Sopra."Al n. 30", acquerello (2022) di Anna Fiore.
“La nostra vita fatta a macchie” di Annie Ernaux – “Premio Nobel” per la letteratura 2022 - pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” dell’11 di febbraio 2023: In un castello della Loira è possibile vedere, incrostata nella pietra di un gradino, una macchia di sangue. È di un uomo assassinato durante la notte di San Bartolomeo, una macchia vecchia più di tre secoli. Non ricordo il nome del castello, né se il sangue sia di un cattolico o, più verosimilmente, di un protestante. Non so nemmeno se quella macchia esista davvero. È stata la signorina Aubé a raccontarci questa storia alle elementari, non l'ho mai dimenticata.
Sono affascinata dalle macchie, di sangue, di sperma, impresse
sulle lenzuola o sui materassi logori abbandonati sui marciapiedi, le macchie
di vino e di cibo, incrostate nel legno di tavoli e credenze, le tracce di
caffè e le ditate unte sul retro delle vecchie foto passate di mano in mano
alla fine dei pranzi di famiglia. Macchie organiche, materiali. È il tempo
umano, animale, impresso e fissato, divenuto materia. In tutt'altra direzione,
le ombre dei mobili disegnate sulle pareti al tramonto, le macchie di sole
nella penombra di una camera in estate. L'evanescenza e la leggerezza della
luce. Dell'aldilà. Mi ricordo la grande macchia rosata, acqua e sangue,
lasciata sul cuscino del letto dei miei genitori dalla gatta morta che, al mio
rientro da una festa al collegio, nel tardo pomeriggio, era già stata
seppellita. Si era svuotata prima di morire, avvelenata dai gattini già morti
all'interno del suo ventre. La leggera traccia rossa sulle mutandine che per
diversi mesi ho conservato nell'armadio, nascoste sotto i vestiti, a diciotto
anni. Quelle che avevo indossato al mattino dopo la mia prima notte con C. e
che testimoniavano la mia semi-deflorazione. La grossa macchia scura, che
resisteva a ogni lavaggio, su un lenzuolo appartenuto a mia nonna, deceduta.
Medicamenti, tintura di iodio, diceva mia madre. Io quel lenzuolo nel mio letto
non ce lo volevo. Una chiazza di gelato al cioccolato su una pagina della
grammatica latina dell'abate Ragon che ho usato dalle medie fino al quarto anno
di liceo. Era colata da un cono che mia madre mi aveva portato "dalla
città" in un'afosa giornata di mercato, nell'estate dei miei tredici anni.
Sulla via del ritorno lei aveva allungato il passo ed era arrivata tutta
sudata, ma il gelato aveva già cominciato a sciogliersi. L'avevo mangiato
subito, nella mia stanza, mentre ripassavo le coniugazioni dei verbi latini per
l'inizio dell'anno scolastico. Il frigorifero non l'avevamo. La macchia è
ancora lì, fissata indelebilmente da una striscia di scotch che, più tardi, è
servita a riparare uno strappo sulla stessa pagina. Era l'amore a fondo perduto
di mia madre. La cornice nella camera dei miei genitori con la raffigurazione
in bianco e nero, sfocata, di un viso maschile emaciato, sofferente, gli occhi
chiusi. Da bambina quel quadro mi spaventava. A lezione di religione ho
conosciuto la storia di santa Veronica che aveva posato il velo, quello con cui
si copriva i capelli, sul volto insanguinato di Cristo morto sulla croce,
imprimendovelo per l'eternità. Era una sorta di foto, insomma. Mi turbava,
Cristo sembrava un uomo qualunque. La cartolina che mi aveva regalato un'amica
di Le Havre, una fotografia della regina Elisabetta II d'Inghilterra nel giorno
dell'incoronazione. Sul retro c'era una macchiolina marrone la cui natura
indefinibile mi ripugnava, al contrario di quanto sarebbe accaduto con una
macchia identificabile, ad esempio di inchiostro o di rossetto. Non sono mai
riuscita a guardare quella foto della regina senza associarla subito al
pensiero della macchia sul retro. Adesso quella cartolina, che non ho più, non
mi provocherebbe alcun disgusto, avrebbe il valore affettivo di una cosa degli
anni Cinquanta. Un romanzo giallo della collana Le Masque che mio zio Raymond
leggeva e rileggeva, intitolato Macchie di sangue. Avevo dodici anni,
inevitabilmente pensavo a quelle delle mestruazioni. Ero ossessionata dal
desiderio che venissero anche a me. Alcune donne dicevano "è da due anni
che non ne vedo più", o chiedevano "quand'è l'ultima volta che ne hai
viste?". Agli uomini servirebbe vederne, di sangue, per smettere di
volerne versare. In Kosovo, come in molti altri Paesi, dopo la prima notte di
nozze i giovani mariti zigani esibiscono le lenzuola macchiate di sangue. Non
solo, con il sangue e con lo sperma devono premurarsi di disegnare fiori,
figure, che gli invitati sono chiamati a decifrare. Sul lenzuolo si legge il
futuro. In seguito lo lavano con il vino, che si pensa sia in grado di togliere
le macchie di sangue. Probabilmente serve soltanto a mascherarle. La macchia
come realtà del mondo. Vorrei che le mie parole fossero come macchie, mute e
pesanti, alle quali non ci si può sottrarre.
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