Ha scritto Achille Occhetto in “Ci può salvare una rivoluzione pacifica e disarmata dei giovani” pubblicato sulla stessa edizione del quotidiano “la Repubblica”: In quel granello di sabbia gettato nell’Universo che è il nostro Pianeta, come lo chiamavano Giordano Bruno e Leopardi, un piccolo formicaio di microscopiche formiche si scannano tra di loro invocando, con la violenza di una guerra, la reciproca sicurezza, ignare che la loro dimora di fango sta per essere inondata. È quello che succede all’Umanità. Inconsapevole che la lotta per la sicurezza la dovrebbe vedere unita nell’avversare il più grande pericolo che sta alle porte: la distruzione strisciante del Pianeta. (…). Una nuova rivoluzione culturale si impone (…) sul tema della violenza sulla natura. L’occasione si presenterà per giudicare come i cosiddetti grandi della Terra si comporteranno, in questi giorni, alla Cop28 di Dubai, e che vede già fin troppe diserzioni. La sintesi massima tra questione sociale e ambientale, tra diritti civili e sociali, la si ottiene se la transizione ecologica - inevitabilmente lastricata da sacrifici e perdite - sarà accompagnata da misure che garantiscono i più deboli e il mondo del lavoro in generale. Il modo per valutare l’esito di questa Cop 28 sarà la presenza o meno di due parole magiche: vincoli legali e riconversione. Le leggi vincolanti sono fondamentali per combattere il riscaldamento globale e proteggere la biodiversità. Nelle ultime Cop si sono visti sempre meno capi di Stato dotati di impegni vincolanti e sempre più potenze miliardarie impegnate a fare del green un marchio per inventare nuovi mercati, o cavalieri di avventure spaziali impegnati con soluzioni come la geoingegneria, l’ingegneria genetica, gli Ogm. E ciò accarezzando l’ipotesi che a consumo energetico quasi invariato, si possa convivere con un modello di sviluppo pressoché identico, affidandosi solo alla tecnologia. Che dà i suoi frutti, ma insufficienti a raggiungere l’obiettivo di 1,05°C fissato dalla precedente Cop. Per questo il linguaggio fondamentale che bisognerebbe sentire dai capi di Stato è quello di sostenere il principio “chi inquina paga”, fissato dal protocollo di Kyoto e disatteso. Questa è l’idea della “responsabilità differenziata”. Sappiamo che, storicamente, sono i Paesi industrializzati i responsabili dell’inquinamento; per questo si dovrebbero presentare davanti all’emergente “Sud globale” per aiutarlo ad attraversare la transizione ecologica con le necessarie compensazioni e non esportando lo stesso modello di sviluppo. Le misure ventilate in questi giorni sono già un piccolo passo, ma del tutto insufficiente. E allora: l’altra parola magica che dovremmo sentire risuonare è riconversione. Occorre risolvere il dilemma tra sviluppo economico e rischio ecologico. Tale dilemma va superato operando con saggezza sui due lati del corno. Dal lato economico muovendo con maggiore decisione verso la “qualità” dello sviluppo, superando l’idolatria acritica del Pil, e dal lato ecologico, accompagnando gli obiettivi più coraggiosi di contrasto ai fattori di distruzione del Pianeta con “missioni” economiche e sociali che investano le politiche industriali e del mercato del lavoro. Guidati dal tema della riconversione delle attività produttive e delle competenze lavorative. L’adesione della maggioranza della popolazione alla transizione ecologica richiede il superamento della sensazione che l’alternativa sia tra morte per catastrofe ecologica o per catastrofe economica. Occorre che imprese e lavoratori si convincano che stiamo ballando sull’orlo di un precipizio e abbiamo poco tempo per salvarci. Una tale consapevolezza dovrebbe guidarci in due direzioni: quella di non allontanare nel tempo gli impegni per la salvezza del Pianeta e quella di non definirli burocraticamente, senza corredarli di obiettivi di riconversione. Potranno i capi di Stato affrontare tutti questi problemi? Ne dubito. Perciò è auspicabile l’irruzione sulla scena mondiale di una potenza pacifica e disarmata, quella di una nuova generazione. E ricordo ai governanti di oggi, che diffidano delle piazze, cosa disse un dirigente dc dinnanzi a un movimento che non era tenero verso i suoi governi. «Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra, condizioni d’insufficiente dignità e potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità. Nel profondo, è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della storia». Così parlò Aldo Moro al Consiglio nazionale della Dc il 22 novembre 1968. (…).
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
domenica 3 dicembre 2023
Memoriae. 99 Michele Serra: «Questo fu l’austerity: una prima grande crepa nell’idea di Progresso».
