"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 31 dicembre 2023

Piccolegrandistorie. 63 “Persone”.


“(…). …faceva freddo e nevicava in quel Natale di tanti decenni fa. Mia madre aveva acceso presto il focolare, ma, siccome la legna umida faceva fumo, aveva aperto una finestra che dava su una conigliera con conigli tutti bianchi come se fossero innevati anche loro. Mio padre ancora non era tornato dal suo lavoro come aiuto di uno zio fattore e io, che all'epoca avevo cinque anni, avevo proteso le braccia all'esterno della finestra e agitavo le mani per salutare i conigli. Improvvisamente, sentii stringere la mia mano da un'altra più grande e provai un po' di paura, che subito svanì quando riconobbi mio padre che mi mostrò un pacchettino. Meraviglia e felicità quando vidi che conteneva una piccola gatta di metallo con la chiavetta per la carica. Mentre delle rotelline invisibili la facevano avanzare a cerchio, la coda ruotava e quando toccava terra faceva rotolare la gatta che poi riprendeva la giusta posizione e la sua corsa. Di quel Natale non ricordo altro, se non le continue cariche alla gatta anche per mostrarne i prodigi ai vicini, perfino nelle stalle perché lì c'era un po' di caldo. È proprio autentica, pertanto, la rappresentazione del presepe con Gesù Bambino in una stalla. Di mio padre ho conservato tante foto d'ogni sua età, ma chissà cosa darei ora per riavere quella gatta anche se arrugginita e rotta, dono di quell'irripetibile Natale lontano”. (Lettera di Lu. Po. pubblicata sul settimanale “L’Espresso” del 22 di dicembre 2023 con il titolo “È il momento dell’incontro”).

Persone”. 1“Improbabili amici”, testo di Massimo Giannini pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 23 di dicembre 2023: (…). La prima persona è Gino Cecchettin. L'abbiamo sentito parlare al funerale di Giulia, e ripetere che non dobbiamo sopravvivere alla tempesta ma imparare a danzare sotto la pioggia. Poi l'ho riascoltato da Fabio Fazio, a Che Tempo Che Fa, due settimane fa. Ero in studio, a pochi metri da lui, mentre diceva «ti viene quasi normale provare rabbia e odio, ma io voglio essere come Giulia, ho concentrato tutto il mio cuore e la mia forza su di lei, e sono riuscito ad azzerare odio e rabbia. Io voglio amare, non odiare...». Sono andato a salutarlo, dopo la trasmissione. A dirgli tutta la mia ammirazione. Quest'uomo, che in un anno ha perso la moglie per un maledetto cancro e la figlia per un femminicidio schifoso, stringeva le mani di tutti, con lo sguardo un po' spaesato, intriso di dolore e di calore. Come fai, Gino? «Guardo avanti, guardo avanti…», ripeteva. Come sul sagrato di Santa Giustina, in quel freddo mattino del 6 dicembre: non so pregare, ma so sperare, e voglio sperare che la morte di Giulia produca il suo frutto d'amore e di pace. La seconda persona è Agnese Moro. Lontana anni luce dai riflettori, la figlia dello statista democristiano assassinato dalle Br ha fatto un'eccezione. L'ho sentita parlare a Genova, nel Salone del Maggior Consiglio del Palazzo Ducale. Era lì per ricevere il Premio internazionale Primo Levi. Per il suo impegno nella "giustizia riparativa", un metodo previsto dall'ordinamento che obbliga l'autore di un reato a rimediare alle conseguenze lesive della sua condotta. E nel caso di Moro, da riparare c'era e forse c'è ancora tanto. Agnese, per anni, ha incontrato, ha parlato, ha discusso e riflettuto insieme ai rapitori e gli assassini di suo padre. Nel suo discorso, ha raccontato la sua esperienza con i terroristi: «Non si ripara l'irreparabile, ma abbiamo attraversato insieme i nostri inferni, io e i miei amici difficili e improbabili, i miei amici preziosi... Quando ho iniziato questo percorso, vivevo in un altro mondo. Al primo incontro, invece, mi trovai di fronte a una persona. Fino ad allora ero circondata da fantasmi giovani, invece lì c'era un vecchio. E il dolore, lì l'ho capito, non era solo mio... Si sono fatti decine di anni di galera brutta, eppure mi vogliono incontrare. La giustizia riparativa è fatta così: raccontare, rimproverare e imparare a disarmarsi, per ascoltare. E ci fa togliere le maschere: quelle che ci hanno intrappolato per decenni. Le loro, quelle di cattivi per sempre. Le nostre, quelle di vittime per sempre...». Poi ha ricordato la storia delle due piantine: «Una me la portò un ex brigatista, al nostro primo incontro, l'altra è quella che nasce nelle crepe dei marciapiedi di Roma: quella sono io, un po' stortignaccola, ma che resiste... In me c'era una goccia d'ambra in cui era intrappolato un insetto ferito, ora al suo posto c'è un luogo di quiete in cui convivono mio padre, Aldo Moro, e i miei amici improbabili...». La gente, commossa, le ha battuto le mani a lungo. Il primo ad alzarsi in piedi e ad applaudirla è stato Franco Bonisoli, uno del commando di via Fani. Quello che dovresti odiare con tutto te stesso. Per provare a sopravvivere. E che invece, oggi, è diventato l'amico improbabile ma prezioso. E insieme a lui hai ricominciato a vivere.

