dimora, nella terra dei nostri giardini, dei nostri parchi, lungo le strade. Li piantiamo, e non di rado li lasciamo soffrire e seccare. Che acqua portiamo loro se non ce ne sarà nemmeno per noi? Allora qualcuno si ingegna e pensa: basta individuare alberi che reclamano meno acqua, ma quali? Pini d'Aleppo? Ficus? Peri cinesi? Palme? A quando i cactus del deserto? Ve lo immaginate un bel vialone a Milano di euforbie, succulente e cactus giganti? Ma prima o poi, non noi, chi verrà, le generazioni future, magari in Piazza Duomo, o magari ai Montanelli. Sia chiaro: attualmente pensiamo che il mondo sia tutto diverso, che il cambiamento globale accelerato ci stia ponendo di fronte a sfide inedite, ma i cicloni, le trombe d'aria, i fortunali si abbattono nei cieli urbani da molto tempo, meno frequentemente rispetto ad oggi, ma accadeva. Ad esempio nel 1872, poco meno di cento anni dopo la creazione dei primi giardini e del boschetto aperti al pubblico, una tempesta sradicava diversi alberi a Porta Venezia. E così riportano le cronache dei quotidiani per quanto riguarda il 1929, il 1950, il 1957, il 1958, il 1975, il 1980, il 1993, il 2000, il 2008, il 2016. Nell'ottobre del 1964 Milano viene paralizzata dal passaggio dell'Uragano Brigida, nel settembre del 1967 da un "tornado", mentre la Brianza è colpita da una bufera nell'agosto del 1971 e un altro tornado devasta il mantovano nell'estate del 1977. Insomma di che cosa ci stupiamo? I venti forti, i temporali, gli alberi abbattuti e sradicati appartengono a quella che potremo definire una tradizione della città lombarda e della regione: purtroppo non abbiamo memoria, sembriamo abitare un presente che non supera emotivamente le poche stagioni. Ma gli alberi, che ci confortano, che ci aiutano, che ci sostengono e che abbracciamo, tutti commossi, qui, da noi, sono in pericolo non meno delle nostre piccole anime sbalestrate e li attende un destino quanto mai instabile.

Alberi/Sete”. 2 “Più lontano dell’ultima volta”, testo di Davide Longo pubblicato sullo stesso numero del periodico “Green&Blue”: Lo segue da due giorni. L’ha chiamato Casper, perché non sa che faccia abbia e perché la prima notte ha sognato suo nonno.  L'ultima cosa che aveva fatto con lui era stato vedere al cinema il film Casper. Il nonno si era lamentato perché il Casper degli anni '40, quello dei fumetti, era furbo mentre quello del film un babbeo. Due giorni dopo era morto per un colpo di calore nel parcheggio dove si era perso. Casper cammina di notte, fino a quando il cielo schiara, poi sosta al riparo di una roccia o cambia versante per portarsi all'ombra. Nelle ore più calde non si muove, ma nemmeno si nasconde o nasconde cosa porta con se. Lo può vedere con il binocolo mentre al crepuscolo accende il fuoco per bollire quanto gli servirà di notte. Sembrerebbe incauto e disarmato, come il Casper del film, ma potrebbe essere sveglio come quello dei fumetti: una sera, infatti, hanno sentito della musica provenire da una casa cantoniera e Casper, anche se non aveva la cera per tapparsi le orecchie, ha aggirato quelle sirene. Ha un turbante che gli copre la testa e la faccia. Non si può capire quanti anni ha, cosa guarda e cosa pensa. Per questo lo segue da giorni, cercando di intuire dov'è diretto. Se è diretto da qualche parte.

Oggi, quando il sole è sorto, Casper " non si è fermato. Segno che una meta ce l'ha e spera di arrivarci prima che la terra bruci e la sete diventi insopportabile. Infatti dopo un'ora la vede. E una casa a mezza montagna in cemento e ferro. Quando è stata costruita si poteva dire che deturpasse il bosco, ma oggi gli alberi sono spogli e il paesaggio si è adeguato a lei. La casa è a meno di un chilometro. Casper potrebbe arrivarci in quindici minuti, anche con il suo passo lento, il sacco pesante sulle spalle. Invece si ferma e al calare della luce accende un fuoco. Dalla casa qualcuno risponde: il comignolo fuma. Dentro c'è qualcuno che aspetta. Casper comincia a spegnere il falò con la terra. A parte la casa cantoniera, le sue mosse finora sono state stupide e casuali, da Casper del film. Ma potrebbe essere un tranello, avere un piano, un'arma da fuoco, mentre lui ha soltanto il coltello. Si avvicina cauto. Se vedesse una pistola potrebbe fingersi un viandante o fare marcia indietro. Casper però continua a buttare terra sul fuoco, dandogli le spalle. Non smette di guardare la casa nemmeno quando gli passa il coltello sotto il mento da destra a sinistra, con una pressione sufficiente ad aprire. Non una parola, un gemito. Cade in avanti, la testa nel piccolo cerchio di cenere tiepida. Potrebbe voltarlo a questo punto, vedere che faccia ha questo Casper del film, ma importa poco. Sa che un giorno troverà un Casper dei fumetti e allora la testa nella cenere sarà la sua. Deve accadere e accadrà, ma non oggi. Apre il sacco dove c'è la tanica da cinque litri piena per tre quarti. Svita il tappo e annusa. Non sente alcun odore, il che è un bene. La notte dopo entra in una casa isolata appena più decente di quella dove qualcuno attendeva Casper. - Sei tu, papà? - chiede la bambina, anche se l'ha già riconosciuto dall'odore. Un tempo si sarebbe detto cattivo odore ma, da quando non si lavano, non esistono più profumo e puzza, solo odori. Adesso capirebbero i cani, se non li avessero mangiati tutti. - Stai bene? - chiede lui. La bambina è seduta sul vecchio divano. - Sì - risponde. Lui tira le tende e accende la lampada. Ha imparato a muoversi al buio come lei, ma quello che deve fare è troppo delicato per lasciarlo al tatto. Usa la stufa che la bambina aveva acceso. Dalla tanica versa l'acqua nella pentola e la copre. Le tiene la mano nel buio fino a che non sentono bollire. Bevono. Lei a piccoli sorsi perché scotta. Lui in fretta, perché non beve da ventisei ore. - Avevo paura - dice la bambina - Sei dovuto andare così lontano per trovare una sorgente? - Sì - dice lui - più lontano dell'ultima volta.


 

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