Ha scritto Pino Corrias in «La principessina Elly, dall’“Occupy Pd” al patibolo più ambito» pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 13 di marzo 2023:
(…). Viene da lontanissimo, nonni
ucraini e lituani in viaggio dentro al disordine novecentesco del mondo, anche
se è stata assemblata molto vicino a noi, sulle rive sonnolente del Lago di
Lugano. Dove si spera abbia assorbito il massimo della pace interiore, ora che
le toccherà governare il più ingovernabile dei partiti, nove segretari andati
in malora in sedici anni, tutti triturati delle correnti e dal potere, tutti
usciti con i nervi a pezzi, come il penultimo, Nicola Zingaretti, che se ne
andò strillando “Mi vergogno del mio partito!”. E solo l’ultimo senza troppi
clamori, l’Enrico Letta, ma solo perché la politologia di fuffa parigina, gli
ha suggerito un unico lentissimo sospiro di sollievo e un misterioso melograno
d’addio. Elly ha un fotovoltaico incorporato. Alla maniera di Giorgia, sebbene
piazzato nell’emisfero filosofico opposto. Ha svegliato con una scossa il pd
dal suo lungo sonno della ragione. Un milione e passa di eroici votanti l’hanno
innalzata fino al patibolo più ambito, il Nazareno, condannandola a cercare il
nuovo Graal della sinistra, che lei, amante dei più moderni dialetti
generazionali, chiama intersezionalità. Intersezionalità è un non maschile e un
non femminile che aleggia instabile tra i generi e le identità sociali. È il
punto nello spazio dove, di volta in volta, si incrociano le istanze
dell’anima, anzi del cuore che siano ecologiste, progressiste e femministe. Ma
è anche il punto dove differenti discriminazioni sociali e diseguaglianze si
intrecciano e si aggravano. “Di più: le discriminazioni discendono da sistemi
oppressivi che pure si combinano tra loro e si legittimano reciprocamente”. Alla
nuova politica della buona sinistra – che è multipla, anzi molteplice con
attitudine al pulviscolare – il compito di identificarle, radiografarle,
trovare i rimedi al modello di sviluppo che (invece) le alimenta. A lei il
compito di diventare il ponte tra le diverse piazze. Il ponte come lo intendeva
Alex Langer, il più impolitico tra i politici di professione, suo massimo
ispiratore, che viaggiava leggero tra tutte le minoranze del pianeta comprese
quelle dei profughi e dei migranti. Anche se lei lo asseconda e lo applica con
un sovrappiù di realismo, visto che “le piazze da sole non bastano”, alle
piazze bisogna aggiungere “i luoghi dove si decidono le cose”. Nel suo caso,
prendendosi il partito sulle spalle. Verso il potere, quando sarà. Oppure verso
il suo contrario, la dissoluzione definitiva, bye bye pd, come già prefigurano
gli eterni brontoloni alla Cacciari, e certe componenti di antico conio
democristiano, tipo l’esule Fioroni. Ma Fioroni chi? Elena Ethel Schlein, detta
Elly, nasce a Lugano nella bambagia delle élite, anno 1985. Il padre Melvin è
americano, ebreo ashkenazita, insegna Scienze politiche alla John Hopkins
University. La madre, Maria Paolo Viviani, è docente alla Facoltà di Legge a
Milano. È figlia di Agostino Viviani, senatore socialista, padre di tante
battaglie per i diritti civili, uno dei molti galantuomini che se ne andranno
dal partito negli anni prepotenti di Craxi re. Elly cresce insofferente
all’acquario svizzero. Suona la chitarra elettrica. Frequenta i pochi
eccentrici in circolazione. È fluida, veloce e anche spigolosa. Dopo il
diploma, a 18 anni, soffocata dall’ordine, si infila nel disordine del Dams di
