Sopra. "Ratto d'Europa" (1639) di Francesco Albani.
Ha scritto Raniero La Valle in “Ahi serva Europa, in balia di armi, denaro e potenti” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 29 di marzo 2023:
“Ahi serva Italia, di dolore
ostello…”. Quando Dante scriveva queste parole l’Italia era un faro di civiltà,
un giardino di bellezza, la culla del pensiero. Però non sapeva leggere i segni
dei tempi, era in balia dei potenti, tradiva le sue origini e non riusciva a
stare senza guerra. Questo si potrebbe dire oggi dell’Europa, serva delle armi
e del denaro, chiusa nel suo egoismo, dimentica dei suoi ideali, sovversiva
delle ragioni stesse per cui è nata. (…). L’Unione Europea ha fallito sulle sue
due massime responsabilità, la pace e l’immigrazione, le due massime cure in
cui ne andava della sua “identità culturale”, secondo il “progetto di pace e
amicizia che ne è il fondamento”, come aveva detto Francesco al Consiglio
europeo del 25 novembre 2014. La pace l’hanno licenziata a tempo indeterminato
non solo i suoi cattivi capi, i suoi membri più atlantici, a cominciare dal
Regno Unito, che arriva a promettere armi a componenti nucleari, ma anche i due
personaggi che ne dovrebbero rappresentare l’unità e lo sguardo sul mondo, Ursula Von der Leyne
e Jens Stoltenberg, l’una pavesata con i colori di un Paese in guerra, l’altro,
dimentico della storia, andato a chiedere di votare i “crediti di guerra” ai partiti socialisti a
Bruxelles, come alla vigilia della prima guerra mondiale. Ma non solo: l’Europa
non capisce nemmeno quello che, se mossi da probità professionale, le stanno
dicendo gli esperti di geopolitica: che il suo vero “competitore” sono gli
Stati Uniti, che per averla vassalla sono interessati a tenerla in guerra senza
fine, vogliono dominarla col loro gas e i loro prodotti più avanzati, che non
per niente hanno fatto saltare l’oleodotto che univa la Russia al resto
dell’Europa. E non c’è nemmeno bisogno di particolari doti interpretative:
l’hanno scritto gli Stati Uniti nella loro “Strategia della sicurezza nazionale”
che la loro sicurezza, la loro difesa e l’obiettivo della loro bulimia
militare stanno nel fatto che non vi sia
alcuna potenza al mondo che non solo non superi, ma “nemmeno eguagli” la
potenza americana. E se c’è una potenza che potrebbe osare eguagliarla non è la
Russia, data già per disfatta, né la Cina, designata come suprema sfida del
futuro, ma è l’Europa che, se facesse una politica meno suicida, potrebbe già
ora competere economicamente e grazie alla proiezione della sua cultura, con l’egemonia
degli Stati Uniti; ciò che potrebbe e dovrebbe fare proprio restando loro amica
ed alleata per costruire insieme “un mondo libero, aperto, prospero e sicuro”,
come essi lo vogliono, aiutandoli a evitare gli errori, come quello che fanno,
e che facevano ben prima dei crimini di Putin, col volere la fine della Russia.
Certo non è alzando l’età di pensione e gettando un Paese intero in una lotta
sociale ad oltranza, non è stando appesi alle labbra e al “Crimea o morte” di
Zelenski, non è dicendo “nazione” per non dire “fascismo”, né incentivando le
fabbriche a stipulare contratti pluriennali
per la costruzione di armi che avranno bisogno di altrettanti anni per
essere consumate sui campi di battaglia, sulle città e sui famosi vecchi e bambini costretti a morire anche
loro in guerra, non è con queste scelte che l’Europa potrà ritrovare la sua
dignità, la nobiltà delle sue origini, gli ideali che l’hanno spinta ad
unirsi. È per quegli ideali, non per
essere “provincia” di un Impero che l’Europa è nata, con la vocazione ad
attraversare il Mediterraneo e a guardare a Sud, a Israele alla Palestina e al
mondo arabo, ad Est, alla Russia e alla Turchia, e ad Ovest, non solo a
un’America sola, ma a tutte e due; e non è togliendo ai suoi popoli la loro
tutela sociale che l’Europa unita sarà in grado di prevalere, politicamente e
culturalmente, sui sovranismi. Ma allora quale politica dovremmo fare? (…). Di
seguito, “Non uccidete il sogno
dell’Europa” di Paolo Rumiz pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del
28 di marzo ultimo: Povera Europa, trincea estrema dei diritti, delle regole e delle
garanzie, oggi così frastornata e genuflessa. Irriconoscibile. A Bruxelles ho
visto la notte d'inverno inghiottire il gigantesco palazzo dell'Unione mentre
per strada sciami di lobbisti e funzionari andavano in cerca dell'aperitivo.
