Titolo dato alla “Storia” di Genoveffa
Colica amorevolmente e magistralmente “raccolta” dall’amica Franca Sinagra –
pubblicista, con Laurea in Materie Letterarie, già insegnante nella Scuola
pubblica Italiana – che la ha recentemente data alle stampe. Grazie. A est
del promontorio tirrenico chiamato Capo d’Orlando, proteso di fronte alle Isole
Eolie, cent’anni fa il paesaggio costiero della baia di San Gregorio presentava
un’insenatura paradisiaca orlata da spiaggia chiara e soffice, estesa per
almeno cinquanta metri sotto il pelo dell’acqua luccicante e tanto trasparente
da potervi riconoscere i grandi carapaci intarsiati delle tartarughe, così
docili che si pescavano afferrandole a braccia nude. C’è ancora oggi un hotel
connotato sulla facciata da grandi sagome ferree di tartarughe marine, di cui
non c’è spiegazione se non nel ricordo storico di una donna speciale che visse
sapientemente fra terra e mare, in incontrastata fluida contiguità. C’era là un
tempo la pescatrice Genoveffa, giovane vedova fra i pochi abitanti dell’isolata
frazione a mare dell’antica Naso, quando nei mesi estivi l’arenile era arredato
vivacemente dalle strisce multicolori dei piccoli gozzi all’ancora e in secca,
attorno ai quali si muoveva varia umanità, anfibia se percepita
nell’immaginario. Dietro le barche un gruppo di casette a pianterreno stava
pigiato fra la battigia e l’aspra altura retrostante che ne chiudeva l’accesso
alla terraferma. Tutte le giornate di tempo buono Genoveffa andava a pesca sul
suo gozzo che scivolava bordeggiando fra grandi faraglioni e affioranti scogli
rocciosi rivestiti di gustose patelle, anticamera alla cala. Oggi una strada
asfaltata, solcando la roccia dietro i faraglioni, conduce verso l’abitato
della nuova cittadina migrata da San Gregorio oltre il rosso faro erto a
guardia del Capo di Orlando da cui prese il nome. Il romanziere Vincenzo
Consolo ci ha lasciato della baia una descrizione evocativa di antichi fatti
ricchi di avventura e di tragicità: «In cima al capo, i ruderi d’un castello e
un santuario della Madonna dei pescatori pieno d’ancore, timoni, ex-voto di
caicchi, gozzi, velieri in balia di fortunali. Il capo prende il nome da
Orlando, il più furioso dei paladini di Carlo Magno. Doppiato il capo, v’è la
cala di San Gregorio, il villaggio dove di notte sbarcavan i pirati. “Terrore a
la riva: la furia dei ratti trae fra gli strilli la gonna come bandiera / e il
corsaro dagli occhi di nera porcellana / da la barba serpentina: / la
scimitarra stride con l’arma paesana…”». Poi, scovato il ritratto vivente di
una donna dalle qualità magiche, ce lo regala: «Qui abitava zia Genoveffa. La
vecchia fattucchiera che tagliava col coltello dal manico bianco le trombe
marine toglieva il malocchio con fumigazioni di rametti d’alloro, erica,
rosmarino. Qui era un tempo la città antica di Agatirno». La figura di
Genoveffa Colica (o Collica) (Castell’Umberto 1873 – Capo d’Orlando 1961) non è
solo folclorico, ma individua il locale pionierismo imprenditoriale femminile,
in questa pescatrice di professione, anomalia nell’epoca maschilista e che oggi
è considerata donna eccentrica ed emblematica. Andava infatti a pesca sul gozzo
come gli uomini, navigava a remi e come loro conosceva la rotta costiera e le
costellazioni. A renderle attributi eccezionali c’è il fatto che praticava
magie sia per contrastare le cattive situazioni personali di compaesani e
compaesane con risoluzioni di immediato intervento nello “sbuddere”
(sciogliere) il malocchio, sia per affrontare gli elementi naturali, tempeste a
mare e tornado che lei sapeva “tagliare”. Genoveffa possedeva delle
caratteristiche magiche insite nelle possibilità individuali femminili,
acquisite fin dall’antichità classica tanto che erano considerate nella
normalità del suo vivere sociale. La sua figura evoca un ruolo quasi
leggendario in cui è possibile dunque riconoscere varie eccezionalità. Fu
governatrice riconosciuta del buon vivere nella sua minuscola comunità e, nella
descrizione della pronipote Daniela Trifilò, Genoveffa fu «donna stimata da
tutto il paese, una donna che da sola teneva a bada tutti i pescatori andando
in mare anche lei, diventando ben presto donna temuta ma rispettata, tanto si
faceva con il suo permesso, nulla si faceva senza il suo benestare, era una
forza di inspiegabile caparbietà, una donna dal carattere duro ma nello stesso
tempo di una generosità infinita con un indefinibile amore verso il prossimo».
