“Com’è profondo il mare”
«… Siamo noi, siamo in tanti Ci nascondiamo di notte Per paura degli automobilisti, dei linotipisti Siamo i gatti neri, siamo pessimisti Siamo i cattivi pensieri E non abbiamo da mangiare Com'è profondo il mare Com'è profondo il mare
… Babbo, che eri un gran cacciatore Di quaglie e di fagiani Caccia via queste mosche Che non mi fanno dormire Che mi fanno arrabbiare Com'è profondo il mare Com'è profondo il mare
… È inutile, non c'è più lavoro Non c'è più decoro Dio o chi per lui Sta cercando di dividerci Di farci del male, di farci annegare Com'è profondo il mare Com'è profondo il mare
… Con la forza di un ricatto L'uomo diventò qualcuno Resuscitò anche i morti, spalancò prigioni Bloccò sei treni con relativi vagoni Innalzò per un attimo il povero A un ruolo difficile da mantenere Poi lo lasciò cadere, a piangere e a urlare Solo in mezzo al mare Com'è profondo il mare
… Poi da solo l'urlo diventò un tamburo E il povero come un lampo nel cielo sicuro Cominciò una guerra per conquistare Quello scherzo di terra Che il suo grande cuore doveva coltivare Com'è profondo il mare Com'è profondo il mare
… Ma la terra gli fu portata via Compresa quella rimasta addosso Fu scaraventato in un palazzo, in un fosso Non ricordo bene Poi una storia di catene, bastonate E chirurgia sperimentale Com'è profondo il mare Com'è profondo il mare
… Intanto un mistico, forse un aviatore Inventò la commozione Che rimise d'accordo tutti I belli con i brutti Con qualche danno per i brutti Che si videro consegnare Un pezzo di specchio Così da potersi guardare Com'è profondo il mare Com'è profondo il mare
… Frattanto i pesci Dai quali discendiamo tutti Assistettero curiosi Al dramma collettivo di questo mondo Che a loro indubbiamente doveva sembrar cattivo E cominciarono a pensare Nel loro grande mare Com'è profondo il mare Nel loro grande mare Com'è profondo il mare
… È chiaro che il pensiero dà fastidio Anche se chi pensa è muto come un pesce Anzi un pesce E come pesce è difficile da bloccare Perché lo protegge il mare Com'è profondo il mare
… Certo, chi comanda Non è disposto a fare distinzioni poetiche Il pensiero come l'oceano Non lo puoi bloccare Non lo puoi recintare
… Così stanno bruciando il mare Così stanno uccidendo il mare Così stanno umiliando il mare Così stanno piegando il mare»
Di seguito, “Ho vissuto dal Signor Sputo”, intervista di Emanuela Giampaoli al teologo Vito Mancuso pubblicata sul settimanale “il Venerdì di repubblica” di ieri, 3 di marzo 2023: Un pomeriggio del 2009 il teologo e filosofo Vito Mancuso riceve una mail da Domenico Sputo, lo pseudonimo scelto da Lucio Dalla ancora oggi inciso sul campanello della sua casa bolognese in via d'Azeglio. Quella grande casa-museo in cui il teologo sarebbe poi finito a vivere due mesi con la famiglia, sotto lo stesso tetto del cantautore. All'epoca però Mancuso non sapeva nulla degli pseudonimi di Dalla. "Pensai: che sfortunato questo signore, poi man mano, leggendo la mail, scoprii che si trattava del cantante che amavo da ragazzino. Mi scrisse perché ammirato dai miei testi, li leggeva e rileggeva, ne sottolineava i passaggi significativi, li portava in giro nelle tournée". Fu l'inizio di un'amicizia tra il teologo e il cantautore, una sintonia intellettuale e spirituale stroncata da quell'infarto che il 1° marzo del 2012 si portò improvvisamente via Dalla. Mancuso, cosa accadde dopo quella dimostrazione di stima? "Risposi che ero lusingato dall'attenzione alle mie opere. In particolare amava La vita autentica, mi scrisse di averla letta tre volte, che se avesse avuto un figlio gliel'avrebbe fatta imparare a memoria. In un'altra occasione si firmò addirittura 'con ammirazione da seguace'. Ma si sa, Lucio amava le iperboli".
