“IpaziaeleAltre”. Scrive Valerio Millefoglie in “L’altra metà dell’editoria. Una storia da riscrivere” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 3 di marzo 2023:
(…). Nel 1751 nasce a Venezia Elisabetta
Caminer. «Fu educata ad una scuola di lavoratrici di biancheria e di cuffie
sino ai 14 anni» riporta una biografia dell'epoca, «ed ivi tratta da ignota
forza lasciava a quando a quando i donneschi lavori o per leggere o per
scarabocchiare». Vista parlare con un uomo, «la madre per punirla la collocò
tra i copisti che tenea il padre». Domenico Caminer era scrittore ed editore:
sulla sua rivista L'Europa Letteraria Elisabetta pubblica le sue traduzioni di
Voltaire. In breve diventa la prima giornalista d'Italia, fondando e poi
dirigendo il Giornale enciclopedico; illuminata e illuminista, quando a causa
della censura nessuno vuole stampare la sua rivista apre una tipografia e fa da
sé. Nella corrispondenza, custodita dalla Biblioteca civica Bertoliana di
Vicenza, c'è il suo lavoro: «Ardirò di pregarla d'onorare talora questo foglio
e la sua autrice con qualche cenno, con qualche piccola notizia o estratto che
venendo da Lei gli farà sempre credito e vantaggio» scrive al biologo Lazzaro
Spallanzani. «Mi tacciereste d'indiscreta se vi pregassi di darmi nuove
dell'Estratto del Viaggiatore Francese? Si avvicina il tempo di stamparlo»,
all'indirizzo dello storico Giuseppe Gennari. «Eccole i manifesti», scrive
ancora a un corrispondente ignoto: «Le sarei obbligata se mi procurasse
associati ove non m'è peranche riuscito d'introdur il mio Giornale».
Ricercatrice di saperi, pubblica approfondimenti d'ogni disciplina, novelle e
testi teatrali da lei tradotti. In un articolo intitolato Ritratti degli uomini
illustri in Letteratura Tedesca, inserisce anche una donna: Anna Luigia
Karschin, che con i suoi talenti letterari provvede a sé e ai figli. (…). Di
seguito, “Ipazia, la donna a cui nessuno
ha chiesto scusa” di Silvia Ronchey pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” di ieri, martedì 7 di marzo: Nella primavera del quinto secolo della
nostra era, quando il cristianesimo era stato appena proclamato religione di
Stato, una donna fu brutalmente assassinata ad Alessandria d'Egitto per mandato
di uno dei più potenti vescovi dell'allora giovane Chiesa. Fu aggredita per
strada, spogliata nuda, trascinata nella chiesa cattedrale e qui dilaniata con
cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi, poi i resti
del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme. A massacrarla furono chierici
cristiani al servizio di Cirillo di Alessandria, che allora, della megalopoli
d'Egitto, era bellicoso e potentissimo patriarca. Anche per questo l'assassinio
rimase impunito. L'inchiesta imperiale fu insabbiata, il magistrato incaricato
fu corrotto e Cirillo è tuttora un santo del calendario cristiano. La donna si
chiamava Ipazia ed è da molti, anche in ambito ecclesiastico, considerata una
santa laica. Era una filosofa e una scienziata di immensa fama, che insegnava
su una pubblica cattedra non solo le materie di cui era specialista ma anche la
tolleranza intellettuale e religiosa, la resistenza a ogni integralismo, la
tutela delle minoranze, la separazione del potere spirituale da quello
secolare. La sua posizione rigorosa e l'ascendente che esercitava sui
governanti contrastavano, per il vescovo e i suoi seguaci, con l'essere donna.
Fu questo a valerle il martirio. C'è chi considera il rogo di Ipazia il primo
esempio di caccia alle streghe dell'inquisizione cristiana. Definizione
necessaria ma non sufficiente. Il suo fu un omicidio politico e un vero e
proprio femminicidio, tinto di sadismo e odio di genere. Accanto alle materie
specifiche delle scuole platoniche, Ipazia impartiva un insegnamento sommesso
particolarmente utile alla transizione religiosa dal paganesimo al
cristianesimo. Non era necessario tradire la propria fede o buona fede per
convertirsi. L'Uno di Plotino e il Dio dei cristiani potevano identificarsi.