Si riconoscerebbe in lei l’autorità di una adombrata matrilinearità, sottintesa
ma praticata apertamente nell’intenzione, quasi un residuo di matriarcato. Le
formule magiche per tagliare le tempeste probabilmente le erano state
comunicate e affidate nella convivenza con i pescatori liparoti, approdati
nella baia per maggiore pescosità o per libera estensione del campo di lavoro
marittimo ed è lecito pensare che da questo le sia arrivata e trasmessa la
conoscenza e l’autorità della pratica magica delle pescatrici delle Eolie, con
le quali c’erano solidi rapporti di madrinaggio. La ricerca sulle tradizioni
orali nel territorio nebroideo riporta, a conferma delle pratiche magiche
condivise da Genoveffa, questi versi interessanti che sono scongiuri “pistagghiari
u sufuni”, cioè per tagliare la tromba d’aria: rivolgendosi alla tromba d’aria
si fa il segno della croce, si recita il Padre nostro e poi la formula «Pi lu
Patri, pi lu Figghiu e ppi lu Spiritussantu, - iu ti tagghiu cu stu cutieddu
bbiancu! - Pi lu Patri, pi lu Fugghiu e ppi lu Spiritussantu, - iu ti tagghiu
cu stu cutieddu santu! - Si nun ti vo’ tagghiari, - pi ‘nnautri tri vvoti t’àju
a rripitari!». Le formule per togliere il malocchio sono diffuse e simili fra
loro nelle contrade della costa tirrenica. Il carattere rude di Genoveffa, la
sua quotidiana relazione con gli uomini nel duro lavoro sulle barche,
l’esperienza dell’offerta di ricovero e ospitalità a pescatori stagionali e
altri avventori, forse avevano rafforzato, insieme all’acume, la necessità di
comportamenti e parole definitive e inequivocabili a chiarire le sue scelte di
comportamento e a determinarne le conseguenze. Sempre la vita avventurosa è
stata obbligata a esprimersi con un linguaggio altrettanto forte, rude perfino,
perché contaminato dagli incontri con i personaggi che nella baia si
presentavano in vari ruoli. È registrato a quei tempi uno scambio di
popolazione fra le isole e la costa siciliana, causato da interesse alla
pescosità delle acque: in primavera i liparoti che arrivavano dalle isole nella
sponda poco più a sud trovavano un ricovero accomodante presso Genoveffa, che
conosceva bene le necessità e le incognite del comune mestiere. Studi recenti
sono fioriti sulla questione del recupero della storia femminile, soprattutto
per interesse di donne colte che indagano la realtà di maghe di medicina,
psicologia e attitudini varie sempre travisate. L’antropologa Macrina Marilena
Maffei recupera vicende di pescatrici in Donne di mare. Una storia sommersa
dell’arcipelago eoliano, dirimpettaie delle orlandine dall’era della Civiltà
Milazzese. Donne che avevano imparato a dare il nome ai venti, a padroneggiare
le rotte costiere, erano abili nocchiere a scorgere vortici e tornado, a
presagire la potenzialità rabbiosa delle onde nel mare lungo, a leggere le
costellazioni, a salpare le nasse, a trascinare le barche a secco. Come
Genoveffa, le eoliane erano pescatrici a mani nude di tartarughe, in un’epoca
in cui il mare ne era affollato da gennaio a febbraio, pesca miracolosa per il
sostentamento della famiglia. Maffei rivendica che «è la storia locale a
illuminare figure e modalità di vita che caratterizzano il territorio. Vite
singole implicate sempre nella storia collettiva dei luoghi». All’arrivo
dell’estate nella baia di San Gregorio un’altra attività di rilievo umano e di
responsabilità sociale attendeva Genoveffa, di carattere aperto, attivo e
perfino manesco, seduta mattinate intere col mento appoggiato sull’impugnatura
del bastone, nel ruolo di tutela dei contadini portatori di bozzoli di seta