“Cinquant’anni
(2 di dicembre dell’anno 1973 n.d.r.)
fa l’Italia scopriva l’Austerity prima crepa nel sogno della crescita felice”,
testo di Michele Serra pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, 2 di
dicembre 2023: Volendo raccontare a chi non c’era l’atmosfera di quel giorno di mezzo
secolo fa – la prima domenica di austerity, tutti a piedi – direi così: fu una
specie di lockdown senza morte. E senza spavento. L’obbligo di fermarsi, il
silenzio impressionante, i motori zittiti, il rumore dei passi e le voci delle
persone che riempivano le strade, una lentezza riconquistata, la dimensione
umana (proprio nel senso delle nostre silhouettes) che ridefiniva il paesaggio
non solo urbano, perfino autostradale. Molti la buttarono anche in folklore e
qualcuno in burla, ne approfittarono per tirare fuori da non so dove calesse e
carretti, cavalli e somari (che solo vent’anni prima, nel dopoguerra, erano il
principale mezzo di trasporto nelle zone rurali), pattini, monopattini quelli
vecchi da bambino, mica gli ordigni che sfrecciano adesso, e ovviamente
biciclette a milioni. La bicicletta era nella sua età di crisi, non più mezzo
di locomozione popolare, non ancora articolo sportivo, oggetto di culto
ambientalista e salutista. Ne sbucarono da ogni dove, a milioni, come topi che
si ribellano a ingiuste fogne. Furono momenti socievoli e allegri,
telegiornali, giornali e rotocalchi diffusero immagini di gente che giocava a
pallone in autostrada, e a scacchi e a tressette nel bel mezzo delle vie e
delle piazze urbane finalmente mondate dalle automobili. L’innesco di quella
improvvisa sospensione della modernità, a dirlo ora, solleva parecchie domande. La causa contingente fu l’embargo imposto dai Paesi del Golfo; ma si disse che
il petrolio era ormai poco, non lontano dal suo esaurimento, e comunque troppo
caro; che avevamo spremuto troppo il limone, essendo il limone il pianeta Terra
e il suo sottoterra. Era, insomma, un allarme ad averci appiedato, con le
autorità locali e globali impegnate a spiegare che stavamo bruciando troppa
energia, eravamo cresciuti troppo in fretta e troppo spensieratamente, non
avevano fatto bene i conti con il dare e con l’avere. Questo fu l’austerity:
una prima grande crepa nell’idea di Progresso così come l’avevamo metabolizzata
fino a lì, si lavora, si produce, si sta meglio. La crescita felice, i consumi
illimitati, la benzina come propellente inesauribile. Una specie di moto
perpetuo, o meglio di motore perpetuo: che invece, inopinatamente, nel settimo
giorno, la domenica, fu costretto a fermarsi. Per dire il vero già da qualche
anno – la seconda metà dei Sessanta – c’era disagio e c’era perfino rivolta,
contro quell’idea così lineare, così vincente del Progresso. Produci e consuma,
consuma e produci, vale la pena vivere una vita così? Ma il disagio e la rivolta
erano esistenziali, erano politici, erano insomma idee, sentimenti, ideologia,
cultura… a un certo punto invece si materializzano le taniche vuote, le pompe
di benzina con il cartello “chiuso”, insomma prende corpo un intoppo materiale,
tecnico, non politico, non ideologico, non psicologico. Ripensarci oggi fa
impressione: perché mezzo secolo non è un attimo, è un paio di generazioni, una
miriade di governi. Eppure, con il senno di poi, la cosa più sensata che
possiamo dirci, su quel momento, è che l’abbiamo spazzato via. Ignorato. Ci
siamo passati sopra come su una trascurabile fessura del pavimento. La macchina
del progresso ha scovato altre strade per convincersi di essere invincibile:
altro petrolio è stato trovato in fondo al mare e in altri recessi fino a lì
trascurati, trivelle delle sette leghe hanno soppiantato quelle vecchie
facendole sembrare cavaturaccioli, gli americani hanno trovato il modo di
estrarre idrocarburi perfino frullando il sottosuolo (si chiama fracking,
devasta la crosta terrestre ma frutta un sacco di quattrini). Nessuno
immaginava, mezzo secolo fa, che di petrolio, e di petrodollari, e di
combustibili fossili, si sarebbe parlato ancora molto a lungo, così a lungo che
ancora oggi non pochi poteri, politici ed economici, parlano dei combustibili
fossili come di una cornucopia (vedi Donald Trump) e della crisi energetica, e
di quella climatica, come dell’invenzione malevola e perversa degli ambientalisti.
Un freno doloso al mito dello sviluppo, dei motori in perenne movimento, per
maggior gloria del fatturato e di chi se ne può annettere la fetta più grande. Nel
lockdown si diffuse in rete una bellissima poesia, di invincibile forza
emotiva, ma anche razionale, di Mariangela Gualtieri: il primo verso era
“dovevamo fermarci prima”. Già: ma “prima” ci eravamo già fermati, e non è
servito a niente. Non abbiamo imparato niente. Era ancora l’inizio degli anni
Settanta, era nel bel mezzo del Novecento, e qualche calcolo, qualche
preavviso, qualche scrupolo già faceva capolino: il concetto di fondo, già nel
1972, era che niente è illimitato. Niente inesauribile. Niente eterno. Un
concetto scientifico, mica “moralista”: eppure enunciato inutilmente. “Il
petrolio finirà” non era una profezia, era un conteggio, un dato di fatto che
poteva essere rinviato, non cancellato. E che si sia poi riusciti a
procrastinare fin qui (siamo scimmie molto ingegnose) l’evo dei combustibili
fossili, è merito della febbrile attività e avidità dell’uomo. Ma siamo
daccapo, cinquant’anni dopo. E poco abbiamo fatto, tutto sommato, per prendere
sul serio quelle domeniche a piedi, per uscire dal folklore e parlare sul serio
di politica. Vale aggiungere che di austerità, cinque anni dopo (1977) parlò
Enrico Berlinguer. I detrattori dissero che era un uomo triste e antico. Oggi,
in pieno cambiamento climatico, siamo esattamente a quel bivio: cambiare
modello di sviluppo o pensare che esiste il moto perpetuo?
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento