Ha scritto Gustavo Zagrebelsky in
«Quanti abusi in nome della “libertà”»
pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 20 di marzo 2023:
(…). Siamo
tutti per la libertà! Dove ci sono violenza, stupri, arbitri, oppressioni,
pregiudizi, conformismo, ignoranza, ossessioni, paure, sfruttamento, schiavitù,
s’invoca e si combatte per la libertà. Questo è tanto giusto e ovvio che non ha
bisogno di commento. Meno ovvio è che la si invochi anche al contrario, per
schiacciarla, la libertà. È una bella parola, a disposizione di tutti. (…). Le
cose ignobili sono sempre quelle che dovrebbero attirare per prime la nostra
attenzione. Prendiamo nota che in nome della libertà, della libera ricerca
della felicità, come sta scritto nella Dichiarazione d’indipendenza americana
del 1776, l’immenso West si considerò spazio vuoto a disposizione dei coloni e
dell’esercito federale, e lì si consumò uno dei maggiori genocidi che la storia
abbia conosciuto, contro la “grande nazione indiana” che popolava l’intero
continente. La Libertà, il colosso con la fiaccola in mano, accoglie il
viaggiatore che sbarca a Manhattan, ignaro che quella terra fu “acquistata”
dagli olandesi per poche perline e cianfrusaglie dalla tribù dei nativi che non
conoscevano che cosa volesse dire proprietà. In nome della libertà persero la
loro terra e, molti, la loro vita. Che cosa di diverso fecero i conquistadores
nel centro e nel sud delle Americhe? Erano alla ricerca dell’oro, ma dicevano
d’essere venuti a liberare quei selvaggi dalla superstizione, dai sacrifici
umani, dal cannibalismo. Neppure Adolf Hitler diceva d’essere contro la
libertà. Al contrario. Le camicie brune e poi le SS erano i difensori della
“vera” libertà della Germania e dell’Europa minacciate dal complotto
giudaico-bolscevico. Di battaglia per la libertà si parlava nel momento in cui
si scatenava una guerra mondiale e si uccidevano milioni di persone nelle
camere a gas. Le goliardiche camicie nere nostrane, dal canto loro,
promettevano libertà alle “faccette nere belle Abissine” e, intanto, l’esercito
spargeva iprite sulle popolazioni dell’Eritrea. Cambiava la miscela politica,
ma anche i massacri dei kulaki e “purghe” staliniane si giustificavano con la
libertà insidiata dai nemici del popolo. Non dimentichiamo, infine, che non c’è
stata alcuna impresa coloniale, del passato e del presente, che non abbia issato
la bandiera della libertà. Tutti amano presentarsi come “liberatori” e non c’è
invasione o bombardamento che non venga spacciato come un dovere verso la
libertà. È facile constatare come questa parola (insieme, ad esempio, la
giustizia e la uguaglianza) suona diversamente sulle labbra di chi sta in alto
e di chi sta in basso nelle gerarchie del potere, dei potenti e degli inermi.
