Ha scritto Marco Travaglio su “il Fatto Quotidiano”
– “Globi terracquei” - dell’11 di
marzo 2023: (…). Eravamo rimasti a Piantedosi che
incolpava i morti di scarso patriottismo per non essere rimasti a Kabul o ad
Aleppo a “contribuire al riscatto dei loro Paesi” e di somma imprudenza per
aver scelto un barcone pericolante invece di una più confortevole nave da
crociera; e poi rimediava con l’imperitura minaccia: “Fermatevi lì, veniamo noi
a prendervi”, come dicono le segretarie dei Vip agli scocciatori che chiedono
un appuntamento: “Ci facciamo vivi noi”. Ora la Meloni chiarisce che non
intende andare a prendere nessuno: “Siamo abituati a un’Italia che va a cercare
migranti nel Mediterraneo, ma questo governo vuole andare a cercare scafisti in
tutto il globo terracqueo”. Dicesi globo terracqueo l’insieme di terre e acque
del pianeta. E, se è ragionevole cercare lo scafista in acqua (salvo in quelle
territoriali altrui), siamo curiosi di vedere come lo riconoscono sulla
terraferma, dove può mimetizzarsi con qualunque altra figura professionale. A
meno che non si faccia trovare in uniforme da scafista, con targhetta appuntata
al petto, dicitura sulla carta d’identità e tessera del sindacato, nel qual
caso chapeau. Ora potete facilmente immaginare il terrore seminato nella
categoria scafistica dalla duplice minaccia meloniana: cercarli in tutto il
globo terracqueo e condannarli fino a 30 anni di galera. Cioè la stessa pena
che rischiano già oggi, anzi la rischierebbero se li prendessero. Ma non li
prendono quasi mai perché i migranti, indagati per clandestinità, hanno la
facoltà di non rispondere e quasi sempre la esercitano. Cioè perché le teste
dei nostri sgovernanti sono globi terracquei. Anzi, solo acquei. Di seguito,
“La pioggia di peluche”, dello
scrittore Paolo Di Paolo, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” sempre dell’undici
di marzo: Era una pioggia di monete: faceva un rumore metallico, faceva male.
Finiva così - nell'ignominia - un'epoca politica, l'ultimo giorno di aprile di
trenta anni fa. Bettino Craxi - era il 30 aprile del 1993 - usciva da un
albergo romano e quel tintinnio sinistro somigliava a una pena dantesca
inflitta nell'eterno purgatorio dei vivi. Effimera, però di grande potenza
simbolica: il contrappasso di chi, giudicato colpevole di malversazione, viene
umiliato da una tempesta di denaro. Banconote sventolate al grido di
"Bettino, vuoi anche queste?", monete che diventano armi del
linciaggio. Tre decenni dopo, un'altra incerta primavera e una stagione
politica, viceversa, al suo inizio sono segnate da un lancio simbolico: pupazzi
di pezza che volano contro le auto blu con a bordo i maggiorenti del governo
più a destra della storia italiana. Il governo Meloni in trasferta a Cutro si
porta addosso le ombre di una conferenza stampa mal gestita e letteralmente
male illuminata: un alone grigio incupiva quei volti già maldisposti, esitanti,
imbarazzati. La penombra che stiamo attraversando! La pioggia di peluche turba
ma non ferisce, è inoffensiva: un linciaggio morbido, un gesto poetico quasi
dadaista. Il memento non violento che – (…) - evoca "l'innocenza dei
bambini" morti in mare. "Uno schiaffo morale" destinato a una
classe politica, se non irresponsabile, non abbastanza consapevole della
propria responsabilità. Non esiste parte, partito, governo - dicono quei
peluche in volo - che possa sentirsi legittimato nel non prendere atto di
questa catastrofe. Un affronto ai diritti umani spacciato per inerzia
inevitabile. Non c'è strategia di "politica migratoria" che possa
considerare ammissibile questo bilancio luttuoso. Un giorno qualcuno ci
chiederà dove eravamo, e bisognerà rispondere. Lanciare un peluche non basterà
forse ad assolverci - assolverci come civiltà "evoluta" che ha reso livido
e cimiteriale il mare intorno a cui è nata - ma varrà da segnaletica. Eravamo
fra i coscienti: non ci hanno contagiato l'apatia e l'indifferenza, non abbiamo
giudicato norma l'abnorme, inevitabile l'osceno. Abbiamo continuato a sentir
risuonare l'avviso di Hannah Arendt: chi sceglie il male minore sceglie
comunque un male. L'inesausta fabbrica di simboli che è la comunità umana non
chiude mai per ferie. Ai riti, alle liturgie, comprese quelle più tenaci e
insieme più logore, si sommano gesti estemporanei dall'enorme valore
allegorico. Come vessilli alternativi, catalizzano energie, scuotono la
disattenzione, diventano segni di appartenenza. Gli ombrelli aperti a Hong
Kong, le mani alzate a Bangkok o al Cairo, le paperelle di plastica e le scarpe
da tennis legate al collo per le strade di Mosca, i capelli tagliati a Teheran:
ogni protesta politica ha la sua intuizione provocatoria. Le scarpe economiche
al collo dei manifestanti russi dalla parte di Navalny contro le scarpe costose
di Medvedev; i capelli recisi tradizionalmente per un lutto, tagliati come per
additare in Iran la morte della libertà. Qualche volta è sfregio, atto
vandalico reversibile: la vernice lavabile degli attivisti per il clima. Ma le
coscienze restano pigre. Come si svegliano? Occorrono inventiva e coraggio,
un'ironia dolente che è esercizio dell'intelligenza e funziona come paradosso,
una sorta di "gioco del rovescio". Pensa alle case lasciate dai
bambini che si sono messi in viaggio per mare insieme ai loro genitori. Quelli
che "non dovevano partire". Pensa all'angolo dei loro giochi. Pensa a
quello spazio d'ora in avanti disabitato. Una folla di peluche inservibili e
attoniti. Che ora ricade sul mondo, contestando gli alibi di leader
inadempienti. La pioggia colorata e triste dei pupazzi di pezza, i giocattoli
dei fantasmi.
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