“Ambiente. Epilogo”. “La geografia moderna dell’acqua” di Giulio Boccaletti sempre sul periodico “Green&Blue” del 6 di dicembre ultimo”: Nel 1932 gli Stati Uniti affrontavano l'abisso. All'alba della sua presidenza, Roosevelt incoraggiò la nazione piegata dalla catastrofe economica a credere che "l'unica cosa di cui avere paura è la paura stessa", Decise che l'acqua sarebbe stata il tema eroico del secolo. Era un'agenda politica precisa: la conversione del paesaggio in una fabbrica alimentata da dighe idroelettriche, simboli di potere collettivo, cattedrali della modernità. Fotografi come Walker Evans e Dorothea Lange ne documentarono l'impatto, alimentandone il mito, mostrandone i costi umani. Il fotografo Ben Glaha fece della diga di Hoover disegnata da Kaufinann un'icona Art-Deco, Era propaganda della rinascita, l'utopia inseguita dai personaggi di Steinbeck. Raccontare l'acqua non è facile. Agisce su scale che trascendono l'individuo, producendo esperienze necessariamente collettive. Che se ne rendano conto o meno, gli abitanti dell'alta valle del Po, i proprietari delle risaie vercellesi e gli agricoltori romagnoli, i cui peschi dipendono dalle idrovore di Bondeno sul Canale Emiliano-Romagnolo, appartengono tutti allo stesso sistema. Il fiume è un grande condominio. Si fa finta di vivere da soli. Poi però succede qualcosa sul pianerottolo e ci si ritrova a fare l'odiata riunione, dove si scopre di non saper governare assieme agli altri condomini. Si litiga, sorpresi di dover negoziare l'uso di risorse comuni. Nessun uomo è un'isola, diceva John Donne. L'acqua ce lo ricorda. L'acqua marca il nostro tempo. Scorre mentre noi ci sforziamo di stare fermi. Dal nostro punto di vista, le siccità del 2022 o l'alluvione in Romagna appaiono come singolarità casuali. Ma è un'illusione cognitiva. Se, come gli alieni di Tralfamadore immaginati da Kurt Vonnegut, potessimo osservare il tempo in un colpo solo mentre si estende tra passato, presente e futuro, vedremmo un unico fenomeno: il clima che cambia e ci sfugge di mano. Come l'America di Roosevelt, anche noi abbiamo trasformato il paesaggio, convertendo l'idrologia naturale in idraulica funzionale alla modernità. Trecento miliardi di metri cubi piovono ogni anno sull'Italia. Ventotto milioni di ettari di foreste, campi agricoli e terreni incolti li intercettano prima che fluiscano in fiumi e falde. Lì incontrano argini, dighe e canali, disegnati per fare del paesaggio una scenografia, un palco sul quale noi, urbanizzati, viviamo ininterrotti ai ritmi del consumo. Raccontare l'acqua è difficile perché siamo convinti di dominarla. Un'illusione di controllo scritta nel paesaggio. LIFE Magazine era la terza pubblicazione di Henry Luce, fondatore anche di Time e Fortune. Fu con LIFE che il più influente editore del secolo ridefinì la comunicazione della modernità. Per la prima copertina nel 1936, Luce volle un'immagine iconica per l'era di Franklin Delano Roosvelt. Scelse una diga. Reclutò Margaret Bourke-White, fotografa industriale, per immortalare l'enorme Fort Peck, in costruzione sul Missouri. Bourke-White produsse un'immagine singolare: niente acqua o persone, solo cielo e un grande bastione, un muro difensivo in cemento armato a controllo dello sfioratore, torri e merli a difesa del futuro. Un'estetica industriale di quella che Luce definì «una nazione concepita nell'avventura e dedicata al progresso umano». La geografia dell'acqua è l'immagine della modernità. I fiumi, le arterie del paesaggio umano. Li nascondiamo, ci illudiamo che siano inerti. Crediamo di domarli. Fino a che il clima eccede i limiti imposti da noi. Bussa alla nostra porta. E ci porta il fiume in salotto.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
martedì 19 dicembre 2023
MadreTerra. 24 Antonio Scurati: «La natura, per noi umani, non esiste. E, seppure, esiste, è sempre soltanto un preambolo al libro delle nostre vite sulla Terra».