alla pesa sulla stadera e alla contrattazione qualitativa presso il
distaccamento stagionale della Finanza. Nella sua storia di vita Genoveffa
risulta ventiduenne nel contratto di matrimonio, celebrato a giugno del 1896,
dove è qualificata filatrice, ovvero coltivatrice del baco da seta, produzione
allora molto comune nelle tiepide zone collinari fin dai tempi della
dominazione araba, quando sposa Carmelo Domiano, ventiseienne villico o uomo di
campagna, che pare fosse più gracile e di lei più basso. Ancora si racconta che
li si vedeva passare sulla strada erta verso Naso, il marito seduto in groppa
all’asino e lei più forzuta al seguito, appiedata e con le scarpe annodate coi
lacci intorno al collo, da indossare all’arrivo per senso di eguaglianza e di
benessere. Per suo cattivo destino Carmelo si era trovato il 28 dicembre del
1908 a Messina, travolto nel disastroso terremoto lasciando Genoveffa di soli
34 anni vedova con due figlioletti da crescere. Fu così che lei ritenne
opportuno supplire in tutto il marito, inserirsi nell’unica attività redditizia
del borgo e divenire pescatrice in proprio, sorretta da intelligenza e da
necessità, donna coraggiosa e intraprendente per naturale attitudine. Il grande
amore di Genoveffa furono i bambini, la cui compagnia era per lei un vero
diletto che le permetteva di praticare una pedagogia che andava dall’istruzione
del buon comportamento all’iniziazione alla morale della vita sociale. Ammoniva
che la sua era «una casa dove chi non travagghia non mancia» (chi non lavora
non mangia) ed era creativa e grande narratrice di storie di mare, metafora
didascalica di quelle umane, letterariamente erede di Esopo e di Fedro. Si
racconta che quando si intratteneva con il gruppetto dei caruseddi (ragazzini)
ripagava la pazienza dell’uditorio con la ricompensa di noccioline o di fichi
secchi, qualche confetto e simili rare prelibatezze pescate dalle capienti
tasche della nera fadetta, il grembiule. La sua storia non ricalcò il triste
destino inscritto nel nome della leggendaria contessa di Brabante, Genevieve,
misera esiliata col figlioletto in un bosco oscuro della Francia, perché con
l’andar del tempo l’esperta pescatrice Genoveffa si era dotata di una mezza
dozzina di barche sotto la sua direzione e dell’ingaggio dei dieci figli di suo
fratello Giuseppe come personale di bordo a pesca di triglie, acciughe,
saraghi, occhiate… che si vendevano in collina dentro ceste foderate di alghe.
La si ricorda come una donna libera da finzioni e ipocrisie, che godeva di
grande rispetto sia in famiglia che in paese, che anziana usava sedere al
tavolo a discutere alla pari con gli avventori del nuovo Bar Tartaruga da poco
avviato dal nipote nella previsione presto avveratasi di un’attività turistica
fiorente. La sua piccola lapide funeraria porta nell’iscrizione, insieme alle
date (21-7-1873/5-1-1961), una foto che ritrae il busto dell’anziana dagli
occhi scuri e vivaci seppure infossati nell’orbita, zigomi evidenti e un
sorriso stretto fra labbra sottili. La pettinatura liscia e appiattita non gode
di ricercatezze, mentre i tratti levigati dal vento e dal salso sembrano
marcare la pioniera anche nella camicia a quadrettoni e consentono di definire
l’intenzione di questo scatto nel voler comunicare una vita di lavoro
continuativo. Le parole incise nell’elogio parentale confermano l’eccezionalità
del personaggio: «Qui giace Genoveffa Collica Damiano, che fu donna
impareggiabile nel sacro culto del lavoro e negli affetti famigliari, i figli
riconoscenti e memori».
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