Alto e basso: non c’è parola del lessico politico che si sottrae a questa
dialettica di significati. La libertà che serve a chi sta in alto si manifesta
in oppressione; per chi sta in basso, la libertà si manifesta in rivolta contro
la libertà di chi sta in alto. Chi non distingue non solo fa confusione e
intorbida il discorso, ma inganna anche. La norma della libertà ci è, dunque, ignota
perché ognuno ha a cuore la sua libertà. A seconda della posizione sociale,
quella dell’uno diverge da quella dell’altro e tutte insieme possono
confliggere. Non c’è, allora, qualcosa di inoppugnabile? È, forse, tutto
relativo? Riflettiamo: se non sappiamo, in generale, che cosa è la libertà,
sappiamo invece bene che cosa è il suo contrario nella carne viva degli uomini,
delle donne, dei bambini e degli anziani soli, degli stranieri, dei migranti,
delle minoranze, degli irregolari, degli emarginati, dei disoccupati, dei
poveri. Sappiamo come questo contrario si manifesta sempre e comunque: con la
violenza in una delle sue tante forme. Riflettiamo ancora: la violenza è cosa
che chiunque conosce e riconosce quando la subisce su di sé e riesce a vedere negli
altri. C’è forse qui un nucleo minimo di umanità comune che chiede di essere
rispettato. I masochisti amano la violenza, ma solo se sono essi stessi a
volerla. La violenza subita ci repelle, prima e indipendentemente di sapere che
cosa la libertà è in teoria. L’esperienza dell’orrore della violenza è
universale e universale è la sua condanna. C’è una macrofisica della violenza,
la guerra, e c’è una microfisica nelle piccole cose quotidiane. Il rigetto
della violenza a ogni livello è un contributo alla libertà. La stessa cosa è
per la giustizia? Che cosa è la giustizia? Se lo chiediamo in astratto, ci
perdiamo. Non ci vuol molto a saperlo, invece, quando sperimentiamo
l’ingiustizia nelle grandi come nelle piccole cose. In fondo, libertà e
giustizia si tendono la mano. Se vuoi la libertà, cerca di renderti conto di
dove nasce la violenza, di dove attecchisce e di come si sviluppa. (…). Di
seguito,
“Il mandato d’arresto per
Putin? Dissennato”, intervista di Silvia Truzzi a Gustavo Zagrebelsky
pubblicata su “il Fatto Quotidiano” di oggi, mercoledì 22 di marzo:
(…).
La libertà non è una condizione di partenza? - È il compimento di un viaggio:
quando si nasce non si è ancora completi. Questo assunto è il contrario di
quello che alcune Costituzioni (la Dichiarazione d'Indipendenza americana; la
Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo e del cittadino della
Rivoluzione francese) dicono, non senza superficialità: gli uomini (allora
erano proprio i maschi) nascono liberi e uguali. Invece no: il bimbo che nasce
in una baraccopoli non è uguale a quello che viene al mondo in una delle nostre
cliniche private. (…) -.
La dichiarazione d'indipendenza americana
sancisce il diritto alla felicità di ogni individuo. Come si muove la libertà
tra l'"io" e il "noi"? - Quando, nel 1776, le tredici
colonie della Costa atlantica di-chiararono l'indipendenza dall'Impero
britannico, avevano alle spalle il Far West, che consideravano uno spazio
vuoto: ciascuno poteva andare a cercare la propria felicità in terre vuote. Noi
sappiamo che non lo erano affatto, perché erano popolate dai nativi,
considerati nullità o al massimo tribù primitive da rinchiudere nelle riserve
(uno dei grandi crimini dell'Occidente europeo). Oggi non ci sono più spazi
liberi, tutto lo spazio della Terra è stato occupato: la libertà di ognuno di
noi deve fare i conti con la libertà degli altri. Mentre l'individualismo
americano si affermava anche costituzionalmente, l'Europa, già tutta occupata,
ha elaborato lo Stato sociale. Se non si tratta propriamente di felicità,
almeno di benessere sì. Ma qui, nello spazio pieno, non è ammissibile che
ciascuno (i più potenti) faccia quel che vuole: occorre l'intervento regolativo
dello Stato. Su questo punto, anche nella mentalità comune, c'è ancora adesso
una grande distanza tra Europa e Stati Uniti -.
