"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 2 marzo 2023

Dell’essere. 69 Ray Banhoff: «I social network sono dei totem di valori che modificano il nostro comportamento e la nostra cultura».

                Sopra. "Murano" (2023), penna ed acquerello di Anna Fiore.

SanRemoedintorni”. Ha scritto Luigi Manconi in “La vita prevale sulla politica” (la Sua “prosa” è ispirata, ché quasi si sente nascere il personale rimorso di non avere rafforzato la nutrita schiera di “italioti” che immancabilmente, ad ogni ricorrenza del Sanremoshow, ne presidiano la sceneggiatura “nazional-popolare” ed ancor più la sarabanda del politichese, tanto per rendere ragione alla ispirazione del Nostro) pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 10 di febbraio 2023:

(…). Penso, in altre parole, che la rassegna canora di Sanremo andrebbe imposta come materia di studio obbligatoria a quanti rivestano qualsiasi mansione pubblica. (…). Il Festival di Sanremo è stato, nella storia nazionale del secondo Dopoguerra, una categoria dello spirito e del corpo destinata a contenere e a manifestare tutti i segni e i segnali di una società in rapido mutamento: i sintomi più visibili, che increspano la superficie dei gesti e delle parole, e quelli più profondi e sotterranei. Due esempi. Nel pieno dell'esplosione dei movimenti giovanili e studenteschi, il primo febbraio del 1968, Sergio Endrigo cantava: "La festa appena cominciata è già finita/il cielo non è più con noi", quasi annunciando una prossima e dolorosa sconfitta. Due anni dopo Adriano Celentano e Claudia Mori interpretavano Chi non lavora non fa l'amore: non una canzone "reazionaria", come si disse, bensì la prova di quanto "l'autunno caldo" e la lotta operaia avessero condizionato i rapporti sociali e le stesse relazioni interpersonali, riproducendosi in ambito familiare e nel conflitto tra i generi. Il termine gramsciano "nazional-popolare", ancorché abusato, si confà perfettamente - nonostante l'insignificanza di tante edizioni - al Festival, in quanto espressione di un insieme di caratteri distintivi della cultura di un popolo, o di ciò che ne resta, e in quanto rappresentativo di qualcosa che richiama una identità, una idea di sé e, se non altro, una immagine. (…). Fatto sta che, almeno in Italia, il carattere nazional-popolare non è assumibile né riproducibile all'interno di una forma politica guidata dalla destra e da Fratelli d'Italia, che pure ha ottenuto il 26 per cento dei consensi elettorali. E fatto sta che le pulsioni e le passioni che percorrono il corpo del Paese sono assai più inquiete e indocili della sua presunta proiezione conservatrice sul piano politico-culturale. È quanto sta accadendo in questi giorni a Sanremo. La pressione esercitata dalla forza dei diritti che prendono la parola sul palco non è controllabile, in quanto corrisponde a movimenti di corpi, a bisogni in carne e ossa, a desideri che hanno nomi e cognomi e volti. E dunque alla domanda di libertà delle donne iraniane e dei minori detenuti a Nisida. (…). Certo, tutto (…) viene rappresentato nel Festival in maniera spesso primitiva e sempre superficiale, ed è destinato, nella gran parte dei casi, a esaurirsi rapidamente, senza quasi lasciare traccia. Ma il Festival deve tenerne conto. (…). Insomma, nonostante l'ossessiva cura nel proporre una diversa mentalità e una differente identità (a partire dall'insistenza su quel Nazione) tutto sembra confermare che in Italia non esista lo spazio per una espressione nazional-popolare di destra; e se vi fosse, dovrebbe prendere in prestito voci e segni, interpreti e simboli della parte avversa. In altre parole, la minorità culturale della destra italiana sembra destinata a perpetuarsi. Nonostante i successi elettorali e gli scoppi di stizza. Di seguito, “Si stava meglio attaccando poster in cameretta” di Ray Banhoff – che guarda e vede aldilà del “nazional-popolare” del Nostro e più acutamente intuisce, anche per il Sanremo come per tanti aspetti del vivere, un soggiacere all’imperativo di “una strategia subdola di posizionamento e marketing - pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 26 di febbraio ultimo: (…). Un po’ ci hanno detto che il Covid ha deteriorato i rapporti, un po’ la coppia è in crisi e il matrimonio non ne parliamo. Però qualcosa manca nella narrazione, perché mai come ora siamo stati pervasi e invasi da immagini sessualizzate. Tv, media, Instagram, il sesso esce da tutte le parti. E non è mai un’entrata in scena in grande stile, un richiamo al sano desiderio o a qualcosa di davvero proibito, ma piuttosto una strategia subdola di posizionamento e marketing. Ho ancora negli occhi le immagini dell’ultimo Sanremo e c’è qualcosa che non capisco: come mai gli artisti devono essere dei sex symbol? Perché è così importante non solo essere belli ma anche ammiccanti o arrapanti? Bisogna tenere tutti incollati allo schermo, tutti a fare like all’ultimo video, altrimenti si scompare. Pensate a com’era ingenua la Carrà che cantava di far l’amore da Trieste in giù e poi visualizzate i Måneskin sempre nudi come in uno spettacolo di addio al celibato per sciure di tutto il mondo; Elodie in versione Beyoncé ma non posso; Levante che canta una canzone sulla gioia di masturbarsi; il bacio tra Fedez e Rosa Chemical. Il messaggio, dal look ai temi delle canzoni, è una provocazione continua. Non c’è niente di male e le celebrità fanno sicuramente bene a fare il loro gioco. Credo solo che i loro video arrivino nei telefoni di persone comuni, che invece sono piene di complessi, di ansia da prestazione e ne vengono devastate. Il New York Times dice che ci sentiamo soli e non facciamo più sesso e sfido chiunque a dire che la comunicazione dei social non è una causa peggiore del Covid. È molto più semplice fare sesso online o grazie a un algoritmo, non investire emotivamente in una relazione, nemmeno nell’amicizia. L’eterno presente in cui viviamo è tutto talmente fondato sulla tutela di sé che la relazione è ormai un pericolo. Dilagano la paura della fusione simbiotica, ovvero di entrare in contatto con l’altro e non sapersi più svincolare, e l’idea che la coppia sia una rinuncia all’autonomia, al nostro successo. Quindi piuttosto non investo, vado contro le mie pulsioni e faccio tutto da solo, mi isolo, (…), ma almeno non mi sento rifiutato o risucchiato. Poi c’è il disagio sociale: e se l’altro mi rifiuta? E se faccio cilecca? E se non sono figo come l’immagine del tizio famoso che mi arriva? Non si possono più considerare i social network come una forma di intrattenimento e basta, ormai sono dei totem di valori che modificano il nostro comportamento e la nostra cultura. Sì, lo facevano anche il cinema e la tv, ma lì non eri mai tu il protagonista. Adesso più sei provocante più sei esposto. Senza essere nostalgico, penso che si stesse meglio quando si attaccavano i poster degli altri sul muro della cameretta, invece che il nostro.

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