Quando vi siete conosciuti di persona? "A giugno del 2009 mi invitò al concerto con De Gregori alla reggia di Venaria, in camerino con Lucio e Francesco c'era anche Enzo Bianchi. Eravamo noi quattro. Tra l'altro, De Gregori insieme a Guccini era stato la colonna sonora della mia giovinezza. Più di Dalla, anche se Balla balla ballerino fu una folgorazione per me diciottenne. Una strofa in particolare: 'In questo mondo di ferro e di gesso, l'uomo riesce ad amare lo stesso. Ecco il mistero'. Dopo quella sera abbiamo continuato a sentirci, per ovvie ragioni lasciavo fosse lui a cercarmi. Mi chiamava per raccontarmi cosa faceva, chi aveva sentito, gli interessava il mio parere sulle cose. E ogni volta si raccomandava, se fossi passato da Bologna, di andare ospite da lui".
E così fu e per un lungo periodo. "Sì, nel 2010 con mia moglie e i nostri due figli, all'epoca adolescenti, decidemmo di trasferirci dalla campagna del Monferrato a Bologna, trovammo casa, ma i lavori di ristrutturazione andarono per le lunghe. I miei figli però dovevano iniziare la scuola, osai chiedere a Lucio se potevamo approfittare della sua ospitalità. Pensavo a un appoggio per una settimana o poco più. Mi richiamò nel giro di un'ora per assicurarmi che ne sarebbe stato felicissimo. 'Ti passo Marco (Alemanno, ndr), ti dice tutto' concluse. Alla fine restammo due mesi".
E come andò? "Fu una grazia, per usare un termine teologico. Come l'amicizia di Lucio. All'arrivo ci accolse Marco, ci mostrò quelle stanze fortemente intrise della personalità di chi l'abitava, dove le grandi tele del '600 convivevano con opere di arte contemporanea, insieme ai dischi di platino, d'oro, le colonnine, i cappelli, le foto: Lucio che giocava a basket, l'amata mamma Iole con quella somiglianza impressionante, gli esordi nella jazz band. Marco mi mostrò pure la stanza della preghiera di Lucio, un piccolo studio con un balconcino affacciato sui tetti rossi di Bologna. Lì si raccoglieva, credeva nella preghiera, anche quelle della tradizione, amava molto il Padrenostro, mi confidò. In camera di Lucio c'era anche un grande crocefisso".
E lei con la famiglia dove stava? "Al primo piano, dormivamo in una camera chiamata Stanza del re, vi si accedeva da una porta girevole nascosta in una libreria. Ho sempre pensato che quella casa esprimesse il suo amore per la vita, la curiosità quasi estrema. Un luogo dove all'apparenza regnava il disordine, il caos. Ma per Lucio il caos era un segno divino, una sorta di mistero della vita che proviene dall'alto. Diceva di aver ereditato il caos dalla mamma. Ripeteva che se lui era un musicista, pur non conoscendo una sola nota, era per la madre, una sarta per signore che, a suo dire, non sapeva attaccare un bottone".
Come trascorrevano le giornate in casa Dalla? "Lucio sembrava contento di averci intorno. A volte si cenava insieme, le sere ci invitava nel suo cinemino casalingo, la "stanza dello scemo" la chiamava, allestita con le poltrone trovate in un vecchio cinematografo, a vedere film insieme. Di solito erano i miei figli a raggiungerlo. Si aggirava per casa con i calzini spaiati e scarpe diverse, riceveva amici e collaboratori storici come Tobia Righi. Mi presentò un giovane cantautore, era Marco Mengoni".
Di che cosa parlavate? "Con me voleva confrontarsi soprattutto su Dio, il senso della vita. Un giorno mi portò nella vicina chiesa dei Celestini per mostrarmi il suo posto quando andava a messa. Non per sentire le prediche, per un senso di riconoscenza. Non gli interessava tanto partecipare a una funzione, cercava un momento di raccoglimento, un modo per esprimere gratitudine. 'Sento di aver avuto tantissimo' ripeteva. Viveva la preghiera come restituzione, quasi un give back come dicono gli americani".
E alla morte pensava? "Certo che ci pensava, le sue canzoni lo dimostrano, era intelligente e profondo. Tra l'altro proprio mentre eravamo suoi ospiti stava scrivendo Anche se il tempo passa, me la fece sentire al piano. Un brano sulla caducità dell'esistenza. Era convinto ci fosse un primo e un secondo tempo. 'Questa vita che noi viviamo, è solo il primo di un secondo tempo che sarà' affermava. Il secondo è quello che, se sono vere le cose, sta vivendo adesso".
