"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 25 marzo 2023

Memoriae. 43 Massimo Cacciari: «O i valori hanno una base ideologica forte, oppure sono chiacchiere».

                24 di marzo dell'anno 1944. L'eccidio delle Fosse Ardeatine. 

Media&(mala)Politica”. Ha scritto Ray Banhoff in “Sei consigli utili per aspiranti opinionisti tv” pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 19 di marzo ultimo:

Altro che poteri forti, la lobby più potente in Italia è quella degli opinionisti tv, gli influencer degli over 45. Un po' giornalisti, un po' agitatori, sono loro l'ariete per far breccia nelle menti degli italiani. Trattasi di un'élite di pochissimi, con agenti che si occupano dei loro cachet (il gettone di presenza che ne monetizza il titolo, come in una Borsa della cultura). Gli opinionisti sono in grado di spostare più voti di un politico poiché non devono fare, ma commentare. Per essere tra queste poche decine di eletti si deve anzitutto avere una presenza che «buca» lo schermo con concetti rapidi e chiari. Siamo nell'era del pensiero polarizzato, conta più come si dice una cosa di quello che si dice. Ma che cosa serve per diventare un intellettuale tv in Italia? Urlare. In tv se non urli non hai senso. Quando il dibattito sta morendo in tecnicismi e vicoli ciechi, il vero opinionista, il fuoriclasse s'inalbera in una sonora incazzatura che sfoga urlando. La risposta urlata, o molto piccata (…) serve a non far annoiare il pubblico e a sottomettere l'avversario, per cui dev'essere un flusso verbale continuo: non si può interrompere per ascoltare argomentazioni o repliche. Look. Devi essere riconoscibilissimo, avere la tua divisa. Esempi: Mauro Corona vestito da scalata nel bosco, Giampiero Mughini con gli occhialini, Vittorio Sgarbi con il suo ciuffo che si sposta sempre (quando non sta al cellulare), le cravatte di Antonio Caprarica, Selvaggia Lucarelli con un look stile Lana Del Rey, Massimo Cacciari e l'outfit da prof di filosofia, ecc. Mood preso male. Guai a sembrare una persona allegra, devi essere intriso di dramma, diventare un totem di sofferenza e contenere nei tuoi discorsi tutti i problemi del mondo come se non li stessi raccontando pagato da uno studio televisivo, ma se li stessi vivendo. Attiverai così il transfert nel pubblico, che, preso dal senso di colpa per il suo privilegio, sentirà di aver espletato i suoi dieci minuti al giorno di interesse civico. Rispondere alle domande con i tuoi slogan. Se ti fai imbrigliare in un dibattito vero e proprio sei finito perché non ci sarà mai il tempo di spiegare un concetto per intero in tv («è leeeento, non funzionaaa», (…). Il conduttore esperto (…) appena nota che la tua risposta non è adrenalinica cerca di tagliarti per evitare che lo spettatore cambi canale. Quindi, a ogni domanda scomoda si risponde con una tesi che non è una risposta in tema, ma un teorema nuovo in cui crediamo profondamente e che serve a sostenere una causa più importante: noi. Sviato il discorso, al telespettatore rimarrà il cookie del nostro concetto e l'avversario resterà allibito dal nostro dribbling. Lasciare lo studio. Un colpo di teatro solamente per i veri king, ma quando ci si arriva deve dare una gran soddisfazione. Manifestare superiorità. (…). Questa tecnica, che manda letteralmente in panne gli avversari, consiste nel fissare l'interlocutore con un sorrisetto sardonico e poi schernirlo lasciandosi scappare commenti a bassa voce come se l'altro non potesse sentire. Ecco un consiglio utile a tutti i frequentanti dei master in Giornalismo. Potrete vincere tutti i premi che volete e firmare importanti inchieste, ma niente darà mai una spinta alla vostra carriera come prendersi uno schiaffo da Roberto D'Agostino. Di seguito, “Costretti a vivere di chiacchiere”, intervista di Raffaella De Santis a Massimo Cacciari pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, sabato 25 di marzo 2023: “(…). Il linguaggio politico è demagogico nella sua essenza, il suo fine consiste nel guidare il popolo e nel convincerlo con ogni mezzo della bontà di determinate idee e prospettive. La pretesa che possa avvicinarsi al linguaggio scientifico è folle. Lo scienziato deve cercare di rapportarsi con l’essere, il linguaggio politico con il dover essere”.

Ci saranno però dei limiti alla demagogia? “Quando il dover essere prescinde da ogni analisi concreta della situazione di fatto, il linguaggio diventa pura menzogna. Se cerco di convincere il demos con promesse prive di fondamento che non tengono conto di una realtà effettuale, il linguaggio politico si presenta in forme particolarmente degradate, diventa pura propaganda”.