Della cerchia dei suoi discepoli, che includeva la classe dirigente
alessandrina, pagana, cristiana ed ebraica, faceva parte anche il prefetto
augustale Oreste, massimo rappresentante del governo centrale dell'impero, che
da quasi un secolo aveva sede a Costantinopoli e non più a Roma. Ma Ipazia non
era solo maestra e direttrice di coscienza dei quadri politici laici, tallonati
dalla gerarchia ecclesiastica capitanata dal vescovo. Era una politica lei
stessa. Difendeva i diversi gruppi dai tentativi delle fasce fondamentaliste di
ciascuno di sopraffare gli altri. In particolare, poco prima di venire
assassinata, aveva difeso l'antica comunità ebraica di Alessandria dal
terribile pogrom ordinato da Cirillo. Il fatto di essere la sola donna ammessa
in discussioni politiche riservate agli uomini non la metteva in imbarazzo né
la rendeva meno impassibile e lucida nella sua dialettica. "Non aveva
remore ad apparire alle riunioni degli uomini. Anzi", ricordano le fonti
ecclesiastiche cristiane di parte moderata, "per la sua straordinaria
saggezza tutti i maschi le erano deferenti e la guardavano, se mai, con stupore
e timore reverenziale". Diversa la versione della fazione fondamentalista,
secondo cui Ipazia era una strega "che dedicava tutto il suo tempo alla
magia, agli astrolabi e agli strumenti musicali, e abbindolava molte persone
con i suoi inganni satanici. E il governatore della città", il prefetto
augustale Oreste, "la onorava esageratamente, perché aveva sedotto anche
lui con i suoi incantesimi". Per questo "una moltitudine di credenti
in Dio si mise in marcia per andare a punirla e dopo averla scaraventata giù
dalla sua cattedra la trascinò nella chiesa grande. Qui le strapparono le
vesti, la scannarono e portarono i resti del suo corpo a bruciare sul rogo. E
tutto il popolo cristiano circondò il patriarca Cirillo e lo acclamò perché
aveva liberato la città". Fu "una non piccola infamia questa compiuta
da Cirillo e dalla Chiesa di Alessandria", affermano invece le fonti cristiane
di parte moderata. "Poiché assassini e guerriglie e cose simili sono
qualcosa di totalmente estraneo allo spirito di Cristo". Sarà il giudizio
della chiesa bizantina per circa un millennio. In effetti il proselitismo
armato di Cirillo contraddiceva in pieno la pur astratta idea di tolleranza
propugnata cento anni prima dall'editto di Costantino del 313. Il fatto è che
Cirillo mirava a "erodere e condizionare il potere dello stato oltre ogni
limite mai concesso alla sfera sacerdotale": aspirava a un vero e proprio
potere temporale, più vicino al modello del papato romano che alla rigorosa
separazione dei poteri sancita dallo stato bizantino. Anche per questo, forse,
la posizione ufficiale della chiesa di Roma su Ipazia, malgrado la gravità e la
natura quasi terroristica dell'antico assassinio, è sempre rimasta ambigua.
Solo l'ala modernista del cattolicesimo ha celebrato la sua figura, riaprendo
gli atti di quel mai compiuto processo; così com'è avvenuto da parte laica,
dove la sua memoria è stata coltivata e rinnovata nei secoli e Ipazia è
diventata icona della libertà di pensiero e di ogni martirio subito in suo
nome. Ma da almeno due decenni l'icona di Ipazia ha acquistato una nuova
fortuna mediatica. Non si tratta più del transfert degli intellettuali
illuministi, che in lei vedevano l'effigie della tolleranza e della libertà di
pensiero; o dei letterati romantici, che di lei acclamavano la purezza eroica;
o dei sostenitori del laicismo anticlericale, o del razionalismo scientifico
contrapposto ai dogmi della religione e della fede; o dei cultori
dell'esoterismo neopagano. Tutto questo fa parte della fortuna di Ipazia lungo
i secoli che vanno dall'età dei lumi al ventesimo, un oltrevita che appartiene
a un passato in cui a riconoscersi nel suo personaggio, nella sua tolleranza,
indipendenza, inappartenenza, nel suo martirio laico erano sostanzialmente le
élite intellettuali. Oggi, da icona che era, Ipazia è diventata un simbolo,
perché in lei si sono identificate tante e diverse categorie di individui. Oggi
il simbolo Ipazia non è più di élite ma di massa. Perché Ipazia, (…), è un
astro che i secoli non solo non hanno sbiadito, ma hanno al contrario reso più
vivido, più visibile, più condivisibile, più universale, man mano che
l'istruzione, la lettura, la cultura, la conoscenza del passato si sono estese
dalle élite alle masse. La storia di Ipazia parla a queste ultime perché è
disegnata da una costellazione di simboli impressa nell'esperienza dei più. La
sconfitta, la discriminazione, la violenza, l'ingiustizia apparentemente senza
appello, senza riscatto nel mondo in cui viviamo, ma che riceve la sua
retribuzione da una sempre più folta assemblea di posteri, costruiscono uno dei
miti più universali della condizione umana. In questa donna assassinata da un
potere tanto fanatico e brutale quanto nei secoli impunito sembrano
riconoscersi tutti coloro che hanno subito un torto: chiunque sia stato
perseguitato per fedeltà a un ideale; o sia caduto vittima del fanatismo e
delle intolleranze riemerse nel terzo millennio, delle discriminazioni
religiose, ideologiche, razziali, o ne sia semplicemente turbato. Soprattutto,
da ogni parte e per una massa crescente di persone, il nome di Ipazia è
divenuto il più popolare simbolo di un'ingiustizia millenaria: quella che la
Chiesa cristiana ha inflitto al genere femminile, maltrattato, soggiogato,
perseguitato, quando non bruciato sul rogo dietro accusa di stregoneria. Molte
scuse sono state chieste negli ultimi decenni dalla Chiesa per colpe perpetrate
nel corso della sua storia, ma non ancora per quelle commesse contro le donne.
In tempi in cui si moltiplicano i femminicidi, in cui il genere femminile resta
tuttora vittima di ingiustizia, discriminazione, violenza fisica, una richiesta
di perdono per Ipazia, o quanto meno un pronunciamento autorevole e consapevole
sul suo caso, avrebbe il senso storico e attuale, preciso e universale, di una
scusa rivolta, mediante questa figura esemplare, a tutto il genere femminile, e
di una chiara condanna della violenza contro le donne.
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