"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 17 dicembre 2023

MadreTerra. 23 «Il vecchio Noè Guatteri si disse: sembra proprio che Dio abbia finalmente deciso di chiudere la partita con la stupidità degli uomini».

            Sopra. "Etna", elaborazione da una foto di Francesco Quagliozzi.

Acqua”. “Una misteriosa distesa di acqua” di Piergiorgio Paterlini pubblicato sul periodico “Green&Blue” del 6 di dicembre 2023: Di colpo si ricordò che sua madre gli aveva raccontato come l'alluvione fosse arrivata fino a un paio di chilometri da casa, ben dieci dal fiume, e che avevano ospitato in cantina una famiglia di sfollati. Era stato così tanto tempo fa! Lui, che adesso era anziano, all'epoca non era neanche nato e sua madre era poco più di una ragazzina. Lei non sapeva dire con precisione l'anno, ma doveva trattarsi senz'altro del 1951 perché quell'alluvione, anche se non aveva rappresentato il record del livello idrometrico delle piene, era stata sicuramente la più spaventosa e devastante. Quasi senza accorgersene si immerse nel ricordo di ciò che non aveva mai visto. Immaginò la cantina, e come fosse composta quella famiglia, la paura che dovevano aver provato tutti, la preoccupazione per il futuro, per quel poco e quel tanto che avevano irrimediabilmente perduto. Vide nitidamente immaginò la fotografia di matrimonio di quei genitori, protetta da una vecchia cornice, galleggiare sulle acque fra mille altri pezzi di vite smarrite. Poi ricordò di aver visto al cinema la scena di un prete esagitato che usciva dalla chiesa in canoa e attraversava la piazza del paese interamente sommersa dall'acqua. Un passato lontano anche se in realtà l'ultima grande alluvione lì c'era stata solo dieci anni prima. Dieci anni che sembravano però un secolo. Tutto era cambiato. Aria, acqua, terra, fuoco... Si risvegliò di colpo da quello stato che non contemplava confini definiti tra sogno e realtà, ricordo e immaginazione, scene viste di recente in televisione e vecchie fotografie in bianco e nero. Appena in tempo per evitare che la sua barca finisse in secca. Alzò gli occhi al cielo. Il cielo era limpido. Attraccò. Abitava lungo il Grande Fiume in un luogo isolato che aveva scelto tanti anni prima. Tornò a buttare lo sguardo all'orizzonte e adesso il cielo era nero. Non potevano essere passati più di quindici minuti. Subito dopo si alzò il vento. Poi la pioggia, mista a grandine. Pioveva ininterrottamente da sette giorni e sette notti. Radio, Tv, Internet, cellulari avevano smesso di funzionare quasi subito. L'energia elettrica era saltata poco dopo. Vivendo così fuori dal mondo, aveva preso l'abitudine di tenere ogni sorta di rifornimenti in casa, ma ora alcuni generi di prima necessità cominciavano a scarseggiare. La cosa più strana: in tutto quel tempo non si era fatto vivo nessuno. L'acqua era arrivata alla soffitta, ma la grande barca fortunatamente aveva resistito e non era stata trascinata via, era ancora là, un po' ammaccata ma senza danni rilevanti. In fretta, eppure con metodo e pazienza, cominciò a portare sulla barca quello che poteva tornare utile di ciò che aveva messo in salvo. Poi i due gatti con cui viveva, i suoi due cani, due galline in compagnia del gallo del pollaio, una coppia di conigli e una di colombi. Da ultimo, aiutò a salire Polina, la giovane profuga ucraina che aveva accolto in casa ormai da un anno non era chiaro chi badasse a chi e mollò gli ormeggi. Sballottato dalla corrente, sotto la pioggia sferzante, con il fiume che non era più il fiume che conosceva così bene ma una misteriosa distesa d'acqua, acqua e solo acqua e ancora acqua a perdita d'occhio, con i pioppi più alti che ormai tenevano fuori a malapena il naso, il vecchio Noè Guatteri si disse: sembra proprio che Dio abbia finalmente deciso di chiudere la partita con la stupidità degli uomini. E va bene. Ma non è detto non abbia deciso anche di ricominciare proprio da me. Chi può leggere nella mente di Dio? Chi può sapere cosa passa per la testa di uno che puoi chiamare pregare supplicare per giorni e notti e non ti risponde mai?

