Catanzaro, 1948. "Con il cane".
"Un ricordo che dissolve in un tempo passato;
un fanciullo immerso in un frinire assoluto;
un vagare per campi appena mietuti;
un raccogliere spighe in preziosi mazzetti;
un rincorrersi felici ebbri di vita.
Un raccogliere poi sempre altre turgide spighe;
un amarle per i pensieri che esse dischiudono;
un serbarle come prezioso dono del sapere;
un offrirle, raccolte, con gioia;
un volerle tenere vicine,
come pensieri profondi di vita vissuta”.
Da “Spicilegio di un educatore”. Dicembre 2001.
Un rammarico. Non ricordare, (…), gli Autori che, con il loro scrivere, hanno dischiuso insperati orizzonti di idee e di riflessioni. È come non avere più, nella memoria, quel tale “campo arato” della conoscenza e delle idee dal quale quella tale “spiga d’oro” ha illuminato, come un raggio di sole, la mia mente di uomo, la mia coscienza di educatore. (…). Un trasalimento ancora. È tornare ad un fanciullo goloso, al riparo di un ripiano di un nero banco scolastico. Una leccornia amorevolmente infilata nella cartelletta dalla mamma premurosa, il suo gustarne l’infinita prelibatezza, al riparo degli occhi vigili di un canuto maestro. Un ricevere, inattesa, una pesante campana di ottone, strumento di richiamo solenne ed imperioso al silenzio per noi scolaretti, sulla parte del capo non protetta dal ripiano nero del banco. Un improvviso riemergere con le gote rigonfie, un palpitare del cuore come non mai, un sentirsi colpevole ed inerme per un atto compiuto con l’infinita semplicità di un fanciullo. Un ricordo che ritorna ancora chiaro dopo tanti e tanti lustri, a fissare in una perenne e folgorante immagine una oramai lontana giornata di scuola che il trascorrere veloce del tempo non cancellerà mai più. Di seguito, “Preferisco scrivere della lezione imparata dal gatto” di Ray Banhoff pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 12 di marzo 2023: I primi due anni del liceo non brillavo: ero troppo impegnato a osservare la vita e sentirmici mezzo dentro e mezzo fuori, per poter studiare. Avevo un taglio di capelli improbabile, i piedi giganti e una camminata sghemba tipo Pippo della Disney. Unica abilità: nelle ore di italiano il tema mi usciva facile come l'acqua dalla cannella. Campavo di rendita, non cercavo di migliorare, con il minimo sforzo intortavo l'insegnante e facevo un figurone coi compagni tutti persi nel loro magma emotivo e incapaci di tramutarlo in parole. Mi sentivo un ladro. C'ho messo una vita per non sentirmi più così; anni di psicoterapia, o semplicemente anni di crescita, prima di accettarmi per come ero. «Ci vuole un fisico speciale/Per fare quello che ti pare/Perché di solito a nessuno/Vai bene così come sei». Suona familiare? Ogni giorno celebrità e pubblicità ci dicono che siamo speciali, «unici», ma chi è davvero interessato alle nostre camminate goffe, alle nostre inadeguatezze? È per nasconderle che s'impara a scimmiottare gli altri, che pensiamo siano «giusti», adeguati, e perdiamo noi stessi. Suona familiare? Quando arrivo a scrivere la rubrica per una delle testate più importanti d'Europa, una testata che ha fatto la storia del costume italiano, nella pagina che fino a prima di me ospitava un nome sacro, la paura di sputtanarmi è altissima. Devo parlare con la mia voce o fare come facevo al tema in classe: sfruttare temi per l'applauso facile? Dovrei parlare di cose serie. Ansia. Suona familiare? Se mi mettessi qui a darmi un tono e a blaterare di tragedie, geopolitica o scandali, con la giacca e l'ultimo bottone della camicia slacciato a mo' degli intellettuali in tv (rigorosamente senza cravatta perché la cravatta è solo per i politici o per gli intellettuali di destra e in questo Paese nessuno definisce «intellettuale» uno di destra), sarebbe peggio che barare al tema. Non sarei io. Suona familiare? La mia vita è come quella di tutti voi. Esco di casa e m'incazzo al semaforo se quello davanti non parte, tengo il riscaldamento spento il più possibile per paura della bolletta, insomma... tiro avanti. Quando arrivo qui mi passa la voglia di parlare di politica, o persino di leggerne. Quando leggo, voglio vagare lontano almeno con la mente e, quando scrivo, voglio liberare la mia curiosità. Quando leggo, le poche volte che ci riesco visti i tempi di attenzione distrutti dallo smartphone e dai social (una vera emergenza di cui la politica non si cura; in Francia propongono di proibirli sotto i 15 anni di età e noi siamo lontani anni luce anche solo a pensarci), voglio godere. Non ne posso più di retorica, di ascoltare frasi come «dobbiamo adoperarci affinché un naufragio come quello di Cutro non avvenga mai più», sapendo che invece avverrà ancora e che tradurre le parole in atti concreti richiede decenni di lavoro. Mi pare offensivo per il buon senso. Quindi cerco lezioni altrove, soprattutto che non arrivino da maestri oratori di giornali o tv. Oggi, per esempio, ho osservato un gatto che dopo la convalescenza da un intervento non si è fatto vedere per tre mesi. Poi è spuntato da un cespuglio e si è fatto accarezzare, quando finalmente si sentiva pronto per farlo. È stato così naturale, così vero. Ho imparato più dal gatto in un gesto che dall'ultima settimana di lettura dei quotidiani. Se vi capita, ascoltate i gatti.
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