Persone”. 2 “Corsari senza lacci”, testo di Malcom Pagani sullo stesso numero del settimanale “d”: (…). «Ma che Paese siamo diventati? Che Paese è quello in cui non si fa credito a Ennio Fantastichini?». La storia, una bella storia, me l'aveva raccontata un vecchio amico diventato nemico all'epoca in cui Ennio aveva salutato la compagnia già da un pezzo. Era successo a dicembre, cinque anni fa e per tutti quelli che lo avevano conosciuto era stato un dolore, ma non una sorpresa. Ai generosi capita così: vivono e muoiono senza calcoli. «Quando non ci sarò più fate una festa», diceva Ennio. E noi, pensando all'attore figlio di un carabiniere, a Ennio che non era uso a ubbidire tanto meno tacendo e che si dava alle imprese con lo stesso slancio di chi senza passione non saprebbe neanche alzarsi dal letto la mattina, abbiamo provato a rispettarne le volontà. Per sorridere bastava ricordarlo. Ero atterrato a casa sua in un giorno di racconti e padelle sfrigolanti. Lui parlava e intanto cucinava in una casa-barca filologicamente perfetta per un corsaro senza lacci in perenne navigazione. Ennio ha lasciato un figlio, Lorenzo, che ha i suoi stessi occhi e il tocco felice dell'esploratore senza bussole. Lorenzo scrive di notte: «Quando mi sento solo e libero», gira documentari sugli storici bar romani in cui si spiaggiano gli artisti che aspirano a un riconoscimento e se gli chiedi quanto talento ci sia davvero in quell'aspirazione, Lorenzo dubita, ma non giudica: «Mi pare che quasi tutti vogliano fare gli attori perché non sanno chi sono o perché vogliono diventare famosi». Lorenzo rifugge dalle «parole pericolose» che non gli piacciono. Giudizio, certo, ma anche «dovere, logica, colpa, banalità». Lorenzo fonda partiti immaginari che tengono insieme ieri e domani, sogno e inclassificabilità: «Il nome è futurismo primitivo». Movimenti in cui incanalare uno dei suoi molti talenti. Lorenzo dipinge. Di preferenza cavalli e ha l'orgoglio irredento di chi non conosce selle o padroni. Suo padre amava i suoi quadri, ma pur incline a imbizzarrirsi, con suo figlio teneva a bada l'istinto: «Aveva molto paura di influenzarmi. Non voleva farlo, ma in qualche modo l'ha fatto lo stesso». I cavalli di Lorenzo sono selvaggi e somigliano a qualcosa di ancestrale. «La tela è bianca e io l'aggredisco. Ho dipinto fin da bambino, ma non ho studiato per farlo. Anche se un mio amico mi ha sconsigliato di dirlo, penso che la mia pittura sia molto semplice e i miei quadri potrebbe farli chiunque». È un artista perché non sa di esserlo. Alla semplicità, Lorenzo ambisce: «È la cosa più complicata da raggiungere». E mentre parla ancora assonnato - «Vivo soprattutto di notte quando mi abbandono e mi sento solo e libero» - sembra di vedere Ennio: «Che era un bambino, un anarchico, un uomo libero». Suo figlio sostiene che nonostante senta da sempre sulla pelle «dolore ed esaltazione» e covi desideri «un po' adolescenziali e presuntuosi, cambiare il mondo, ma anche piacere a tutti» quando non ha avuto più suo padre al fianco non è riuscito a soffrire immediatamente. «Il dolore non ti fa sentire niente. Quando è morto mi sono detto «se non mi arriva un segnale significa che dio non esiste». Poi quel segnale è arrivato. «E mi sono accorto che lui era dentro di me e fuori, nei gesti nelle persone». Un certo tormento è restato: «Anche se vorrei essere più positivo e più solare, ci sto lavorando», ma è un tormento creativo, una coda al vento, uno zoccolo che resta nell'aria e riempie un vuoto, una linea, il mistero dell'orizzonte e del domani, ciò che riusciremo a essere cavalcando senza ostacoli.

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