Bologna, dove mastica la prima politica, le prime occupazioni: “Ho imparato a
volantinare in piazza senza sentirmi una sfigata”. Lascia il Dams, vira a
Giurisprudenza. Si laurea in Legge. A 22 anni, affascinata dal carisma di
Barack Obama, parte con il suo passaporto americano in tasca, per Chicago,
volontaria nella campagna presidenziale che “univa fasce sociali differenti tra
loro”, i ceti medi e i diseredati, le casalinghe e gli studenti ribelli, i
veterani neri e i pensionati bianchi. La molteplicità dei diversi è il suo
imprinting. Al quale aggiunge il suo personale coming out, “amo uomini e
donne”, sono intera nelle differenze. Di più: “Sono la somma di storie diverse
e incompiute”. Quando torna nella Bologna “che culla i suoi figli adottivi”,
diventa militante a tempo pieno nel nuovo partito democratico, post Ulivo,
parola d’ordine “I care”, mi prendo cura. Ma risulterà vero il contrario, visto
quanto i famosi 101 anonimi si prenderanno cura di Romano Prodi, candidato al
Quirinale, per affondarlo. Furiosamente Elly si indigna. Cavalca con gli
insorti di “Occupy Pd”. Critica il governo Letta che nasce dentro l’ombra del
nemico di sempre, Silvio B. Si incanta persino davanti alle smargiassate
fiorentine dell’astro nascente Matteo Renzi. Crede anche a lui, il tempo di
candidarsi alle Europee, anno 2014, venire eletta con 54 mila preferenze (“Un
miracolo!”) per poi accorgersi che anche Renzi si prende cura, ma solo di se stesso:
guadagna all’estero e agli italiani che lavorano regala l’abolizione
dell’articolo 18, nuovi accordi con Silvio B., e un po’ di precariato in più. Elly
si sveglia di soprassalto e si dimette dal pd. A Bruxelles lavora sui dossier
migranti. Incalza Matteo Salvini che chiama “il fuggitivo”, dalla velocità con
cui scappa dai suoi doveri di europarlamentare prima, e di ministro
dell’Interno poi. Nel 2020 si candida alle regionali, parla di salario minimo,
diritti civili, transizione ecologica, sintonia programmatica con i Cinque
stelle. Naviga le piazze con le nascenti Sardine, fino alla foce,
vicepresidente della Regione Emilia Romagna, un passo alla sinistra di Stefano
Bonaccini, compagno di strada e rivale. Nemico e alleato. Specialmente ora che
dopo averlo battuto alle primarie per il partito, lo ha scelto suo scenografico
presidente, nonostante i Ray-Ban a goccia. Durerà? Dureranno? La Destra senza
testa, perde la testa e rosica: è troppo ricca; è troppo radical chic; ha tre
passaporti; è sessualmente immorale; addirittura parla tre lingue, la
principessina! Per Elly è un buon inizio. Per noi, vale l’intersezione tra una
speranza e un vedremo. Ha scritto in merito alla elezione di Elly
Schlein Barbara Spinelli – in «Schlein,
non basta dire “novità”» su il “Fatto Quotidiano” del 7 di marzo ultimo -: Se
davvero vuol rappresentare una novità, e riportare in vita il Partito
democratico, Elly Schlein non potrà ignorare un
fatto difficilmente confutabile: la resurrezione di un pensiero profondo, su
guerra e migranti, non coincide al momento con l’europeismo, articolo di fede
imposto a chiunque voglia governare o legittimamente opporsi o dirigere un
giornale mainstream.(…). Nelle élite italiane non esiste
contrasto di opinioni sull’Ucraina, con l’eccezione di Conte che durante il
governo Draghi votò l’invio di armi ma nutrì presto dubbi sugli invii senza
sbocchi negoziali. Il Pd invece non conosce dubbi, né con Letta né con Schlein.