Nella presentazione di questa edizione di
Biennale (“Biennale democratica”,
Torino, 22.03/29.03.2023 n.d.r.), si accenna alla pandemia. Esperienza in
cui abbiamo toccato con mano i limiti - e le limitazioni - di libertà prima
date per scontate. Cosa abbiamo imparato? - Che la nostra libertà è
strettamente legata all'ambiente in cui viviamo. Non solo siamo esposti ad
altri pericoli globali per la vita e la salute, ma soprattutto sentiamo la
pressione crescente della carenza di risorse vitali, come il cibo, l'acqua,
l'aria respirabile, eccetera. Ci stiamo mangiando la natura. A ciò si aggiunga
l'esplosione demografica a livello globale. Le risorse si riducono. Ciascuno di
noi, volente o nolente, si troverà nella necessità di ridurre i propri spazi di
libertà per far posto a tutti. La prospettiva più umana è che le popolazioni
privilegiate s'inducano a ridurre il loro benessere a favore dei meno
fortunati. Compito immane, a fronte degli egoismi che popolano le società
benestanti. Il caso della pandemia presenta analogie, la riduzione della
libertà dei "sani" è stato necessario imporla a favore di coloro che
erano esposti alla malattia: tutti, in realtà, anche se molti si ritenevano
scioccamente immuni o inutilmente perseguitati dalle misure restrittive
adottate -.
La grande rottura dell'ultimo anno è stata
la guerra. E qui siamo noi chiamati in causa: mandiamo le armi in nome della
libertà del popolo ucraino, ma quanto teniamo conto dei nostri principi? -
Secondo Montesquieu "non c'è parola che abbia ricevuto un maggior numero
di significati diversi, e che abbia colpito gli spiriti in tante diverse
maniere, come quella di libertà". E che varia a seconda dei punti di
vista: tornando agli Stati Uniti, durante la guerra di secessione gli
imprenditori degli Stati del Nord combattevano per la libertà degli schiavi, i
proprietari delle piantagioni di cotone del Sud per la libertà di avere gli
schiavi -.
Allora, libertà è parola vuota, che ciascuno
riempie come vuole? - Non direi così. Se la privazione della libertà deriva da
una violenza, la lotta per la libertà dovrebbe essere concepita e gestita come
battaglia contro la violenza, tutte le violenze. Se si vuole contrastare la
massima violazione della libertà, che è la guerra, bisognerebbe far sì che le
persone siano libere di pensare, a cominciare dai soldati, spediti a morire a
centinaia di migliaia da coloro che decidono non di "fare la guerra', ma
di "farla fare". Karl Kraus in Gli ultimi giorni dell'umanità ha
detto che quando suonano le trombe dei generali, arrivano le trombette dei
commentatori che si mettono al seguito. Il nostro, e non solo il nostro,
dibattito pubblico è tristemente impregnato di retorica bellicista. Dovremmo,
per esempio, occuparci del commercio delle armi nel mondo: le grandi compagnie
di produttori di armi condizionano i governi. Il maggiore azionista di Leonardo
è il ministero dell'Economia. Quale intreccio d'interessi esiste tra loro? Sono
queste le cose di cui dovremmo discutere. Invece non succede: mi pare ci sia
una convergenza di interessi che mira alla continuazione della guerra -.
Che cosa pensa del mandato d'arresto per
Vladimir Putin spiccato dalla Corte dell'Aja? - Con tutta l'umiltà di chi
guarda questa vicenda da fuori, dico che mi pare un'iniziativa dissennata. Mi
ricorda la favola di Fedro, quella della rana che, invidiosa del bue, si gonfia
a dismisura e poi esplode. Qui a gonfiarsi sono i giuristi, che pensano che
l'aggressione russa possa essere contrastata con un'azione giudiziaria: si è
perso il senso delle proporzioni. Non solo per via del brocardo latino
("Silent leges inter arma"), ma perché quando si usano le armi lo
strumento per farle tacere è il negoziato. Mi auguro che la Corte dell'Aja
processi i criminali, Putin e non solo, ma dopo la pace: come si può arrivare a
una pace se una delle parti, ancorché si tratti dell'invasore, sa che pende su
di lui la minaccia di finire in carcere? Quest'iniziativa, a guerra in corso,
innescherà un irrigidimento, in direzione contraria alla pace e alla diplomazia
Putin sa che non può perdere, deve per forza vincere. La Corte penale
internazionale, mi pare, s'è fatta strumento, intenzionalmente o
inavvertitamente, d'una mossa a favore dell'inasprimento del conflitto. (…).
Nessun commento:
Posta un commento