"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 28 maggio 2025

Lastoriasiamonoi. 62 «Genoveffa, la maga pescatrice»


Titolo dato alla “Storia” di Genoveffa Colica amorevolmente e magistralmente “raccolta” dall’amica Franca Sinagra – pubblicista, con Laurea in Materie Letterarie, già insegnante nella Scuola pubblica Italiana – che la ha recentemente data alle stampe. Grazie. A est del promontorio tirrenico chiamato Capo d’Orlando, proteso di fronte alle Isole Eolie, cent’anni fa il paesaggio costiero della baia di San Gregorio presentava un’insenatura paradisiaca orlata da spiaggia chiara e soffice, estesa per almeno cinquanta metri sotto il pelo dell’acqua luccicante e tanto trasparente da potervi riconoscere i grandi carapaci intarsiati delle tartarughe, così docili che si pescavano afferrandole a braccia nude. C’è ancora oggi un hotel connotato sulla facciata da grandi sagome ferree di tartarughe marine, di cui non c’è spiegazione se non nel ricordo storico di una donna speciale che visse sapientemente fra terra e mare, in incontrastata fluida contiguità. C’era là un tempo la pescatrice Genoveffa, giovane vedova fra i pochi abitanti dell’isolata frazione a mare dell’antica Naso, quando nei mesi estivi l’arenile era arredato vivacemente dalle strisce multicolori dei piccoli gozzi all’ancora e in secca, attorno ai quali si muoveva varia umanità, anfibia se percepita nell’immaginario. Dietro le barche un gruppo di casette a pianterreno stava pigiato fra la battigia e l’aspra altura retrostante che ne chiudeva l’accesso alla terraferma. Tutte le giornate di tempo buono Genoveffa andava a pesca sul suo gozzo che scivolava bordeggiando fra grandi faraglioni e affioranti scogli rocciosi rivestiti di gustose patelle, anticamera alla cala. Oggi una strada asfaltata, solcando la roccia dietro i faraglioni, conduce verso l’abitato della nuova cittadina migrata da San Gregorio oltre il rosso faro erto a guardia del Capo di Orlando da cui prese il nome. Il romanziere Vincenzo Consolo ci ha lasciato della baia una descrizione evocativa di antichi fatti ricchi di avventura e di tragicità: «In cima al capo, i ruderi d’un castello e un santuario della Madonna dei pescatori pieno d’ancore, timoni, ex-voto di caicchi, gozzi, velieri in balia di fortunali. Il capo prende il nome da Orlando, il più furioso dei paladini di Carlo Magno. Doppiato il capo, v’è la cala di San Gregorio, il villaggio dove di notte sbarcavan i pirati. “Terrore a la riva: la furia dei ratti trae fra gli strilli la gonna come bandiera / e il corsaro dagli occhi di nera porcellana / da la barba serpentina: / la scimitarra stride con l’arma paesana…”». Poi, scovato il ritratto vivente di una donna dalle qualità magiche, ce lo regala: «Qui abitava zia Genoveffa. La vecchia fattucchiera che tagliava col coltello dal manico bianco le trombe marine toglieva il malocchio con fumigazioni di rametti d’alloro, erica, rosmarino. Qui era un tempo la città antica di Agatirno». La figura di Genoveffa Colica (o Collica) (Castell’Umberto 1873 – Capo d’Orlando 1961) non è solo folclorico, ma individua il locale pionierismo imprenditoriale femminile, in questa pescatrice di professione, anomalia nell’epoca maschilista e che oggi è considerata donna eccentrica ed emblematica. Andava infatti a pesca sul gozzo come gli uomini, navigava a remi e come loro conosceva la rotta costiera e le costellazioni. A renderle attributi eccezionali c’è il fatto che praticava magie sia per contrastare le cattive situazioni personali di compaesani e compaesane con risoluzioni di immediato intervento nello “sbuddere” (sciogliere) il malocchio, sia per affrontare gli elementi naturali, tempeste a mare e tornado che lei sapeva “tagliare”. Genoveffa possedeva delle caratteristiche magiche insite nelle possibilità individuali femminili, acquisite fin dall’antichità classica tanto che erano considerate nella normalità del suo vivere