“La Carta senza popolo”, testo di Michele Ainis pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, venerdì 29 di dicembre 2023: La Costituzione è uno specchio, vi si riflette l’identità d’un popolo. Sempre che ci sia, il popolo. E sempre che abbia un’identità comune, condivisa. Non è il nostro caso. (…). …c’è soprattutto l’ambizione d’iscrivere il proprio nome nella Carta del 1947, seguendo l’esempio di Xi Jinping, che dal 2017 campeggia nella Costituzione del Pcc. Ne è capofila Fabio Rampelli, deputato di Fratelli d’Italia, che chiede di costituzionalizzare Fratelli d’Italia, l’Inno di Mameli. Sulla sua scia i colleghi di Südtiroler Volkspartei, alfieri delle minoranze linguistiche: vogliono correggere la composizione della Corte costituzionale, affinché vi siano rappresentate le minoranze linguistiche (quelle riconosciute sono 12, per ospitarle tutte serviranno lavori edilizi alla Consulta). Mentre il romano Gasparri pretende un articolo su Roma capitale, e mentre il sardo Cappellacci propone che la Sardegna diventi zona franca, anche se in Italia le aree con un regime fiscale e doganale di vantaggio sono già 8, e fra queste c’è pure la Sardegna. Insomma: un popolo, mille bandiere. E altrettante categorie professionali, ciascuna delle quali reclama un posto al sole. A partire dagli avvocati, la pattuglia più nutrita in Parlamento: 114, quasi un quinto del totale. E infatti da Rossomando (Partito democratico), a Pittalis (Forza Italia), a Dori (Alleanza Rossoverde), tutti concordi: serve una norma sugli avvocati, nero su bianco nella Costituzione. Ma tutti d’accordo pure sull’idea di proteggere - con un’altra norma costituzionale - le vittime dei reati, benché in questi giorni l’argomento sia oggetto di polemiche fra maggioranza e opposizione. Eppure s’incontrano proposte d’analogo tenore da parte di Parrini, Giorgis, De Maria (Pd), Cirielli, Balboni, Iannone (FdI), Marton (M5S), Zanuella e De Cristofaro (Avs). Convergenze insospettabili, come d’altronde è già avvenuto rispetto a talune riforme timbrate a voti unanimi dal nostro Parlamento. Quella sulla tutela dell’ambiente (nel 2022), benché la Consulta ne riconoscesse il valore costituzionale fin dagli anni Ottanta. Quella sullo sport (nel 2023), firmata da monsieur de La Palice: l’attività ginnica fa bene alla salute. Da qui il trionfo dell’ovvio, da qui un corteo di ridondanze, di norme inutili o pleonastiche. I costituenti ne sarebbero rimasti sconcertati, loro che usarono la parsimonia per distillare le parole della Carta. Proteggendo con norme generali le categorie più deboli, senza bisogno d’elencarle una per una. Ma a spigolare fra i progetti dei ricostituenti, s’annega viceversa in un catalogo senza capo né coda. Così Dara (Lega) vuole tutelare l’identità digitale delle persone. Fede (M5S) chiede d’introdurre la tutela degli anziani, benché lo faccia già l’articolo 38. Gelmini (Azione) e Gusmeroli (Lega) si concentrano sui diritti dei contribuenti. Basso (Pd) sui diritti dei consumatori. Cataldi (M5S) desidera una norma costituzionale contro lo «sfruttamento dell’altrui stato di bisogno». Boldrini (Pd) spinge per l’equilibrio di genere, peraltro già protetto attraverso le modifiche agli articoli 51 e 117, varate all’inizio del millennio. Foti (FdI) pretende un limite alla pressione fiscale. Morassut (Pd) vuole che la Costituzione s’occupi delle periferie urbane. La centrista Biancofiore insiste sul riconoscimento delle radici giudaico-cristiane. Fregolent (Iv) propone di semplificare le procedure autorizzative delle grandi infrastrutture (con norme iscritte nella Costituzione, non nel Codice degli appalti). Donato (Pd) prospetta un’Autorità nazionale per i diritti umani, da regolare attraverso l’articolo 100-bis: 9 commi e 900 parole. Ecco, le parole. Se bastasse dirlo in una legge, che l’uomo può volare, saremmo tutti aquile. Ma se trasformi la Costituzione in un testo logorroico, se la infarcisci di promesse irrealizzabili, allora ne svilisci l’autorità, il prestigio. Le leggi inutili indeboliscono quelle necessarie, diceva Montesquieu. Ed è esattamente questa la ragione che sta fiaccando la legge fondamentale dello Stato: perché si è infiacchita l’unità degli italiani, il senso stesso del nostro stare insieme.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
sabato 30 dicembre 2023
ItalianGothic. 89 Michele Ainis: «Si è infiacchita l’unità degli italiani, il senso stesso del nostro stare insieme».