C'erano l'industria farmaceutica, i rappresentanti del gas e del carbone, i
venditori di software. Mancava il sogno. Era assente quell'affascinante profumo
di diversità che fiutavo già da bambino, a Trieste, nelle ninne nanne in
tedesco della nonna, nella nostalgia dei profughi istriani e dalmati, nel
confine alle porte di casa e nella quotidiana intimità col mondo slavo... Per
una vita non ho fatto che cercarti, Europa. Ti ho viaggiata per mare e per
terra, a piedi e su treni d'inverno, dall'Atlantico all'Egeo, dall'Artico a
Odessa, da Trieste a Kiev e Mosca, e da Berlino a Istanbul. Mi sono affacciato
dai Carpazi sulla pianura dove il Sole arriva dagli Urali, ti ho seguita lungo
il luccichio del Danubio, del Niemen e del Guadalquivir. Dall'Irlanda alla
Turchia, ho bussato ai monasteri che ti hanno salvata dalla devastazione
barbarica. Ho esposto la tua bandiera, ti ho dedicato libri. Dalle Alpi alla
Sicilia, mi sono sfinito per narrarti, nelle piazze, nelle scuole e in
compagnia di un'orchestra sinfonica di giovani, stupendi figli tuoi, venuti da
Italia, Inghilterra, Austria, Russia e altrove. Mai ho trovato nel mondo un
concentrato di diversità paragonabile al tuo. Ma ora dove sei finita? Nessuna
comunione di popoli può reggere in assenza di un epos delle origini. Le regole
e i programmi non bastano. Per questo, quando anche il sogno è perduto, non
resta che il mito. (…). Un ancoraggio su cui costruire un patriottismo comune
capace di combattere la deriva verso la frammentazione. Europa è "il sogno
di chi viene respinto", commenta uno dei protagonisti della storia (dalla
postfazione di Paolo Rumiz a "Canto
per Europa", editrice Feltrinelli pagg. 336, euro 13 n.d.r.),
intuendo che l'utopia della Terra del tramonto vive più nel cuore stremato dei
migranti che in quello dei popoli dell'Unione. Egli sa che in quelle genti in
fuga cova un desiderio disperato e lancinante, un "Mal d'Europa" per
certi aspetti simmetrico al "Mal d'Africa" che può esistere in alcuni
occidentali. Ma ecco come tutto è cominciato. Era una notte, a Santa Maria di
Leuca, dove Jonio e Adriatico si toccano spumeggiando ai piedi di un grande
faro. Una chiatta di migranti era naufragata e, alla luce delle fotoelettriche,
un sacco bianco era stato deposto sul molo da una motovedetta. Conteneva, mi
dissero, il corpo di una somala incinta, una di molte donne annegate, forse
scaraventate tra le onde dagli scafisti. Accanto a quel corpo, un uomo in
piedi, un ciclope possente, in lacrime come un bambino. Un palombaro, che aveva
conosciuto il peggio del mare, un testimone di questo Mediterraneo mattatoio e
cimitero. Cosa aveva visto per piangere a quel modo? Da allora, la donna senza
volto cominciò a svegliarmi, notte dopo notte. Chiedeva di avere un nome, una
storia. Era il gennaio del 2016. Non ebbi pace finché, nel luglio dello stesso
anno, in Sicilia, vissi una nuova epifania. Centinaia di profughi stavano
sbarcando da una nave di soccorso a Porto Empedocle. Venivano da Siria, Egitto,
Afghanistan. Erano stati al largo più di un mese, rifiutati da tutti.
