Viviamo in una società in cui il paradigma del lavoro sembra rimanere centrale, lei stesso lo ha definito il frutto di un "immaginario emancipatore". Come pensa che si possa destrutturare questo paradigma? «Il problema è quello dei rapporti di forza. Per lavorare meno occorre imporre delle riduzioni degli orari di lavoro, e questa richiesta è possibile come si è visto anche durante il movimento francese contro la riforma delle pensioni. Si tratta dunque di una battaglia che si pub giocare e anche vincere: lo abbiamo imparato in Francia quando ci fu la richiesta delle 35 ore o recentemente sulle pensioni. Alcuni momenti sono più favorevoli ai lavoratori, altri meno. Il problema è che queste riduzioni saranno sempre fragili fino a quando resteremo all’interno del paradigma del produttivismo. Ma la battaglia non è nuova, si pensi al contributo che in questo senso ha dato Marx».
Torneremo più tardi su Marx, ma restando ancora all'immaginario del lavoro lei ha giustamente osservato, nei suoi tanti lavori, che questo immaginario si nutre di una massima di San Paolo, "Chi non lavora non mangia", divenuta una massima di vita quotidiana, ascoltata da tutti noi fin da bambini. E l'Urss di Stalin la inserì anche nella Costituzione del 1936. Ecco, come si rompe una concezione così radicata nel sentire comune? «Viviamo all'interno di un paradigma del capitalismo, o del produttivismo, che ci ha formattato. Ci sono voluti almeno uno o due secoli per imporre questa ideologia del lavoro. Si pensi al famoso saggio di Max Weber sull'Etica protestante e lo spirito del capitalismo. Occorre riconoscere che la necessità del lavoro è stata riconosciuta come così fondamentale che l'articolo 1 della Costituzione italiana recita che la Repubblica è fondata sul lavoro. Quindi sì, è vero che ci troviamo di fronte a un paradigma molto strutturato. Occorre dunque cambiare mentalità, e occorre decolonizzare l'immaginario. Ma ci vuole tempo per cambiare una mentalità così radicata. Questo fa parte del concetto della decrescita che è un cambiamento radicale di paradigma».
Vuole ricordarci le linee guida del concetto di decrescita? «Nei vari libri ho sempre auspicato che si affermi la concezione di un cambiamento radicale, un progetto che ho basato sulle cosiddette otto R: Rivalutare, cioè cambiare i valori. Ricontestualizzare, modificando il punto di vista su una determinata situazione. Ristrutturare, i modelli di consumo, i rapporti sociali, gli stili di vita, così da orientarli verso una società di decrescita. Rilocalizzare, consumando essenzialmente prodotti locali e favorendo le decisioni economiche a livello locale. Ridistribuire, garantendo a tutti gli abitanti del pianeta l'accesso alle risorse naturali e a un'equa distribuzione della ricchezza. Ridurre, dall'impatto sulla biosfera agli orari di lavoro. Riutilizzare, fuori dall'ossessione dell'obsolescenza degli oggetti. Riciclare. Sono gli assi per uscire dal produttivismo e dal consumerismo».
Quali sono le forze sociali, intellettuali, politiche che lei vede in campo per raggiungere questi obiettivi? «Le cose non sono più come al tempo di Marx in cui era chiaramente visibile la lotta di classe del proletariato contro la borghesia. Oggi virtualmente fino al 90% della popolazione potrebbe essere interessata a questo cambiamento, mentre concretamente la contestazione della crescita è molto più limitata. Diciamo che il progetto della decrescita potrebbe avere intorno al 10-20% dei consensi. Ma si tratta di un progetto nato solo negli anni 2000, sono passati solo vent'anni dal suo concepimento e già siamo riusciti a farne parlare ovunque. Sono ottimista».
(…). Il recente movimento contro la riforma delle pensioni in Francia si è battuto anche per una idea diversa del lavoro e della sua qualità. Pensa che possa offrire delle indicazioni in questo senso? «Quel movimento è stato molto importante, secondo i sondaggi circa il 70% della popolazione francese si è schierata contro la riforma voluta da Macron e dal suo governo. Credo che in Francia, ma probabilmente anche in Italia, ci sia una grande sofferenza nel lavoro, soprattutto perché i lavori offerti non permettono di affermare una propria realizzazione e spesso non hanno senso. Siamo di fronte in effetti a una perdita di senso del lavoro, si pensi solo per fare un esempio alle cassiere nei supermercati. Il grande antropologo David Graeber ha coniato una espressione efficace, e forte, per descrivere questa realtà, bullshitjob, che in italiano penso si possa tradurre con "lavori di merda". Questo spiega a mio avviso la forza di quel movimento di contestazione. E occorre notare che certamente abbiamo perduto una battaglia, ma non abbiamo perduto la guerra. Ci saranno ancora occasioni di contestazione».