sociale. La sua figura evoca un ruolo quasi leggendario in cui è possibile dunque riconoscere varie eccezionalità. Fu governatrice riconosciuta del buon vivere nella sua minuscola comunità e, nella descrizione della pronipote Daniela Trifilò, Genoveffa fu «donna stimata da tutto il paese, una donna che da sola teneva a bada tutti i pescatori andando in mare anche lei, diventando ben presto donna temuta ma rispettata, tanto si faceva con il suo permesso, nulla si faceva senza il suo benestare, era una forza di inspiegabile caparbietà, una donna dal carattere duro ma nello stesso tempo di una generosità infinita con un indefinibile amore verso il prossimo». Si riconoscerebbe in lei l’autorità di una adombrata matrilinearità, sottintesa ma praticata apertamente nell’intenzione, quasi un residuo di matriarcato. Le formule magiche per tagliare le tempeste probabilmente le erano state comunicate e affidate nella convivenza con i pescatori liparoti, approdati nella baia per maggiore pescosità o per libera estensione del campo di lavoro marittimo ed è lecito pensare che da questo le sia arrivata e trasmessa la conoscenza e l’autorità della pratica magica delle pescatrici delle Eolie, con le quali c’erano solidi rapporti di madrinaggio. La ricerca sulle tradizioni orali nel territorio nebroideo riporta, a conferma delle pratiche magiche condivise da Genoveffa, questi versi interessanti che sono scongiuri “pistagghiari u sufuni”, cioè per tagliare la tromba d’aria: rivolgendosi alla tromba d’aria si fa il segno della croce, si recita il Padre nostro e poi la formula «Pi lu Patri, pi lu Figghiu e ppi lu Spiritussantu, - iu ti tagghiu cu stu cutieddu bbiancu! - Pi lu Patri, pi lu Fugghiu e ppi lu Spiritussantu, - iu ti tagghiu cu stu cutieddu santu! - Si nun ti vo’ tagghiari, - pi ‘nnautri tri vvoti t’àju a rripitari!». Le formule per togliere il malocchio sono diffuse e simili fra loro nelle contrade della costa tirrenica. Il carattere rude di Genoveffa, la sua quotidiana relazione con gli uomini nel duro lavoro sulle barche, l’esperienza dell’offerta di ricovero e ospitalità a pescatori stagionali e altri avventori, forse avevano rafforzato, insieme all’acume, la necessità di comportamenti e parole definitive e inequivocabili a chiarire le sue scelte di comportamento e a determinarne le conseguenze. Sempre la vita avventurosa è stata obbligata a esprimersi con un linguaggio altrettanto forte, rude perfino, perché contaminato dagli incontri con i personaggi che nella baia si presentavano in vari ruoli. È registrato a quei tempi uno scambio di popolazione fra le isole e la costa siciliana, causato da interesse alla pescosità delle acque: in primavera i liparoti che arrivavano dalle isole nella sponda poco più a sud trovavano un ricovero accomodante presso Genoveffa, che conosceva bene le necessità e le incognite del comune mestiere. Studi recenti sono fioriti sulla questione del recupero della storia femminile, soprattutto per interesse di donne colte che indagano la realtà di maghe di medicina, psicologia e attitudini varie sempre travisate. L’antropologa Macrina Marilena Maffei recupera vicende di pescatrici in Donne di mare. Una storia sommersa dell’arcipelago eoliano, dirimpettaie delle orlandine dall’era della Civiltà Milazzese. Donne che avevano imparato a dare il nome ai venti, a padroneggiare le rotte costiere, erano abili nocchiere a scorgere vortici e tornado, a presagire la potenzialità rabbiosa delle onde nel mare lungo, a leggere le costellazioni, a salpare le nasse, a trascinare le barche a secco.  