E oggi le sembra che i politici abbiano cura della realtà fattuale? “Il linguaggio generale è ormai vaniloquio, ma di che cosa ci stupiamo? Il degrado non è solo del politico, è esteso. Ha vinto il linguaggio dei social che prescinde da ogni analisi, da ogni critica, da ogni giudizio. È in atto un impoverimento tremendo dei nostri mezzi di comunicazione. I politici ricorrono a una comunicazione frettolosa usando i mezzi che hanno a disposizione, mica vivono su Marte!”.

Ci sono vie d’uscita? “L’unica cosa che possiamo fare è cercare di resistere, avere consapevolezza del contesto. Come le dicevo sarebbe una posizione snobistica, per non dire ascetica, rifiutare i social o smettere di parlare attraverso i giornali o la televisione. Nessuno di noi può essere superiore al suo mondo”.

I social hanno alzato il tasso di emotività. Cresce il bisogno di un nemico? “In politica il linguaggio del nemico non è una novità. La politica ha sempre finto il bellum ricorrendo a un linguaggio pseudo-militare, ma oggi è sparita la capacità di critica. Nessuno pensa più di voler conoscere il suo nemico, di comprenderne il linguaggio. Il giudizio ha bisogno di tempo, di distanza critica. Oggi si consuma tutto nell’immediato. La critica è un’attitudine scomparsa dai giornali e anche dalla scuola”.

Che cosa non le piace nella scuola? “È travolta da un’ansia di prestazione, preoccupata di formare al lavoro, presa da una smania produttivistica. Quello che conta oggi è arrivare subito al successo, convincere rapidamente l’interlocutore, non importa se ricorrendo a fake news. Non conta pensare, ragionare, analizzare le cause, conta schierarsi più in fretta possibile. Siamo dominati dalla fretta. Anche i politici sono merce col timbro di scadenza”.

Resistere vuol dire rallentare? “Prendersi il proprio tempo, tornare a ragionare, cercare di comprendere le ragioni dell’altro, il linguaggio di chi non la pensa come noi. Se fai questo, probabilmente sarai un solitario, forse non diventerai mai un leader politico, ma che problema è?”.

È questa la posizione dell’intellettuale? “Penso che dovrebbe esserlo. È la posizione di colui che non sente come proprio dovere adeguarsi al proprio tempo, di colui che non si preoccupa unicamente di rispecchiare la realtà, di colui che non vuole essere a tutti i costi contemporaneo”.

Coltivando la speranza di diventare postumo? “Se un intellettuale non nutre speranza di diventare postumo che cosa ci sta a fare!”.

Si resiste anche difendendo valori costituzionali come l’antifascismo? “L’antifascismo implica un fascismo che non mi pare sia all’orizzonte. Le pare che un ministro che cita frasi di Mussolini possa far paura? Esiste semmai il pericolo dello sfascio di una democrazia rappresentativa alla quale subentrerà chissà cosa, ma non certo forme autoritarie di tipo novecentesco”.

E non le sembra uno scenario temibile “Temo di più l’omologazione di massa priva di prospettive critiche, alla quale ci si adegua senza bisogno di censura”.

Il populismo si nutre di questo habitat? “Populismo è un’altra parola abusatissima. Elementi populisti e demagogici sono immanenti in ogni espressione politica. È una tendenza di tutta la politica contemporanea quella a parlare per slogan. Usando un linguaggio in cui prevale l’elemento della promessa”.

I politici di oggi esagerano in retorica? “L’osservazione è semmai un’altra. Nella prima Repubblica l’elemento demagogico si combinava con un elemento fortemente ideologico. L’elemento ideologico crea comunità, un ethos comune, ha una base solida. Da quando le ideologie sono state completamente smantellate, a partire dagli anni ’80-’90, è rimasta solo la sovrastruttura demagogico-populistica”.

Morte le ideologie contano i programmi?  “Ma quali programmi? I programmi servono ad aggiustare i termosifoni, li fanno i tecnici. Non esiste una politica che possa definirsi in chiave semplicemente programmatica. Oggi domina la chiacchiera senza ideologia”.

Dunque senza valori? “O i valori hanno una base ideologica forte, oppure sono chiacchiere”.

E i valori della famiglia tradizionale rivendicati dalla destra? “Ma dai! La famiglia nel nostro sistema socio-economico è la vittima designata (…)”.

Allora l’uguaglianza, che Bobbio considerava valore cardine della sinistra? “È un principio generale in sé contraddittorio. I rivoluzionari francesi capendo che libertà e uguaglianza stanno insieme come capra e cavoli hanno avuto l’accortezza di coniugarle con la fratellanza”.

Ci saranno soluzioni?  “I politici dovrebbero dirci come oggi si può realizzare un programma politico credibile. Come si può realizzare una scuola uguale per tutti o una sanità uguale per tutti? I cosiddetti valori se non vengono normati rimangono pure chiacchiere. Ma oggi i margini per definire dei programmi attuativi sono probabilmente inesistenti. Questa impotenza è il dramma”.

Quindi? “Siamo costretti a vivere nel territorio delle chiacchiere”.

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