La recente pandemia da Covid con i suoi effetti sulle economie mondiali ha messo in evidenza la specificità dei lavori essenziali e ha imposto un'organizzazione eccezionale, straordinaria della società. Ha qualcosa da insegnarci in tema di lavorare meno? «Ci sono due lezioni da trarre da questa vicenda: una prima lezione, evidente con l'imposizione dei vari lockdown e con i blocchi di produzione, è che si può continuare a sopravvivere anche senza un consumo eccessivo. La qualità della vita può migliorare, l'aria diventa più respirabile. Non penso che quella sia stata un esempio di decrescita, sia chiaro, ma ha rappresentato un'esperienza visibile a tutti del fatto che non c'è bisogno di lavorare tanto, che ci sono molti lavori che non sono necessari. E invece ci sono lavori fondamentali, che tra l'altro sono i lavori peggio pagati. È stato scioccante per molti, ma finalmente abbiamo potuto porci la domanda giusta: a cosa servono i tanti lavori del mondo della finanza, i trader, ecc, mentre le infermiere e i piccoli lavori sono essenziali per la società? Colpisce che per osservare una realtà così elementare ed evidente ci sia voluto un fenomeno epocale».
Come incide invece la riduzione del lavoro sulla battaglia contro la crisi climatica? «Qui è tutto molto evidente: stiamo rischiando il collasso, la quantità di gas effetto serra è in aumento e tutte le misure a livello nazionale e inter-nazionale prese finora per affrontare la crisi climatica sembrano rientrare nella categoria del "greenwashing". Ci sono sempre più ingegneri che dicono che occorre produrre meno, e quindi lavorare meno. La decrescita in questo caso è la soluzione».
Lei teorizza non solo la riduzione del lavoro, ma anche la possibilità di non lavorare del tutto, Però ha polemizzato con le idee che sostengono che il lavoro sia ormai appannaggio delle macchine e che si possa vivere con un reddito universale. Che cosa pensa del rapporto che dovremmo avere con la tecnologia? «Su questo punto si deve essere molto chiari. Nel quadro del paradigma capitalista i progressi tecnologici non hanno mai avuto come conseguenza di lavorare meno. Lo aveva già capito John Stuart Mill, si tratta di una delle promesse della modernità che è stata tradita. Con il progresso tecnico si potrebbe virtualmente lavorare meno, mentre invece la conseguenza è stata quella di lavorare sempre più. E tutti i governi dicono che bisogna lavorare di più. È stato così al tempo della prima rivoluzione industriale, al tempo della seconda ed è vero anche con la rivoluzione digitale malgrado Jeremy Rifkin abbia sostenuto che non è così. Rovesciando il paradigma produttivista, noi non siamo però contro le tecnologie più produttive. sarebbe assurdo far lavorare delle persone se al loro posto possono farlo le macchine. Si può dunque lavorare sempre meno, a condizione di avere salari adeguati, cosa che è possibile se si mantiene la medesima produttività».
Sta dicendo in questo modo che i guadagni di produttività vengono trasferiti direttamente ai salari? «Sì, ma occorre sapere che questo non è possibile nel quadro dell'economia di mercato di oggi: occorre cambiare paradigma. Il capitale vuole sempre µn profitto. I guadagni di produttività si trasferiscono sempre sul prezzo delle merci e sui profitti. Se si lavora di meno i profitti diminuiscono, è con questa contraddizione che occorre fare i conti».
Nei suoi libri sono frequenti le citazioni di Nietzsche, ma le sue categorie riflettono anche un'impostazione che deriva da Marx. Il "diritto all'ozio" lo ha celebrato il genero di quest'ultimo, Paul Lafargue. Di quale pensiero si sente debitore e come potremmo definirla culturalmente? «Di sicuro sono stato per molti anni marxista. Karl Marx ha avuto una grande influenza su di me, ho preso sul serio l’idea della necessità di una critica dell'economia. Ma ho trovato una contraddizione nel marxismo che conduce certamente una critica del produttivismo quando questo è capitalista, ma se passiamo a un'economia socialista allora il produttivismo diventa una buona cosa. È l’ideologia dello sviluppo. Per molti anni ho avanzato questa critica, ma mi sono accorto di questa contraddizione: il marxismo, da critica dell'economia, è diventato un'altra forma di economia. Per uscire da questa contraddizione mi sono rivolto al pensiero di Ivan Illich o di André Gorz, pensatori che hanno condotto una critica serrata della modernità e del produttivismo, così come Jean Baudrillard. L'influenza di Friedrich Nietzsche non è stata quindi diretta, ma visto che su questi autori ha esercitato una grande ascendenza, indirettamente è giunta fino a me».
Possiamo considerarla, allora, figlio del post-moderno? «Non mi piace molto la definizione di post-modernità perché penso che la modernità sia ancora in atto, non è finita. La vera post-modernità sarà la decrescita».
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