"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 12 marzo 2023

ItalianGothic. 32 Paolo Di Paolo: «Un giorno qualcuno ci chiederà dove eravamo, e bisognerà rispondere».


Ha scritto Marco Travaglio su “il Fatto Quotidiano” – “Globi terracquei” - dell’11 di marzo 2023: (…). Eravamo rimasti a Piantedosi che incolpava i morti di scarso patriottismo per non essere rimasti a Kabul o ad Aleppo a “contribuire al riscatto dei loro Paesi” e di somma imprudenza per aver scelto un barcone pericolante invece di una più confortevole nave da crociera; e poi rimediava con l’imperitura minaccia: “Fermatevi lì, veniamo noi a prendervi”, come dicono le segretarie dei Vip agli scocciatori che chiedono un appuntamento: “Ci facciamo vivi noi”. Ora la Meloni chiarisce che non intende andare a prendere nessuno: “Siamo abituati a un’Italia che va a cercare migranti nel Mediterraneo, ma questo governo vuole andare a cercare scafisti in tutto il globo terracqueo”. Dicesi globo terracqueo l’insieme di terre e acque del pianeta. E, se è ragionevole cercare lo scafista in acqua (salvo in quelle territoriali altrui), siamo curiosi di vedere come lo riconoscono sulla terraferma, dove può mimetizzarsi con qualunque altra figura professionale. A meno che non si faccia trovare in uniforme da scafista, con targhetta appuntata al petto, dicitura sulla carta d’identità e tessera del sindacato, nel qual caso chapeau. Ora potete facilmente immaginare il terrore seminato nella categoria scafistica dalla duplice minaccia meloniana: cercarli in tutto il globo terracqueo e condannarli fino a 30 anni di galera. Cioè la stessa pena che rischiano già oggi, anzi la rischierebbero se li prendessero. Ma non li prendono quasi mai perché i migranti, indagati per clandestinità, hanno la facoltà di non rispondere e quasi sempre la esercitano. Cioè perché le teste dei nostri sgovernanti sono globi terracquei. Anzi, solo acquei. Di seguito, “La pioggia di peluche”, dello scrittore Paolo Di Paolo, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” sempre dell’undici di marzo: Era una pioggia di monete: faceva un rumore metallico, faceva male. Finiva così - nell'ignominia - un'epoca politica, l'ultimo giorno di aprile di trenta anni fa. Bettino Craxi - era il 30 aprile del 1993 - usciva da un albergo romano e quel tintinnio sinistro somigliava a una pena dantesca inflitta nell'eterno purgatorio dei vivi. Effimera, però di grande potenza simbolica: il contrappasso di chi, giudicato colpevole di malversazione, viene umiliato da una tempesta di denaro. Banconote sventolate al grido di "Bettino, vuoi anche queste?", monete che diventano armi del linciaggio. Tre decenni dopo, un'altra incerta primavera e una stagione politica, viceversa, al suo inizio sono segnate da un lancio simbolico: pupazzi di pezza che volano contro le auto blu con a bordo i maggiorenti del governo più a destra della storia italiana. Il governo Meloni in trasferta a Cutro si porta addosso le ombre di una conferenza stampa mal gestita e letteralmente male illuminata: un alone grigio incupiva quei volti già maldisposti, esitanti, imbarazzati. La penombra che stiamo attraversando! La pioggia di peluche turba ma non ferisce, è inoffensiva: un linciaggio morbido, un gesto poetico quasi dadaista. Il memento non violento che – (…) - evoca "l'innocenza dei bambini" morti in mare. "Uno schiaffo morale" destinato a una classe politica, se non irresponsabile, non abbastanza consapevole della propria responsabilità. Non esiste parte, partito, governo - dicono quei peluche in volo - che possa sentirsi legittimato nel non prendere atto di questa catastrofe. Un affronto ai diritti umani spacciato per inerzia inevitabile. Non c'è strategia di "politica migratoria" che possa considerare ammissibile questo bilancio luttuoso. Un giorno qualcuno ci chiederà dove eravamo, e bisognerà rispondere. Lanciare un peluche non basterà forse ad assolverci - assolverci come civiltà "evoluta" che ha reso livido e cimiteriale il mare intorno a cui è nata - ma varrà da segnaletica. Eravamo fra i coscienti: non ci hanno contagiato l'apatia e l'indifferenza, non abbiamo giudicato norma l'abnorme, inevitabile l'osceno. Abbiamo continuato a sentir risuonare l'avviso di Hannah Arendt: chi sceglie il male minore sceglie comunque un male. L'inesausta fabbrica di simboli che è la comunità umana non chiude mai per ferie. Ai riti, alle liturgie, comprese quelle più tenaci e insieme più logore, si sommano gesti estemporanei dall'enorme valore allegorico. Come vessilli alternativi, catalizzano energie, scuotono la disattenzione, diventano segni di appartenenza. Gli ombrelli aperti a Hong Kong, le mani alzate a Bangkok o al Cairo, le paperelle di plastica e le scarpe da tennis legate al collo per le strade di Mosca, i capelli tagliati a Teheran: ogni protesta politica ha la sua intuizione provocatoria. Le scarpe economiche al collo dei manifestanti russi dalla parte di Navalny contro le scarpe costose di Medvedev; i capelli recisi tradizionalmente per un lutto, tagliati come per additare in Iran la morte della libertà. Qualche volta è sfregio, atto vandalico reversibile: la vernice lavabile degli attivisti per il clima. Ma le coscienze restano pigre. Come si svegliano? Occorrono inventiva e coraggio, un'ironia dolente che è esercizio dell'intelligenza e funziona come paradosso, una sorta di "gioco del rovescio". Pensa alle case lasciate dai bambini che si sono messi in viaggio per mare insieme ai loro genitori. Quelli che "non dovevano partire". Pensa all'angolo dei loro giochi. Pensa a quello spazio d'ora in avanti disabitato. Una folla di peluche inservibili e attoniti. Che ora ricade sul mondo, contestando gli alibi di leader inadempienti. La pioggia colorata e triste dei pupazzi di pezza, i giocattoli dei fantasmi.

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