“SanRemoedintorni”. Ha scritto Luigi Manconi in “La vita prevale sulla politica” (la Sua “prosa” è ispirata, ché quasi si sente nascere il personale rimorso di non avere rafforzato la nutrita schiera di “italioti” che immancabilmente, ad ogni ricorrenza del Sanremoshow, ne presidiano la sceneggiatura “nazional-popolare” ed ancor più la sarabanda del politichese, tanto per rendere ragione alla ispirazione del Nostro) pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 10 di febbraio 2023:
(…). Penso, in altre parole, che la rassegna canora di Sanremo andrebbe
imposta come materia di studio obbligatoria a quanti rivestano qualsiasi
mansione pubblica. (…). Il Festival di Sanremo è stato, nella storia nazionale
del secondo Dopoguerra, una categoria dello spirito e del corpo destinata a
contenere e a manifestare tutti i segni e i segnali di una società in rapido
mutamento: i sintomi più visibili, che increspano la superficie dei gesti e
delle parole, e quelli più profondi e sotterranei. Due esempi. Nel pieno
dell'esplosione dei movimenti giovanili e studenteschi, il primo febbraio del
1968, Sergio Endrigo cantava: "La festa appena cominciata è già finita/il
cielo non è più con noi", quasi annunciando una prossima e dolorosa
sconfitta. Due anni dopo Adriano Celentano e Claudia Mori interpretavano Chi
non lavora non fa l'amore: non una canzone "reazionaria", come si
disse, bensì la prova di quanto "l'autunno caldo" e la lotta operaia
avessero condizionato i rapporti sociali e le stesse relazioni interpersonali,
riproducendosi in ambito familiare e nel conflitto tra i generi. Il termine
gramsciano "nazional-popolare", ancorché abusato, si confà
perfettamente - nonostante l'insignificanza di tante edizioni - al Festival, in
quanto espressione di un insieme di caratteri distintivi della cultura di un
popolo, o di ciò che ne resta, e in quanto rappresentativo di qualcosa che richiama
una identità, una idea di sé e, se non altro, una immagine. (…). Fatto sta che,
almeno in Italia, il carattere nazional-popolare non è assumibile né
riproducibile all'interno di una forma politica guidata dalla destra e da
Fratelli d'Italia, che pure ha ottenuto il 26 per cento dei consensi
elettorali. E fatto sta che le pulsioni e le passioni che percorrono il corpo
del Paese sono assai più inquiete e indocili della sua presunta proiezione
conservatrice sul piano politico-culturale. È quanto sta accadendo in questi
giorni a Sanremo. La pressione esercitata dalla forza dei diritti che prendono
la parola sul palco non è controllabile, in quanto corrisponde a movimenti di
corpi, a bisogni in carne e ossa, a desideri che hanno nomi e cognomi e volti.
E dunque alla domanda di libertà delle donne iraniane e dei minori detenuti a
Nisida. (…). Certo, tutto (…) viene rappresentato nel Festival in maniera
spesso primitiva e sempre superficiale, ed è destinato, nella gran parte dei
casi, a esaurirsi rapidamente, senza quasi lasciare traccia. Ma il Festival
deve tenerne conto. (…). Insomma, nonostante l'ossessiva cura nel proporre una
diversa mentalità e una differente identità (a partire dall'insistenza su quel
Nazione) tutto sembra confermare che in Italia non esista lo spazio per una
espressione nazional-popolare di destra; e se vi fosse, dovrebbe prendere in
prestito voci e segni, interpreti e simboli della parte avversa. In altre
parole, la minorità culturale della destra italiana sembra destinata a
perpetuarsi. Nonostante i successi elettorali e gli scoppi di stizza. Di
seguito, “Si stava meglio attaccando
poster in cameretta” di Ray Banhoff – che
guarda e vede aldilà del “nazional-popolare” del Nostro e più acutamente
intuisce, anche per il Sanremo come per tanti aspetti del vivere, un soggiacere
all’imperativo di “una strategia subdola di posizionamento e marketing -
pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 26 di febbraio ultimo: (…).
Un po’ ci hanno detto che il Covid ha deteriorato i rapporti, un po’ la coppia
è in crisi e il matrimonio non ne parliamo. Però qualcosa manca nella
narrazione, perché mai come ora siamo stati pervasi e invasi da immagini
sessualizzate. Tv, media, Instagram, il sesso esce da tutte le parti. E non è
mai un’entrata in scena in grande stile, un richiamo al sano desiderio o a
qualcosa di davvero proibito, ma piuttosto una strategia subdola di
posizionamento e marketing. Ho ancora negli occhi le immagini dell’ultimo
Sanremo e c’è qualcosa che non capisco: come mai gli artisti devono essere dei
sex symbol? Perché è così importante non solo essere belli ma anche ammiccanti
o arrapanti? Bisogna tenere tutti incollati allo schermo, tutti a fare like
all’ultimo video, altrimenti si scompare. Pensate a com’era ingenua la Carrà
che cantava di far l’amore da Trieste in giù e poi visualizzate i Måneskin
sempre nudi come in uno spettacolo di addio al celibato per sciure di tutto il
mondo; Elodie in versione Beyoncé ma non posso; Levante che canta una canzone
sulla gioia di masturbarsi; il bacio tra Fedez e Rosa Chemical. Il messaggio,
dal look ai temi delle canzoni, è una provocazione continua. Non c’è niente di
male e le celebrità fanno sicuramente bene a fare il loro gioco. Credo solo che
i loro video arrivino nei telefoni di persone comuni, che invece sono piene di
complessi, di ansia da prestazione e ne vengono devastate. Il New York Times
dice che ci sentiamo soli e non facciamo più sesso e sfido chiunque a dire che
la comunicazione dei social non è una causa peggiore del Covid. È molto più semplice
fare sesso online o grazie a un algoritmo, non investire emotivamente in una
relazione, nemmeno nell’amicizia. L’eterno presente in cui viviamo è tutto
talmente fondato sulla tutela di sé che la relazione è ormai un pericolo.
Dilagano la paura della fusione simbiotica, ovvero di entrare in contatto con
l’altro e non sapersi più svincolare, e l’idea che la coppia sia una rinuncia
all’autonomia, al nostro successo. Quindi piuttosto non investo, vado contro le
mie pulsioni e faccio tutto da solo, mi isolo, (…), ma almeno non mi sento
rifiutato o risucchiato. Poi c’è il disagio sociale: e se l’altro mi rifiuta? E
se faccio cilecca? E se non sono figo come l’immagine del tizio famoso che mi
arriva? Non si possono più considerare i social network come una forma di
intrattenimento e basta, ormai sono dei totem di valori che modificano il
nostro comportamento e la nostra cultura. Sì, lo facevano anche il cinema e la
tv, ma lì non eri mai tu il protagonista. Adesso più sei provocante più sei
esposto. Senza essere nostalgico, penso che si stesse meglio quando si
attaccavano i poster degli altri sul muro della cameretta, invece che il
nostro.
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