Ha scritto Tomaso Montanari in «Voce del verbo “rimuovere”: la Costituzione di don Milani»
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 18 di dicembre ultimo: Nel
dibattito su don Lorenzo Milani (…) non
si è forse abbastanza sottolineato il viscerale legame tra il priore di
Barbiana e la Costituzione della Repubblica. Nel suo L'esilio di Barbiana,
Michele Gesualdi scrive che Milani, "in una delle ultime notti che ero con
lui ad un tratto mi disse: ... 'non si tratta di produrre una nuova classe
dirigente, ma una massa cosciente. Il buon cristiano, oggi non si limita a fare
l'elemosina ma s'impegna a lottare per rimuovere le cause che tengono i poveri
in condizione di sottomissione e di miseria", Un vero testamento
spirituale, capace di concentrare in poche righe il nucleo incandescente del
pensiero del Priore. Una spia lessicale inconfondibile (quel
"rimuovere", all'infinito, nell'ultima frase) rinvia in modo assai
trasparente al celeberrimo secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione:
"È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del
Paese". Né è solo la scelta della parola: è la struttura concettuale e
sintattica della frase a coincidere, significando che il compito che il Vangelo
affida oggi al buon cristiano è lo stesso che la Costituzione affida alla Repubblica:
cancellare la sottomissione dei poveri costruendo un'eguaglianza non formale,
ma sostanziale. Il rapporto tra Milani e la Carta appare strettissimo fin
folgorante definizione che ne dà nella Lettera a don Piero (1953-54) pubblicata
come seconda appendice di Esperienze pastorali: "La Costituzione... una
legge che un popolo s'è data? Che un popolo ha pagato così cara: sangue, fame,
guerra civile, elezioni tanto sofferte da ogni parte. E poi non è una legge
qualsiasi. E quella che il Cristo attendeva da noi da secoli, perché è l'unica
che ridia al povero un volto quasi d'uomo. Non gli riconoscerà ancora il potere
sopra le cose. Ma almeno sul suo lavoro: di darlo o non darlo quando gli
pare". In quell'"ancora" c'è la profonda comprensione del valore
progettuale della Carta: vista qui letteralmente come "una rivoluzione
promessa", per usare una celebre espressione di Calamandrei. Sono
notissimi i passi della Lettera ai Cappellani, e poi della Lettera ai Giudici
(siamo nel 1965), in cui l'articolo 11 diventa la misura e la lente con cui
guardare all'intera storia delle guerre italiane dall'unità in poi e a quelle
del futuro (e, ahimé, di oggi). Ma è nella Lettera a una professoressa
(comparsa, in extremis, nel maggio 1967) che il movente costituzionale di don Milani
diventa centrale. Un testo che si può leggere come un atto di «resistenza
individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà
fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione»: sono parole
del famoso articolo sul di-ritto di resistenza che Giuseppe Dossetti propone
alla Costituente il 21 novembre 1946, e che pur essendo approvato e
accompagnando per lungo tratto il progetto di Costituzione viene infine
cancellato. Quella resistenza, continuava il testo, "è diritto e dovere di
ogni cittadino": la feroce critica pubblica della Lettera va intesa in
questo quadro, come un pubblico e collettivo atto di resistenza alla violazione
dei diritti di tutti i ragazzi "scartati" da una scuola che non aveva
capito il progetto della Carta. Nella Lettera si trova anche il più specifico -
e quanto geniale! - contributo di Milani all'esegesi costituzionale. Fingendo
di non sapere che, quando l'articolo 3 primo comma elenca tra le distinzioni
che non devono precludere l'eguaglianza anche quelle "di lingua", ciò
si riferisce alla non discriminazione delle minoranze linguistiche (dalla Val
d'Aosta all'Alto Adige), egli scrive: "Lo so anch'io che Gianni non si sa
esprimere. Battiamoci il petto tutti quanti. Ma, prima voi che l'avevate buttato
fuori di scuola l'anno prima. Bella cura la vostra... Ma intanto non potete
cacciarlo dalla scuola: “Tutti i cittadini sono eguali senza distinzione di
lingua'. L'ha detto la Costituzione pensando a lui. Ma voi avete più in onore
la grammatica che la Costituzione". Parlando "con autorità"
(Marco, 1, 27) don Milani interpreta la Costituzione: le distinzioni di lingua
sono ora per lui (e poi inevitabilmente per tutti noi) il grado in cui le
cittadine e i cittadini possiedono la lingua italiana, quasi in una prolessi di
quelle "condizioni personali e sociali" che, in clausola di comma
alludono, ma solo implicitamente, anche alla scolarizzazione e alla cultura.
Immaginare oggi don Milani, significa immaginarlo a fare scuola di italiano ai
figli dei migranti (quelli che la cristiana Giorgia vorrebbe segregare in
Albania): nuovi poveri da emancipare, nuovi italiani cui restituire dignità ed
eguaglianza. In nome di quella stessa Costituzione: finché c'è.
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