Acqua”. “Un incanto che scompare” di Matteo Righetto pubblicato sullo stesso numero del periodico “Green&Blue”: Un'antica leggenda dolomitica narra di un'immensa distesa di prati posti proprio dove ora sor­ge la Marmolada. Come si sa, un tempo si seguiva il ritmo delle stagioni e così tutte le estati gli abitanti della Val di Fassa erano impegnati nello sfalcio dei pra­ti in quota. Ognuno aveva dei compiti precisi. Chi falciava, chi si caricava il fieno sulle spalle e chi lo ammassava nei piccoli "tabià da mont", i fienili di alta montagna. L'estate scorreva veloce e il cin­que agosto, festa della Madonna della Neve, tutta la gente cessò la fienagione, scese dall'alpeggio e si recò alla processione. Tutti tranne una vecchia contadina la quale, visto il bel tempo e temendo che potesse presto guastarsi, pensò che per una volta sarebbe stato meglio continuare a falcia­re i prati anziché recarsi alla funzione religiosa. Giù a valle la comunità disapprovò la sua scelta egoistica, ma lei se ne stette lassù a fare fieno ripetendo: «Madona de la Nef de cà, Madona de la Nef de la, e mi ei el fen ite tabià!». Madonna della neve di qua, Madon­na della neve di là, e io intanto ho il fieno nel tabià! Fu un triste presagio per l'intera co­munità così devota, e infatti il tempo cambiò rapidamente. L'aria si fece mol­to fredda, il cielo si ricoprì di nuvole e, poiché nessun fiocco di neve cade mai nel posto sbagliato, presto nevicò così tanto che un enorme e pesante manto bianco ricoprì l'intera monta­gna. In pochi istanti la vecchia finì se­polta sotto una pesante coltre che non si sciolse mai più dando così origine al ghiacciaio perenne della Marmola­da, che nelle tradizioni ladine da quel giorno rappresenta un'eterna riserva d'acqua a garanzia di prosperità, ric­chezza e speranza per le generazioni future. Una leggenda, questa, che mi fa sempre tornare alla mente Scott Moma­day, nativo americano premio Pulitzer 1969 il quale nel suo memoir "Custode della terra" scrisse: «Le acque parlano del tempo. Da sempre i fiumi scorrono sulla terra e placano la sua sete. Senza acqua appassiremmo e moriremmo, e con noi tutto ciò che conosciamo». Dalla spiritualità Kiowa e Navajo alle saghe ladine, l'interpretazione che gli antichi davano ai ghiacciai e alla loro riserva d'acqua sostanzialmente non cambia. Comuni sono la magia, l'incanto delle tradizioni orali di un'etica della terra che si è fatta letteratura universale. Non è forse questo un richiamo ancestrale a farsi custodi dell'eterna bellezza che ci circonda? Non è una meravigliosa testimonianza di appartenenza al paesaggio naturale e di unione indissolubile tra uomo e creato? Leggenda a parte, purtroppo oggi il ghiacciaio della Marmolada non esiste praticamente più e di conseguenza ha cessato di vivere anche quell'eterna prosperità evocata dalla saggezza della letteratura orale degli antichi. L'aumento della temperatura minima invernale sulla Marmolada è cresciuto di 2 gradi nel corso di trentacinque anni di osservazioni scientifiche e ora il ghiacciaio è grande un decimo rispetto a un secolo fa: si è ridotto di più del 70% in superficie e di oltre il 90% in volume. Si tratta di un fenomeno in progressiva accelerazione, sostengono i glaciologi, tanto che in meno di mezzo secolo la sola fronte centrale è arretrata di più di seicento metri risalendo in quota di altri trecento. Tra meno di vent'anni il maestoso manto bianco della Marmolada sarà scomparso del tutto e con esso se ne andrà per sempre una buona parte dell'identità ladina che da tempi immemori vive ai piedi di questa montagna sacra. Perché purtroppo è proprio questo che ci si ostina a non comprendere. Che le sue rocce siamo noi, la sua neve è la nostra anima. E il respiro della Terra è il nostro respiro.

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