Da quando Mosca ha inopinatamente invaso l’Ucraina è stato uno dei più ardenti
fautori non tanto della resistenza all’aggressore, ma dell’escalation di una
guerra che è per procura, essendo prolungata da Washington per abbattere Putin
e forse smembrare la Russia, se si considera la natura sempre più offensiva
delle armi garantite a Kiev e le ripetute offensive ucraine in territorio
russo. C’è da temere che Elly Schlein continui a tergiversare su questa
questione. Reclamare negoziati è fatuo, se si insiste nell’invio di armi e non
si indica chiaramente cosa potrebbe cedere Mosca e cosa Kiev, perché l’ecatombe
finisca. In sostanza non viene smentito quel che garantirono Draghi e Letta: le
armi favoriranno la trattativa. L’equazione non ha funzionato. Non basta
l’invito retorico alla “pace giusta”, specie se decisa sul terreno di
battaglia. (…). Viene poi la politica migratoria. Schlein ripete che solo
l’Europa può rintuzzare gli scempi di Giorgia Meloni, ma l’Unione è da tempo in
favore di accordi con Paesi del Nord Africa e con Turchia volti a
“esternalizzare” le politiche di asilo: anche questo è “pensiero di gruppo” e
Meloni è in ottima compagnia. Lo era nel 2017 quando Gentiloni era presidente
del Consiglio e Marco Minniti ministro dell’Interno, e quest’ultimo concluse un
memorandum con Tripoli accettando che i migranti venissero riportati nei
mortiferi lager libici e imponendo regole restrittive alle Ong che fanno
Ricerca e Salvataggio. Il naufragio di Crotone non sorprende. Si
poteva evitare, se l’Italia e l’Unione europea si fossero dotati di una
politica di Ricerca e Salvataggio (Sar) dopo l’abbandono dell’operazione Mare
Nostrum: operazione che l’Ue si rifiutò di europeizzare. Queste cose Elly
Schlein non le dice, pur sapendole. Denuncia opportunamente la cialtroneria del
ministro dell’Interno Piantedosi (denota abissale ignoranza l’uso della frase
di Kennedy: che i profughi evitino di “mettere in pericolo i figli” e pensino
non a se stessi ma “a quel che possono fare per i propri Paesi”) ma non dice
che la militarizzazione delle frontiere – nel caso di Crotone le operazioni
poliziesche della Guardia di finanza anziché l’invio in mare della Guardia
Costiera specializzata in Ricerca e Salvataggio – è una scelta fatta propria
dall’Unione, non solo dall’Italia. Schlein ripete spesso che la revisione del
Trattato di Dublino approvata nel 2017 dal Parlamento europeo (relatrice
Cecilia Wikström, liberale, Schlein era relatrice-ombra per il gruppo
socialista) fu avversata dall’estrema destra. Ma non può non sapere che il
rapporto Wikström era giusto un primo passo, e non avrebbe mai ottenuto l’approvazione
degli Stati membri sui ricollocamenti “automatici” e non semplicemente
volontari dei profughi che approdano prioritariamente in Italia e Grecia. Anche
in questo caso non basta ricordare che i migranti fuggono da guerre e
dispotismi, e per legge hanno diritto all’asilo. È l’ora di dire che gran parte
di quelle guerre e carestie le attizziamo noi occidentali con sanzioni o
investimenti predatori che impoveriscono i popoli, e con guerre di “cambi di
regime” che fanno comodo geopoliticamente (non fa comodo, invece, difendere i
palestinesi dall’occupazione israeliana). Delle conseguenze di tali guerre
siamo responsabili. Il Pd si rinnoverà quando criticherà radicalmente non solo
la destra al governo, ma anche l’Europa di oggi. Un po’ come fece Giuseppe
Conte durante il Covid, quando costruì un’alleanza fra nove Paesi membri (tra
cui Francia e Spagna), decisi a ottenere un comune indebitamento Ue e un
Recovery Plan che superasse la nefasta divisione fra l’austerità imposta dai
Paesi creditori e la sottomissione dei debitori. Fu l’ultimo gesto dignitoso
dell’Unione europea.
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