Scendevano barcollando da una passerella con addosso dei salvagente gialli. La
nave emanava puzza di vomito e cherosene. Le donne, una dozzina, quasi tutte
siriane, furono separate dagli uomini e condotte su uno spazio di banchina
casualmente coperto da un grande telo turchino. Lì si sedettero in cerchio,
come per condividere ritualmente, guardandosi negli occhi, la solennità del
momento. Fu un tuffo al cuore. Il cerchio giallo in campo blu disegnava la mia
costellazione, la bandiera dell'Unione. E proprio in quell'attimo una delle
donne cominciò a cantare, a bassa voce, un'incantevole nenia d'Oriente che al
mio orecchio parve esprimere il dolore della patria perduta e insieme la
speranza di un mondo nuovo. La giovane avrà avuto vent'anni. I capelli neri
tagliavano come un'ala di corvo un profilo semita affilato che sembrava
separare due facce di una stessa moneta. Una era dolce, materna; l'altra
esprimeva la durezza della volontà. Un'ambivalenza che riassumeva il mistero
del Femminile. La ragazza siriana, che aveva attraversato il mare con paura,
dava un'identità alla donna del sacco bianco. Una faccia, una voce, un nome. Come
avevo fatto a non accorgermi che il mio continente era femmina, come l'Asia o
l'America? Tutta colpa di un inutile articolo. Bastò toglierlo, bastò dire ad
alta voce "Europa", anziché "l'Europa", e la terra dei miei
avi si fece carne. Apparve per ciò che era: una creatura da difendere, non più
un brandello di carta geografica. Così riletta, generava un nome proprio,
innescava una narrazione, creava un legame, un'appartenenza. Quella che si
accende in alcuni di noi quando siamo lontani da casa o quando ci accorgiamo di
quanto difficile e precaria sia la vita nel resto del mondo. Non avrei più
dimenticato quella piccola migrante. Mettendomi di fronte al destino di un
continente fatto di popoli venuti da lontano, essa reincarnava il mito della
principessa fenicia di nome Europa, rapita da Giove-toro e traghettata a forza
verso il grande capolinea della notte. A Porto Empedocle capii che la donna,
non il dio stupratore, era la protagonista di quella storia. Essa svelava
l'essenza femminile del nostro mondo assediato da bellicose autocrazie
maschiliste, e la nostra discendenza da una creatura d'Oriente, portatrice di
sangue nuovo. Chiariva che il nostro legame con l'Asia era indissolubile e
l'unico nostro vero confine stava a ovest, sul grande nulla dell'oceano.
Confermava la nostra appartenenza al Mediterraneo, il mare della complessità,
dove erano nate la democrazia, la filosofia e la tutela dei diritti. Un mondo
baciato dalla fortuna, benedetto da un dio sceso tra i mortali per farsi carne
in una donna. La gente ha sete di senso, di storie. La spasmodica attenzione
che esprime quando le racconti il mito denuncia il vuoto narrativo in cui è
abbandonata dalla politica e dalle istituzioni. È magnifico vedere centinaia di
occhi accendersi quando spieghi che l'Occidente siamo noi, non l'Oltreoceano,
perché "Europa" deriva da "Erebu", parola dell'accadico,
antica lingua mesopotamica, e vuol dire "Terra del tramonto", il
luogo dove si inabissa il firmamento; oppure quando ricordi il pensiero che
Eschilo espresse dopo la vittoria dei suoi Greci sull'Asia persiana: "I
vincitori si salveranno solo se sapranno rispettare i templi e gli dei dei
vinti". Europa è il Partenone che non viene distrutto, ma che da tempio
diventa chiesa, poi moschea e poi museo. È civiltà costruita sulle colonne dei
vinti. È la tragedia greca che rappresenta il dolore degli sconfitti (vedi la
tragedia I Persiani) come le indegnità dei vincitori (vedi l'Iliade, dove gli
Achei massacrano donne e bambini a Troia). È una cultura che non nasconde la
bestia che è in noi, al contrario della propaganda ipocrita che oggi spaccia
per ethos il diritto brutale del più forte. Europa è la generazione immensa dei
primi monaci benedettini che, senz'armi, cristianizzano milioni di barbari. È
Enea - eroe asiatico come Europa - sconfitto, che fugge da Troia distrutta col
padre sulle spalle e il figlioletto per mano, diventa migrante e, attraverso
Roma, fonda una potenza continentale dove gli imperatori saranno anche
spagnoli, africani, illirici. Perché le nazioni si imbevono di miti e l'Europa
no? In questo vuoto ci ritroviamo soli e balbettanti sul baratro di un mondo
virtuale che ci distoglie da una realtà di saccheggio e cinismo. Il paradosso è
che, oggi, i popoli dell'Unione si conoscono tra loro assai meno di quando
esistevano i confini.
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