Un teologo che afferma che potrebbero non essere vere. "A Lucio affascinava l'onestà intellettuale con cui procedo, dubbi compresi. Credeva ma non era un integralista, era assolutamente libero e sovrano anche nella fede. Non ci sono testi devoti nei suoi album, anzi. Era uno spirito critico, un eretico, nel senso letterale, 'che sceglie'. E scegliendo, strappa, lacera, non c'è alcuna ripetizione nel suo lavoro, non è mai convenzionale, apre strade nuove".
E quando non parlavate di Dio? "Discutevamo di tutto, una sera mi intrattenne su Attila, aveva letto qualsiasi cosa, era ferratissimo. Una inspiegabile fascinazione per il re degli Unni. Poi si confidava sugli altri cantanti: Lucio Battisti non gli piaceva, amava, naturalmente, De Gregori benché non ne capisse la ritrosia. Lucio al contrario adorava essere riconosciuto, non si sottraeva mai da foto e selfie. Con Guccini invece non si sono mai presi. Quello che stimava più di ogni altro era Franco Battiato, li accomunava il misticismo. Desiderava lo incontrassi, aveva preso casa in Sicilia a fianco al cantautore siciliano, poi come molte altre cose, non ci fu il tempo".
Che altri progetti avevate? "Mah, per esempio, voleva portarmi nelle fogne di Bologna, nei sotterranei. Diceva che ci aveva accompagnato Patti Smith e le erano piaciuti più dei canali di Venezia".
Ricorda l'ultima volta che vi siete visti? "Lasciai casa di Lucio a novembre 2011, lui se ne è andato il 1° marzo 2012. Di lì a poco mi chiese di presentare il suo ultimo album Questo è Amore alla Feltrinelli. Ci rivedemmo poi ad Arezzo, io avevo una conferenza, lui un impegno personale. Arrivammo nel luogo dell'appuntamento, vedemmo una Porsche parcheggiata malissimo. Mia moglie stava inveendo contro l'imbecille che aveva posteggiato in quel modo quando riconoscemmo la targa 'LD', mai capito come ci fosse riuscito. Ricordo poi una cena a casa sua, il 28 dicembre, il giorno del compleanno di mio figlio Stefano, ci invitò tutti. Voleva bene ai miei figli. Gli regalò dieci lezioni di batteria, sosteneva "tenesse il ritmo", a mia figlia un braccialetto turchese, lo conserva ancora. Conversammo tutta la sera di Bach".
Quando morì da chi lo venne a sapere? "Mi chiamò Romano Montroni, ero a Messina. Tornai a Bologna per i funerali. Mi fu chiesto di leggere la prima lettura e fu un doppio strazio. Un brano della Bibbia che non sopporto: Genesi, 22, il sacrificio di Isacco, uno dei passi più terribili. Un modello di fede, quella di Abramo, che io non tollero. E nemmeno credo sarebbe piaciuto a Lucio. Un Dio che ti dà un coltello per scannare un figlio. La fede come obbedienza senza criterio, anche quando l'etica viene calpestata. Fu doppiamente doloroso, ma penso fosse solo un mio problema".
Ricorda cosa accadde nei giorni successivi? "Marco venne a trovarci diverse volte, si sfogò che nemmeno gli era consentito portare via i regali ricevuti. L'argomento è delicato, ma per come li ho conosciuti io, quello di Lucio per Marco era probabilmente un amore più che altro filiale. Penso che Lucio abbia avuto altri amori in passato, con Marco ho sempre colto un affetto profondo, mai tenerezze esibite. A prescindere dal tipo di relazione, è però fuori discussione che i sentimenti fossero in gioco. E Lucio non avrebbe mai escluso Marco dall'eredità. Una volta affermò scherzosamente di essere uno dei cantanti più ricchi, "solo Vasco guadagna più di me" si inorgogliva".
Però non è stato trovato alcun testamento. "In realtà vedeva diversi notai, aveva già architettato tutto, c'erano diversi progetti testamentari, solo non ha concluso".
In questi undici anni, ripensando alla vostra amicizia, ha capito cosa vi unisse? "La vocazione, una sera ne parlammo. Una chiamata, un'attrazione, un fascino, quasi inspiegabile, qualcosa che uno non cerca, non ha cercato, ma è arrivato. Per me è stato lo studio di ciò che riguarda il divino, per Lucio la musica".
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