“Ambiente” 1. “Troppo bello per essere vero” di Sarah Savioli pubblicato sul
periodico “Green&Blue” del 6 di dicembre 2023: Quindi diceva che non
conviene. E che si consuma troppa acqua.
Non quella da bere, no. Troppa
acqua nel senso che devi far crescere i cereali e c'è quella roba che chiamano
mono-qualchecosa, con i campi coltivati con una pianta sola da seccare per fare
i mangimi che si conservano di più, che li sposti meglio e via così. Però poi
ciao acqua. La sprechi, diceva. Ma sì, ci sono anche i lavaggi e tanti altri
consumi, è una questione complicata. Spiegava che... aspetta che cerco di
ricordare... ecco, che non è un processo sostenibile per l'ambiente. Poi ha
parlato di inquinamento e cambiamento climatico. Non siamo messi bene, sai?
Comunque, lui ha detto così e suo padre gli ha risposto che sono tutte balle,
che ora va di moda che sono tutti vegani. Poi gli ha anche detto che sono
storie che gli hanno messo in testa all'università e guarda te se adesso lui si
deve sentire pure le lezioni dal figlio che gioca a fare il
"professorone". Eh? Ma no, nemmeno a me pare che il ragazzo sia
diventato arrogante, però sai com'è, un po' di scontro generazionale ci sta. In
ogni caso, il padre insisteva che pure questa cosa dell'impronta idrica non si
valuta più come diceva il figlio, era una scemenza di quegli esaltati degli
ambientalisti. E diceva che venissero loro a fare la vitaccia dell'allevatore
con le tasse da pagare e poi non rimane niente. Si alzassero loro alle quattro
del mattino, che andassero a lavorare... che lui a sette anni stava già in
stalla. Non la sanno qual è la fatica di questo mestiere con le vacche. Allora
il figlio ha provato a dirgli che i cambi climatici sono una realtà, che la
siccità sarà un problema sempre più pesante e che gli allevamenti intensivi dei
bovini in particolare, portano a un consumo d'acqua enorme. Che va ripensata la
filiera. Hai capito? Gli ha detto che va-ripensata-la-filiera. E lì il padre ha
dato giù di testa. Ha urlato al figlio che "la filiera" però gli
andava bene quando gli comprava la macchina bella e le vacanze con gli amici.
"La filiera" gli piaceva quando gli pagava le tasse universitarie.
Che non lo sapeva lui del mal di schiena di suo padre. E che "a fine mese
bisogna anche arrivarci, caro signor la filiera", gli diceva. E il figlio
scuoteva la testa, provava a dire "Papà", ma il padre ha gridato che
sputava sulla vita sua, di suo nonno, dei suoi zii, su vite di sudore passate a
tener dietro alle bestie e mai un giorno di ferie. Mai. Eh, il ragazzo che cosa
vuoi che abbia fatto... Non ha detto più nulla. È andato via con la testa
bassa. Prima di uscire dalla stalla però, ha preso una manciata di mangime,
l'ha stretta forte nel pugno. Poi ha aperto la mano ed era diventata una
polvere che il vento ha soffiato via. «Bravo, scappa. Vai dai tuoi amici
ambientalisti, vai! E a spaccarsi la schiena anche per te ci resto io», gli ha
detto il padre mentre lui si allontanava. Io però non credo che sia cattivo. Il
padre, dico. Forse è che alle volte nasci in un sistema più grande di te,
cominci a fare come puoi, vai avanti giorno dopo giorno e finisce che credi che
nulla possa cambiare. Per sopravvivere cancelli i tuoi dubbi e trasformi in
normale anche l'inaccettabile. Invece secondo me la situazione può cambiare.
Sì, come diceva il figlio. E, quando succederà, chissà se le cose cambieranno
anche per noi vacche. Ci pensi a pascolare nei prati, a muoverci e stare
diversamente, come dicono le leggende? Sì, lo so che c'è chi dice che ci sia
qualcuna di noi che vive davvero così. Ma figurati, dev'essere una favola
inventata. Nei prati... sarebbe qualcosa di troppo bello per essere vero.