Come Genoveffa, le eoliane erano pescatrici a mani nude di tartarughe, in un’epoca in cui il mare ne era affollato da gennaio a febbraio, pesca miracolosa per il sostentamento della famiglia. Maffei rivendica che «è la storia locale a illuminare figure e modalità di vita che caratterizzano il territorio. Vite singole implicate sempre nella storia collettiva dei luoghi». All’arrivo dell’estate nella baia di San Gregorio un’altra attività di rilievo umano e di responsabilità sociale attendeva Genoveffa, di carattere aperto, attivo e perfino manesco, seduta mattinate intere col mento appoggiato sull’impugnatura del bastone, nel ruolo di tutela dei contadini portatori di bozzoli di seta alla pesa sulla stadera e alla contrattazione qualitativa presso il distaccamento stagionale della Finanza. Nella sua storia di vita Genoveffa risulta ventiduenne nel contratto di matrimonio, celebrato a giugno del 1896, dove è qualificata filatrice, ovvero coltivatrice del baco da seta, produzione allora molto comune nelle tiepide zone collinari fin dai tempi della dominazione araba, quando sposa Carmelo Domiano, ventiseienne villico o uomo di campagna, che pare fosse più gracile e di lei più basso. Ancora si racconta che li si vedeva passare sulla strada erta verso Naso, il marito seduto in groppa all’asino e lei più forzuta al seguito, appiedata e con le scarpe annodate coi lacci intorno al collo, da indossare all’arrivo per senso di eguaglianza e di benessere. Per suo cattivo destino Carmelo si era trovato il 28 dicembre del 1908 a Messina, travolto nel disastroso terremoto lasciando Genoveffa di soli 34 anni vedova con due figlioletti da crescere. Fu così che lei ritenne opportuno supplire in tutto il marito, inserirsi nell’unica attività redditizia del borgo e divenire pescatrice in proprio, sorretta da intelligenza e da necessità, donna coraggiosa e intraprendente per naturale attitudine. Il grande amore di Genoveffa furono i bambini, la cui compagnia era per lei un vero diletto che le permetteva di praticare una pedagogia che andava dall’istruzione del buon comportamento all’iniziazione alla morale della vita sociale. Ammoniva che la sua era «una casa dove chi non travagghia non mancia» (chi non lavora non mangia) ed era creativa e grande narratrice di storie di mare, metafora didascalica di quelle umane, letterariamente erede di Esopo e di Fedro. Si racconta che quando si intratteneva con il gruppetto dei caruseddi (ragazzini) ripagava la pazienza dell’uditorio con la ricompensa di noccioline o di fichi secchi, qualche confetto e simili rare prelibatezze pescate dalle capienti tasche della nera fadetta, il grembiule. La sua storia non ricalcò il triste destino inscritto nel nome della leggendaria contessa di Brabante, Genevieve, misera esiliata col figlioletto in un bosco oscuro della Francia, perché con l’andar del tempo l’esperta pescatrice Genoveffa si era dotata di una mezza dozzina di barche sotto la sua direzione e dell’ingaggio dei dieci figli di suo fratello Giuseppe come personale di bordo a pesca di triglie, acciughe, saraghi, occhiate… che si vendevano in collina dentro ceste foderate di alghe. La si ricorda come una donna libera da finzioni e ipocrisie, che godeva di grande rispetto sia in famiglia che in paese, che anziana usava sedere al tavolo a discutere alla pari con gli avventori del nuovo Bar Tartaruga da poco avviato dal nipote nella previsione presto avveratasi di un’attività turistica fiorente. La sua piccola lapide funeraria porta nell’iscrizione, insieme alle date (21-7-1873/5-1-1961), una foto che ritrae il busto dell’anziana dagli occhi scuri e vivaci seppure infossati nell’orbita, zigomi evidenti e un sorriso stretto fra labbra sottili. La pettinatura liscia e appiattita non gode di ricercatezze, mentre i tratti levigati dal vento e dal salso sembrano marcare la pioniera anche nella camicia a quadrettoni e consentono di definire l’intenzione di questo scatto nel voler comunicare una vita di lavoro continuativo. Le parole incise nell’elogio parentale confermano l’eccezionalità del personaggio: «Qui giace Genoveffa Collica Damiano, che fu donna impareggiabile nel sacro culto del lavoro e negli affetti famigliari, i figli riconoscenti e memori».

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