Davvero qualcosa di troppo bello per essere vero...
“Ambiente” 2. “È possibile un’ecologia senza bellezza?” di Antonio Scurati sullo
stesso numero del periodico “Green&Blue”: Per noi gente di città,
l'agricoltura ha sempre rappresentato il sogno di poter finalmente superare i
nostri mai risolti problemi con la modernità. Ogni volta che la città ci
soffoca, ci opprime, ogni volta che in una delle tante mattine tristi andiamo
incontro con il fiato grosso e l'umore nero al nostro giorno metropolitano -
giorno senz'albe e senza tramonti" - ecco ritornare il sogno di
scenografiche colline coltivate a vigneti, benedette da fresche brezze,
punteggiate da maestose querce millenarie e degradanti dolcemente verso il
mare. Ecco il luogo dove il lavoro dell'uomo diventa fatica grata e la vita si
riempie di senso tornando alla terra, giocando saggiamente d'anticipo sul
destino che attende i nostri corpi precari. Si tratta indubbiamente di un luogo
immaginario, di un ingenuo e, talvolta, colpevole sogno escapista. Le campagne
vagheggiate da noi gente di città nelle nostre fantasie d'evasione, nella lista
interminabile dei desideri per le nostre vacanze, non sono mai esistite.
L'idillio bucolico è da sempre un genere letterario nutrito dalle proiezioni
psichiche di noi figli minori della metropoli imperiale. Fin da quando il primo
vomere sventrò la terra tracciando il confine sacro, la coltivazione dei campi
ha sempre avuto un versante feroce, a noi sconosciuto, è sempre stata lotta
dura, schiene spezzate, violenta trasformazione di un ambiente altrimenti
inadatto a ospitare la vita umana. La natura, per noi umani, non esiste. E,
seppure, esiste, è sempre soltanto un preambolo al libro delle nostre vite
sulla Terra. D'accordo, tutto questo lo sappiamo: ce lo racconta una memoria
del sangue tramandata a noi gente di città dai nonni o dai bisnonni che furono
contadini. Eppure, ora, l'ancestrale opera di trasformazione violenta
dell'ambiente da sempre compiuta dall'uomo arriva a spiccare un salto. Un salto
in aviti che ci lascia senza fiato, sgomenti, strappati. (…). Capannoni
industriali adibiti all'agricoltura, serre ipertecnologiche nelle quali lo
sguardo è dominato da filiere di tralicci d'acciaio e lastre di plexiglass,
minuscoli pomodori perduti, quasi scomparsi, nello sterminato orizzonte senza
orizzonte di brutali tagli geometrici, piccoli frutti rossi e succosi incubati
da macchinari preponderanti, sotto luci violacee, in un ambiente interamente
artificiale, inorganico, asettico, nel quale i discendenti dei contadini
indossano camici e mascherine da anestesisti. Un pavimento in linoleum, un
corridoio bianco, desolato, abbagliato da una luce glauca, uniforme, ospedalizia.
Nemmeno l'ombra di un vivente. Questo è rimasto di ciò che fu la campagna.
Perfino i nomi non sopportano più la linea curva, irregolare, frastagliata
dell'esistenza: interconnessione, ottimizzazione dei processi, serre
aeroponiche. Un incubo distopico divenuto realtà, forse addirittura necessità.
Lungi da me, infatti, la tentazione di trovare consolazione nelle nostalgie
passatiste. So bene che tutto ciò è il risultato dei migliori sforzi compiuti
dall'ingegno umano per affrontare una terribile crisi ecologica. So bene che
esiste un vasto dibattito scientifico attorno alle nuove tecnologie agricole,
meritevole di tutta la nostra attenzione. Il mio sgomento estetico si limita a
sollevare una domanda relativa alla relazione perduta tra agricoltura e paesaggio.
È possibile, è auspicabile, soprattutto in Paesi come l'Italia, una forma di
agricoltura che abbia reciso ogni legame con il paesaggio? È possibile, è
auspicabile un'ecologia senza alcuna bellezza?
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